L’allora cardinale Andrzey Deskur, profondo conoscitore della Curia romana, era convinto che in qualche modo misterioso ogni papa scegliesse il suo successore. Egli sosteneva che Pio XII favorì Giovanni XXIII con la sua nomina a patriarca di Venezia, una delle cariche più prestigiose della Chiesa nell’Occidente latino. Già malato, Giovanni XXIII considerava apertamente il cardinale di Milano, Giovanni Battista Montini, l’uomo giusto per completare l’impresa da lui avviata con il Vaticano II.
A sua volta, Paolo VI espresse la sua preferenza per due candidati, Albino Lucani, patriarca di Venezia, e Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Al primo, durante una visita a Venezia, fece dono della stola papale davanti ad una folla plaudente. Al secondo concesse una speciale attenzione che, per chi era addentro alle segrete cose vaticane, divenne abbastanza evidente dopo il Concilio.
Nel 1967 Paolo VI aveva creato Wojtyla cardinale. Wojtyla aveva 47 anni, il secondo più giovane cardinale vivente, quando, nella basilica di San Pietro, ricevette la berretta rossa dalle mani del papa. “So che dovrò mettermi alla prova percorrendo la strada del mio nuovo incarico e che dovrò di nuovo dimostrare di esserne degno”, disse con la caratteristica combinazione di umiltà e di orgoglio nascosto.
In Vaticano era noto come filosofo e come poliglotta. Si muoveva a suo agio fra varie lingue europee: tedesco, russo, francese, inglese, italiano e spagnolo, una facilità che si accompagnava ad una propensione a viaggiare.
Tra Paolo VI e Wojtyla si sviluppò una speciale collaborazione in occasione della stesura della famosa enciclica Humanae vitae.
La commissione istituita da Paolo VI, dopo sette anni di studio, aveva presentato una relazione di maggioranza in cui si affermava che l’opposizione della Chiesa alla contraccezione “non poteva essere sostenuta con ragionevoli argomenti” e che la pratica del controllo artificiale delle nascite non era “intrinsecamente un male”. Nove vescovi votarono a favore della relazione, tre contro e tre si astennero. Wojtyla era membro della commissione e, benché non fosse presente il giorno del voto, si batté con forza contro qualsiasi cambiamento nella dottrina della Chiesa in materia di controllo delle nascite.
Paolo VI aveva profonda comprensione per i cattolici che volevano pianificare la propria famiglia. Tuttavia, era veramente a disagio di fronte alle raccomandazioni votate dalla sua commissione. Non voleva essere il papa che inaugurava nella Chiesa un nuovo approccio alla sessualità.
Nacquero due cordate, una contraria, guidata dai cardinali Ottaviani e Wojtyla, che presentarono al papa una vasta documentazione per sostenerne la contrarietà. Una seconda, da parte della maggioranza della commissione papale di cui era copresidente il cardinale Julius Dopfner di Monaco, che presentò una vasta documentazione a favore della liberalizzazione.
Alla fine furono le tesi e i materiali di Wojtyla a dimostrarsi decisivi nell’aiutare il papa a optare per il mantenimento del divieto della contraccezione artificiale.
La Humanae vitae provocò nella Chiesa cattolica un uragano di proteste. Ma Wojtyla, enormemente soddisfatto, la difese strenuamente in pubblico.
Questa decisione legò Paolo VI sempre più strettamente al cardinale Wojtyla, che da quel momento iniziò a ricevere regolarmente in udienza. Fra il 1973 e il 1975, arcivescovo di Cracovia entrò undici volte nello studio del papa per sole udienze private. Poi, nel 1976, Paolo VI riservò a Wojtyla l’onore di un invito straordinario: gli chiese di predicare in Vaticano gli esercizi spirituali di Quaresima per i membri della Curia e la casa pontificia.
La sera di lunedì 16 ottobre, Karol Wojtyla fu eletto papa. Era il primo papa non italiano degli ultimi 450 anni, un papa giovane, di cinquantotto anni. Il collegio cardinalizio aveva compiuto l’inimmaginabile, avevano scelto un papa di un paese satellite dell’Unione Sovietica, la Polonia, con un governo marxista e ateo.
