11 ottobre 2012
Non c’è dubbio che è colpa dei politici se oggi ci dibattiamo nella pessima condizione civile e sociale in cui siamo. Ma bisogna stare attenti a dire “politici”, perché “politici” erano detti anche i detenuti antifascisti nelle celle del regime, “politici” erano chiamati i galeotti Gramsci e Pertini nella casa penale di Turi, “politici” erano definiti i domenicani imprigionati e torturati dai militari brasiliani nel carcere Tiradentes di San Paulo, e “partito dei politici” era detto nella Francia del 500 il movimento che contro la violenza dei cattolici e degli ugonotti propugnava la tolleranza religiosa, e da cui uscì Jean Bodin che con la sua teoria della sovranità e i “Sei libri della Repubblica” fornì, nel bene e nel male, dei fondamenti teorici allo Stato moderno.
Oggi invece nella vulgata mediatica e nelle chiacchiere da bar i politici sono quelli che rubano. E purtroppo è vero che molti lo fanno, ma è ancora più grave che negli ultimi decenni le istituzioni in Italia siano state cambiate in modo tale che la politica, perduta la caratteristica di servizio e dileggiata come professione non meritevole di rispetto e di pensione come ogni altra, sia stata trasformata, ex lege, in mezzo di arricchimento indiscriminato. Per un accumulo di decisioni di politici anche onesti ma scriteriati, le cariche elettive sono state trasformate in fabbriche della fortuna, grazie alle quali indigenti di ogni tipo, gente del ceto medio, mal laureati e imprenditori di mezza tacca precipitano in vetta alla scala sociale e cambiano la loro vita per sempre. Questi non sono i costi della politica, sono le diseguaglianze al potere, la forbice tra ricchi e poveri che si allarga per decisioni “sovrane”. Del resto c’è della coerenza: il sistema che questi politici sono chiamati a governare esalta e promuove la diseguaglianza, chiamandola meritocrazia.
Non è tuttavia per questo che i “politici”, proprio ora, hanno rovinato l’Italia. Le responsabilità risalgono a scelte anche più lontane, quando per ansia di novità e pragmatismo essi hanno liquidato come indecenti e obsolete le ideologie del Novecento, cioè le idee per cui avevano combattuto, e quando hanno voluto distruggere i partiti, disarmamdo il popolo di ogni strumento per lottare contro legislazioni sbagliate e per concorrere a determinare la politica nazionale.
Chi glielo ha detto ai leaders storici della sinistra di distruggere prima il partito comunista e poi quanto ne era rimasto, in nome di una fatua “vocazione maggioritaria”? La fine del comunismo non voleva dire la dannazione dei valori e dei bisogni per i quali, pur in modo infausto, esso si era battuto. E chi ha detto alla classe dirigente cattolica di chiudere la Democrazia Cristiana, come se con la sconfitta del comunismo essa avesse esaurito la sua ragione sociale? Abbandonare la via dell’unità politica dei cattolici come scelta obbligata per fede, non voleva dire trasferire politica e potere alla Chiesa dei vescovi e far tornare tutti gli altri cristiani alla religione come affare privato, salvo la precettazione nei referendum per la difesa dei valori non negoziabili stabiliti dalla CEI.
È evidente che se al popolo si toglie di mano lo strumento della politica e lo si riduce a fruitore di imbonimenti televisivi, l’inevitabile reazione a una politica devastante e lesiva del bene pubblico è l’antipolitica. Ma chi ha lanciato in tal modo in pista l’antipolitica, non se ne dovrebbe ora dolere. Bossi, e anche Grillo, ne sono i figli legittimi.
Se ora si volesse riassumere in una parola la crisi che ci affligge, dovremmo dire che si tratta di una crisi della rappresentanza. Senza rappresentanza, o con rappresentanze dimidiate e manipolate, non c’è democrazia. Noi abbiamo cacciato la rappresentanza dal Parlamento, e non solo per colpa di Calderoli.
Sicchè la cosa più importante sarebbe ora una buona legge elettorale. Ma tutti pensano alla legge più vantaggiosa per loro, non per il Paese. Dicono che la sera delle elezioni si deve sapere a chi i dadi abbiano consegnato la governabilità del popolo, mentre si dovrebbe sapere se si avranno rappresentanti degni attraverso cui si realizzi l’autogoverno del popolo.
Né si capisce perché Bersani non voglia la proporzionale, ritenendola un fattore di confusione e di instabilità, quando poi si infila nel baraccone delle primarie, dove non si distingue nemmeno tra elettori di destra e di sinistra e che è fonte di tale instabilità da aprire al primo giulivo arrivista la strada per dare la scalata al partito.
E nemmeno si capisce perché Bersani, che viene dalla tradizione comunista, non voglia le preferenze. Certo, c’è il rischio delle clientele, come in ogni elezione. Però le preferenze hanno selezionato la classe dirigente che ha fatto la Costituzione ed ha costruito la Repubblica; e sono state le preferenze che hanno consentito al vecchio partito comunista di trasferire nelle istituzioni i migliori esponenti della sua cultura e delle sue lotte; infatti se le burocrazie di partito avessero messo in lista uno sprovveduto, un socialdemocratico o un disonesto, le sezioni non avrebbero dato i voti per farlo eleggere.