Le strade di Warsavia, all’annuncio, si riempirono all’inverosimile, le chiese erano stracolme. La gioia delle persone sfiorava l’estasi, come se Natale, Pasqua e il giorno dell’indipendenza fossero arrivati tutti insieme. Le campane delle chiese spargevano il loro rombo all’unisono, come in un temporale di autunno. Da Cracovia a Danzica, da Wroclaw a Lublino, l’intera nazione era in preda alla felicità. Per i cittadini, la sua elezione, era un dono di Dio e della Santa Vergine alla fede della Polonia.
Ma gli uomini del Politburo (comitato centrale del partito comunista) polacco avevano una visione diversa; molti di loro erano convinti che la scelta di Wojtyla fosse stata pilotata dagli Stati Uniti. Il burattinaio, l’uomo che aveva tirato le fila dell’intera faccenda, era Zbigniew Brzezinski, feroce anticomunista, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano Jimmy Carter. Si dava per caso che Brzeziski fosse anche nato in Polonia.
Il giorno successivo, il 17 ottobre, l’ambasciatore sovietico si recò nella sede del comitato centrale. L’uomo di Mosca era agitato mentre studiava i rapporti su Wojtyla. Ascoltò le fiduciose spiegazioni del compagno Kania, responsabile dei rapporti con il Vaticano, di continuare sulla politica di riavvicinamento già concordata con il Vaticano. Al termine della riunione il russo parlò. “Se finora non avete avuto buoni rapporti con Wojtyla”, osservò con asprezza, “potete solo aspettarvi che le relazioni con il Vaticano peggiorino”. “… e di molto” osservò di nuovo il russo.
La mente di Kania in quel momento tornò al momento in cui aveva telefonato a Gierek per dargli la notizia.
“Santa Madre di Dio!” aveva esclamato il primo segretario del partito comunista polacco.
Alle 10.07 del mattino del 2 giugno 1979 l’aereo dell’Alitalia si posò sul suolo della capitale polacca, In quell’istante tutte le campane della Polonia si misero a suonare, e dal mar Baltico ai monti Tatra, dalla Slesia al confine con l’Unione Sovietica, il paese fu invaso dai loro rintocchi. “E’ il mio ritorno in patria, torno a quella chiesa da cui sono venuto” disse il pontefice ad un giornalista polacco. Nel 1966, i dirigenti del partito comunista polacco, su pressione dei falchi del Cremino, di Berlino est e di Praga, avevano rifiutato a papa Paolo VI il permesso di visitare la Polonia.
Durante l’atterraggio il pilota, dalla cabina, poteva già scorgere la fiumana di persone in marcia verso il centro della città e una folla impressionante che si assiepava ai lati della strada che il papa avrebbe percorso una volta sceso dall’aereo.Il viaggio fu un successo, si rivelò una spettacolare dimostrazione di forza e di lucidità.
Altrettanto spettacolare -almeno nelle sue implicazioni- fu un incontro fra due uomini che sarebbe avvenuto a Roma non molto dopo l’elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti. In Vaticano, all’ora stabilita, un omone dall’aria arruffata, vestito di grigio, con una fisionomia così poco appariscente che pochi al mondo lo avrebbero degnato di una seconda occhiata, venne introdotto nel modesto studio del papa. Un fervente cattolico che andava a messa quasi tutti i giorni, un uomo che aveva la sua casa piena di statue della Madonna, un credente che entro pochi minuti si sarebbe raccolto in preghiera con il papa in persona: William Casey, direttore della Central Intelligence Agency statunitense, la CIA, giungeva a Roma, insieme a Vernon Walters, con una missione decisamente terrena. Stava per consegnare a Giovanni Paolo II una sola, eccezionale fotografia, scattata da uno dei satelliti spia americani a centinaia di chilometri dalla terra.
Nel suo studio privato il papa esaminò con cura infinita questa foto, mettendone a fuoco a uno a uno tutti i particolari: prima un’immensa moltitudine di persone, minuscoli, indistinti pentolini su una superficie piatta; poi, al centro, un puntolino bianco solitario che, si accorse era lui stesso, nella sua veste bianca. Mentre parlava ai suoi compatrioti in piazza della Vittoria, nel 1979.
Era solo la prima di dozzine di altre foto scattate dai satelliti della Cia che avrebbe esaminato negli anni a venire.
In quell’incontro svoltosi nella massima riservatezza, un incontro che sarebbe stato rivelato al mondo solo un decennio dopo, Casey usò la fotografia per suggellare l’alleanza ufficiosa e segreta fra la Santa Sede e il governo del presidente Reagan: un’alleanza stretta allo scopo di accelerare il mutamento politico più profondo del nostro tempo. Questi due uomini, uno acclamato da milioni di persone come il principe della luce, l’altro deriso da molti come il principe delle tenebre, si sarebbero incontrati ancora mezza dozzina di volte prima che il comunismo crollasse, nell’amata Polonia e poi nell’Europa orientale, infine nella stessa Unione Sovietica. Ma di tutti questi incontri il più carico di significati fu il primo.
Sebbene negli anni seguenti il Vaticano abbia cercato di cancellare l’impressione che questi rappresentanti così diversi del potere nel mondo avessero stretto una nuova santa alleanza, da quel momento in poi il papa avrebbe ricevuto qualsiasi informazione di rilievo venuta in possesso della Cia non solo relativamente alla Polonia, ma anche ad altri argomenti di notevole importanza per Wojtyla e la Santa Sede.
Altrettanto sbalorditiva fu la natura religiosa di alcune delle conversazioni di Casey e il papa. Oltre a parlare degli avvenimenti che stavano sconvolgendo il mondo in Polonia e in America Centrale (dove gli Stati Uniti e la Chiesa stavano combattendo i preti, i vescovi e i movimenti politici che consideravano vicini alla Teologia della Liberazione e al socialismo), il capo della Cia e il sommo pontefice si addentrarono in conversazioni di carattere intimo e spirituale, Come avrebbe rivelato molti anni dopo la vedova di Casey, Sophia, “ognuno chiedeva all’altro di pregare”. È fuori questione che il papa offri a Casey la sua benedizione. E Casey lo ricambiò con l’equivalente temporale della benedizione della Cia: una massa di informazioni a cui pochissime persone al mondo avevano accesso.
Casey e Reagan erano fermamente convinti che nel mondo ci fosse una terza virtuale superpotenza mondiale -il minuscolo stato del Vaticano- e che il suo sovrano, papa Giovanni Paolo II, fosse in possesso di un considerevole arsenale di armi non convenzionali che potevano spostare l’equilibrio della guerra fredda: specialmente con l’aiuto -palese o nascosto- degli Stati Uniti. Che il papa non stesse sognando il crollo del comunismo, che i suoi interessi non corrispondessero necessariamente a quelli dell’amministrazione Reagan in molte e svariate sfere, a Casey e Reagan importava poco: avevano semplicemente intuito quanto il pontefice era in grado di compiere e in che modo la sua azione poteva dare un impulso decisivo alle loro politiche globali.
“Quante divisioni ha il papa?” chiedeva sprezzante Stalin durante la seconda guerra mondiale. La risposta a questa domanda non sarebbe tardata ad arrivare: una risposta che avrebbe immensamente sorpreso e contrariato il Politburo dell’Unione Sovietica. Wojtyla era diventato l’ispiratore e il protettore supremo di Solidarnosc, un’organizzazione sindacale non comunista all’interno dell’impero sovietico. Solidarnosc riceveva aiuti finanziari dall’Occidente, e Casey aveva già fatto i passi necessari affinché questi contributi continuassero ad affluire. Adesso per la politica estera americana la priorità massima -Casey ebbe a informare il papa- era la Polonia. A Washington, Reagan, Casey e Walters, nominato da Reagan, ambasciatore itinerante, avevano esaminato la possibilità di “far uscire la Polonia dall’orbita sovietica” con l’aiuto del Santo Padre: a loro avviso Solidarnosc e il papa potevano costituire la leva per sradicare la Polonia.
Al Cremino Micalhail Gorbaciov, da poco entrato nel Politburo e nella segreteria del comitato centrale, aveva già notato il pericolo, che da quei due luoghi, minacciava il socialismo. Dieci anni dopo, quando si parlò per la prima volta della santa alleanza tra gli Stati Uniti e il Vaticano, Gorbaciov avrebbe scritto: “Si può dire che tutto ciò che è avvenuto negli ultimi anni nell’Europa orientale sarebbe stato impossibile senza l’impulso del papa e senza il ruolo eccezionale, anche politico, da lui svolto sulla scena mondiale”.
I dirigenti di Solidarnosc erano agli arresti o costretti alla clandestinità, un nuovo leader stava per assumere il comando: il pontefice.
Vernon Walters incontrando il papa gli spiegò che l’amministrazione Reagan stava prendendo una serie di misure per garantire che Solidarnosc continuasse a ricevere l’aiuto finanziario e logistico degli Stati Uniti, se necessario, perchè potesse operare clandestinamente.
Il segreto più importante nella fase finale della guerra fredda fu forse che -nel periodo compreso fra la visita del presidente Reagan al papa nel 1982 e l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989- il governo degli Stati Uniti spese più di 50 milioni di dollari per tener in piedi il movimento di Solidarnosc. Giovanni Paolo II, naturalmente, era informato degli obiettivi ambiziosi di questa operazione condotta dalla CIA (sebbene facesse attenzione a non lasciarsi coinvolgere troppo in simili dettagli).
Walters accennò al papa di aver recentemente compiuto alcuni viaggi in America Latina e in Africa. Wojtyla gli chiese una valutazione della situazione politica in Argentina e Cile, due nazioni sotto una dittadura militare e prossime tappe dei viaggi di Woytyla.
Walters rispose che gli Stati Uniti desideravano assistere, in entrambi i paesi, ad una transizione pacifica alla democrazia, ma cercavano di evitare che forze di sinistra allineate con Cuba o con l’Urss traessero vantaggio dalla situazione. Lo stesso valeva per El Salvador e il Nicaragua.
Walters parlò degli “sforzi degli Stati Uniti per migliorare la situazione relativa ai diritti umani nelle Americhe senza causare un imbarazzo controproducente ai governi locali gridando ai quattro venti le loro mancanze”. Questo valeva soprattutto nel caso di El Salvador, egli disse. Negli anni in cui gli Stati Uniti avevano pubblicamente condannato certi governi nello sforzo di modificarne il comportamento -tiferimento alla politica dei diritti umani dell’amministrazione Carter- la violenza, secondo Walters, era in realtà andata intensificandosi. “In El Salvador”, proseguì il generale, “disponiamo solo di cinquanta militari addetti alla sicurezza; i sovietici ne hanno più di trecento nel solo Perù, più di quanti gli Stati Uniti ne abbiamo in tutta l’America latina, se si esclude la base di Panama”.
La vera crisi stava per scoppiare in Nicaragua, dove l’amministrazione Reagan intendeva mettere a punto la sua politica per l’America centrale. “I nicaraguensi hanno pezzi da 152 millimetri e carri armati di fabbricazione sovietica; i loro piloti vengono addestrati in Bulgaria. Noi stiamo cercando una soluzione pacifica che non metta a rischio la vita e la libertà del popolo latinoamericano”.
Walters non disse al papa che proprio mentre stavano parlando, l’amministrazione Reagan stava preparando in Argentina una forza di “Somozisti” -i Contras- né che stava inviando molti altri consiglieri americani in El salvador e in Honduras. Lo avrebbe fatto, in seguito, il capo della Cia, Casey.
Secondo Walters, la teologia della liberazione stava dilagando nella regione, e il papa ne convenne. Sia gli Stati Uniti sia la Santa sede avrebbero usato i loro rispettivi poteri per circoscrivere l’importanza del fenomeno.
Walters e il papa erano insieme da poco meno di un’ora e Walters aveva resistito alla tentazione di porre al pontefice le domande più importanti. Ciò nonostante, si rese conto che Giovanni Paolo II stava diventando sempre più comprensivo nei confronti degli obiettivi più ampi della politica americana e più consapevole degli interessi comuni della Chiesa e degli Stati Uniti. Quando un monsignore fece capolino alla porta per ricordare al papa che era ora di passare all’appuntamento successivo, Wojtyla lo aveva congedato con un gesto della mano.
Al termine Walters fece al papa una confidenza privata: gli raccontò di essersi trovato in piazza San Pietro quando si era levata la fumata bianca ed era stato pronunciato il nome del cardinale di Crocovia, Wojtyla, come nuovo successore al trono di Pietro. Allora Walters aveva commentato con un suo conoscente: “Ho appena sentito il battito d’ali dello Spirito Santo”.
Il papa guardò Walters dritto negli occhi e disse lentamente; “Abbiamo bisogno ora dello Spirito Santo, in questo momento difficile”. “La nostra Chiesa ha una guida ferma e sicura, Santo Padre”.
La visita al papa rafforzò la convinzione di Walters, “egli capisce il comunismo come nessuno dei suoi predecessori. Inoltre, in Polonia, la sua Chiesa non è stata mai investita dalle convulsioni sociali e religiose che hanno scosso il mondo occidentale dopo la guerra”.
Walters prevedeva che il papa avrebbe potuto essere d’aiuto agli Stati Uniti praticamente in tutte le aree di interesse vitale per l’amministrazione Reagan: l’Europa orientale, l’America centrale, il Medio Oriente, il terrorismo, il controllo degli armamenti, e le fondamentali questioni morali della sfera pubblica. Il papa, concludeva Walters, era come “un potentissimo propellente”.
America centrale e latina
Il nome in codice dato dalla CIA alla Chiesa Cattolica dell’America centrale era “ l’Entità”. L’Entità era molto importante nei progetti dell’amministrazione Reagan per combattere il comunismo, i movimenti filomarxisti e la teologia della liberazione in America latina.
L’amministrazione Reagan aveva deciso fin dai primi giorni del suo insediamento che il governo sandinista del Nicaragua, di tendenza marxista, doveva essere rovesciato. Per realizzare questi piani la Cia di William Casey stava finanziando l’esercito dei Contras, quattromila uomini in gran parte seguaci della vecchia oligarchia di Somoza, abbattuta dai sandinisti nel 1979 dopo quasi quarant’anni di dittatura sostenuta costantemente dagli Stati uniti. Nel 1982, pressato dalla stragrande maggioranza del Congresso, il presidente Reagan fu costretto a passare una legge che proibiva alla Cia e al dipartimento della difesa di fornire armi, addestramento o aiuti “allo scopo di rovesciare il governo del Nicaragua”. Tuttavia, né Casey, né il presidente intendevano lasciarsi ostacolare da questa legge e così cercarono altri mezzi per finanziare ed aiutare i Contras, cosa che alla fine provocò lo scandalo Iran-Contras.
L’amministrazione Reagan non potendo operare liberamente in Nicaragua, divenne ancora più importante il ruolo del suo principale alleato morale e politico in quell’area: l’istituzione cattolica, l’Entità. Ma in Nicaragua c’era anche un’altra Chiesa cattolica, la cosiddetta “chiesa popolare” allineata con i sandinisti. Al pari del governo, aveva molti consensi, soprattutto nei poveri. Nel 1981 la Cia iniziò a finanziare segretamente le alte gerarchie della Chiesa istituzionale. Il denaro fu particolarmente utile per aiutare l’Entità nicaraguense ad ampliare l’attività della stazione radio e del suo giornale, entrambi usati come piattaforma per l’opposizione al governo sandinista.
Secondo l’ammiraglio Jonh Poindexter, a quel tempo vicedirettore del Consiglio nazionale per la sicurezza: “tenevamo aggiornati i vescovi su quelle che per noi erano le intenzioni del governo nicaraguense e della sinistra nel Salvador (un’altro paese dove i vescovi della Chiesa istituzionale ricevevano i fondi) nonostante fosse stato assassinato mons. Oscar Arnulfo Romero. In Nicaragua questo avveniva direttamente tramite il vescovo”. L’arcivescovo Obando fu raffigurato in una vignetta di Barricada, il giornale sandinista, mentre torceva una croce trasformandola in una svastica nazista.
Quando i membri più importanti del Congresso per i servizi d’informazione, scoprirono all’inizio del 1981, che almeno 25.000$ dei fondi della Cia erano arrivati alla diocesi di Obando, inorridirono e -temendo che la cosa divenisse di dominio pubblico e gettasse discredito sia sul Vaticano sia sugli Stati Uniti- rimproverarono Casey. Rispettosamente, il capo della Cia si impegnò a mettere fine al finanziamento di preti e vescovi con i fondi del servizio segreto. Ma non fu così. Casey convocò un vice, Alan D. Fiers, e gli ordinò di “trovare un altro modo per farlo”. Fiers si recò alla Casa Bianca dal tenente colonnello Oliver North, membro dello staff del Consiglio nazionale per la sicurezza, che iniziò a finanziare Fiers. Il quale si mise d’accordo con un imprenditore privato che lavorava per la Cia affinché si facesse pagare dall’agenzia un prezzo più alto per il suo lavoro, peraltro legale. Il ricarico veniva passato dall’imprenditore ad un agente della Cia in Nicaragua, che a sua volta faceva in modo di consegnarlo all’Entità. Non è noto quante centinaia di migliaia -o forse milioni- di dollari arrivarono segretamente all’Entità durante l’era Reagan, ma la Chiesa di Wojtyla divenne in quel periodo il principale alleato ideologico del governo americano nella lotta contro i sandinisti.
Temendo che la Chiesa dei poveri potesse dimostrarsi un’antagonista troppo forte degli interessi statunitensi in America centrale, soprattutto in Nicaragua e in El Salvador, Casey e William Clark insistevano perchè il papa visitasse il Nicaragua. Suggerirono a Pio Laghi, nunzio apostolico a Washington, che il papa dimostrasse in modo inequivocabile il suo appoggio ai propri vescovi contro la Chiesa dei poveri; Casey e Clark fecero anche capire quanto fosse importante per gli Stati Uniti che Giovanni Paolo II non condannasse i Contras -venerati da Reagan come “combattenti per la libertà”- o la guerra segreta di Washington contro i sandinisti e l’aiuto militare degli Stati Uniti al governo salvadoregno sarebbe potuto saltare. Casey aveva discusso questi problemi anche con il cardinale americano Krol.
“Avevamo un interesse comune nello scoraggiare una testa di ponte comunista in questo emisfero”, osserva Jeanne Kirkpatrich, ambasciatrice presso le Nazioni Unite sotto Reagan. “Il papa è profondamente anticomunista; e durante l’amministrazione Reagan aveva una visione globale del comunismo non dissimile dalla nostra”.
Quando il papa preparò il suo viaggio in America centrale nel marzo del 1983, sia il vicepresidente George Bush sia il segretario di stato George Shultz si pronunciarono contro quello che definivano il sostegno cattolico ai movimenti rivoluzionari in America centrale. Le loro dichiarazioni provocarono una lettera di protesta da parte dei vescovi statunitensi, in cui si sottolineava che i problemi della regione non erano meramente politici -e ancor meno militari- ma essenzialmente “umani e morali” e che il coinvolgimento della Chiesa “rifletteva la sua consapevole opzione per i poveri”.
In questa atmosfera molto tesa il papa atterrò a Managua il 4 di marzo 1983. Per quanto riguardava l’amministrazione Reagan, secondo Jeanne Kyrpatrick “il papa si trovava a Managua per fornire un punto di riferimento alternativo ai cattolici. E noi lo incoraggiammo”.
Quando il papa partì da Roma, il presidente Reagan lo avvertì dicendo che se El Salvador fosse caduto nelle mani dei ribelli di sinistra, le altre nazioni dell’emisfero lo avrebbero seguito. Annunciò il progetto di aumentare il numero dei consiglieri militari statunitensi e di fornire altri 60 milioni di dollari in armi all’esercito salvadoregno.
“Se El Salvador cadrà in seguito alla violenza armata dei guerriglieri, che si guadagneranno una posizione sicura, con il Nicaragua già lì, penso che Costa Rica, Honduras, Panama, li seguirebbero tutti”, predisse Reagan. Tutti e cinque i paesi che egli aveva nominato -insieme al Guatemala e ad Haiti- erano nell’itinerario del papa.
Arrivato all’aeroporto di Managua, Giovanni Paolo II salutò i membri del governo sandinista, c’era un vecchio in blue jeans e berretto paramilitare era un frate trappista. Aveva barba folta, capelli fluenti e sguardo da bambino. Amava la poesia e sognava che la rivoluzione portasse al popolo “pane e rose”. Stava aspettando di essere benedetto dal papa. Il suo nome era Ernesto Cardenal ed era il ministro della cultura nicaraguense. Padre Ernesto si tolse in fretta il berretto nero, si inginocchiò mentre il papa si avvicinava e gli afferrò la mano per baciarla. Ma Giovanni Paolo II la ritrasse e sollevò l’indice sinistro e, rosso in volto, lo rimproverò: “Dovete mettervi in regola con la Chiesa, dovete mettervi in regola”. Poi per evitare ogni contatto con il frate-ministro, il papa unì le mani, voltò leggermente la testa e passò oltre.
La giunta sandinista, legittimata dall’elezioni, aveva inaugurato un vasto programma di riforme sociali: servizio sanitario gratuito, campagna contro l’analfabetismo, riforma agraria, e opportunità di acquisto della casa.
Cinque membri della giunta, tra cui Cardenal, erano preti cattolici o membri di ordini religiosi. Il Vaticano aveva insistito perché si dimettessero dal governo, ponendo le dimissioni come condizione per la visita del papa. Quando il governo si rifiutò di cedere, la richiesta venne ritirata. Tutta la visita, dal momento dell’arrivo del papa, ebbe luogo in un’atmosfera politica surriscaldata. “Fra cristianesimo e rivoluzione non c’è contraddizione”, si mise a gridare un gruppo di sandinisti a Giovanni Paolo II che rimproverava Cardenal. Le loro grida fecero da sfondo al saluto iniziale rivolto da Daniel Ortega al papa all’aeroporto: “La nostra esperienza dimostra che si può essere al tempo stesso credenti e rivoluzionari e che non esiste una contraddizione tra le due cose”. Giovanni Paolo II si limitò a dire che desiderava dare il suo contributo “perché cessino le sofferenze di popoli innocenti in quest’area del mondo, affinché finiscano i conflitti sanguinosi, l’odio e le sterili accuse, per lasciare lo spazio a un dialogo genuino”. Ma i sandinisti non si aspettavano un dialogo. Volevano il cessate il fuoco.
L’ omelia di Giovanni Paolo II fi insolitamente dura. Egli si concentrò esclusivamente sul dovere del cattolico di sottomettersi agli insegnamenti del papa e dei vescovi, anche a costo di rinunciare alle proprie idee. Attaccò la Chiesa dei poveri e ordinò ai fedeli di ubbidire unicamente ai loro vescovi. Wojtyla non fece nessun accenno alla situazione politica del paese né menzionò il coinvolgimento degli Stati Uniti o la guerra dei Contras. Quando il papa però lanciò un altro attacco al marxismo, sottolineando che l’insegnamento della Chiesa doveva essere “libero dalle distorsioni derivanti da ideologie o programmi politici”, i giovani sandinisti incaricati del servizio d’ordine cominciarono a gridare “Potere al popolo!”, slogan che continuarono a echeggiare, ripresi da altri, per un intero minuto. In quei sessanta secondi, la zona più vicina all’altare si trasformò in una bolgia. “Un’unica Chiesa!” gridavano le voci da destra. “La Chiesa dei poveri!” ruggivano da sinistra.
All’aeroporto, prima che il papa tornasse in Costa Rica, Ortega ricordò che il suo popolo era martirizzato e crocifisso ogni giorno, e che noi abbiamo tutte le ragioni di esigere solidarietà.
Il segretario dei vescovi dell’America centrale diffuse un comunicato chiedendo ai fedeli di pregare in “riparazione per la profanazione della messa”. Giovanni Paolo II definì l’episodio una profanazione dell’Eucarestia e chiese di pregare per “i veri cristiani del Nicaragua”.
Il presidente Reagan e i suoi collaboratori potevano star tranquilli: l’impegno del papa per una linea in sintonia con gli interessi della Casa Bianca, come concordato, era assicurato. Nel Salvador, Costa Rica, Guatemala e Haiti, per tutta la settimana successiva, Giovanni Paolo II si sarebbe attenuto a una linea antimarxista, evitando sortite che avrebbero potuto disturbare l’amministrazione Reagan. Nel Salvador, l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero era stato assassinato nel 1980 per istigazione dei servizi segreti militari salvadoregni, sotto tutela dell’ambasciata americana, perché si opponeva alla brutalità del regime. Il papa lo elogiò blandamente definendolo uno “zelante pastore” non un martire. Giovanni Paolo II parlò dei diritti umani -soprattutto in Guatemala- ma mai contro i regimi militari che si opprimevano il popolo con la “scusa di combattere il comunismo” (vedi documento vescovi degli Stati Uniti).
La formula americana che Vernon Walters aveva delineato e spiegato a Wojtyla per trattare con quei regimi, ora era anche la politica del Vaticano.
In varie occasioni, qualcuno, tuttavia notava in lui una certa tendenza a collocare i propri interlocutori su un punto preciso dello scacchiere teologico e ideologico e in tal caso a non rivolgersi alla loro personalità o convinzioni, ma alle etichette che aveva attribuito loro. Qualche volta sembrava che scegliesse in anticipo le persone che pensava avrebbero ceduto al suo fascino e allontanasse quelle che avrebbero potuto resistergli.
Ad aprile, Giovanni Paolo II, insieme a papa Giovanni 23°, sarà dichiarato “santo”.
Ad ognuno la propria interpretazione.
*Immancabile nota finale:
La personalità più controversa beatificata da Giovanni Paolo II è stato Josemaria de Balanguer, fondatore dell’Opus dei, la misteriosa organizzazione laica cattolica. La beatificazione di Escrivà nel 1992 fu insolitamente rapida -solo diciassette anni dopo la morte, un record moderno. In genere ci vuole sempre mezzo secolo per essere dichiarato “beato”. Molti critici denunciarono che la caso di Escrivà era stato riservato un trattamento speciale. Importanti “testimonianze contrarie” vennero escluse dalle udienze (solo a undici su novantadue venne concesso di testimoniare) e, quando uno degli otto giudici ecclesiastici votò contro Escrivà, il processo non si arrestò, come esigono le leggi vaticane…
Giovanni Paolo II si sente particolarmente vicino all’Opus Dei e ai suoi 75.000 membri sparsi in tutto il mondo. Essi sono quasi tutti profondamente ortodossi in ambito teologico, ciecamente leali verso il papa e molto influenti nei suoi paesi di origine. A causa del grande segreto -e la presunta potenza- l’Opus Dei é stata frequentemente accusata di essere un’impresa di tipo cospiratorio proiettata su tutto il mondo. Dal momento che i suoi elenchi sono accuratamente segreti e tenuti sotto chiave, i critici hanno l’abitudine di chiamarla “santa mafia”. L’Opus Dei ha appoggiato Karol Wojtyla fin da quando era arcivescovo di Cracovia. Il papa é stato spesso invitato a tenere discorsi ai suoi membri. Nei giorni precedenti il conclave che lo elesse papa. Wojtyla andò a pregare sulla tomba di Escrivà a Roma. Come portavoce durante il suo pontificato ha avuto il dottor Navarro Vals, Opus Dei.
Fonte: Carl Bernstein, Marco Politi,
Sua Santità, Rizzoli