Carissima, carissimo,
ogni epoca storica è supportata da un sogno, sia esso di tipo religioso o ideologico. Oggi, questo risuona insufficiente. Il sogno, religioso o ideologico, non basta e anche quando si cerca di seguire le ultime asfittiche proposte dettate da cammini ideologici o religiosi non ci si sente soddisfatti. La tecnologia, così come il mercato, che a prima vista sembrano rispondere a molti dei bisogni umani, non riescono a sorreggere il tessuto umano più profondo. I singoli soggetti come non mai si sentono abbandonati a iniziative sporadiche e, la maggior parte delle volte, fine a se stesse.
Così la spaccatura tra il pensiero e l’azione è sempre più evidente in tutti gli ambiti della vita umana. Oggi non possiamo dire di essere inquieti solo perché la situazione economica mondiale è giunta quasi al suo totale collasso e perché i diritti di ciascuno e dell’ecosistema sono severamente minacciati. Oggi tutti percepiamo che questo “sistema” assunto da molti quasi per inerzia, non va bene.
Le crisi di democrazia, di mercato, di cittadinanza, si intersecano sempre di più con delle crisi interiori che ci permettono semplicemente di cercare dei colpevoli. Il legame tra la storia e le nostre storie, non è più sottovalutabile. Allora il tentativo di ritrovare attraverso la partecipazione una risposta all’individualismo, non è più un optional. Urge, è fondamentale!
L’individualismo è l’attacco più pericoloso contro la persona umana, noi siamo concepiti come esseri relazionali e comunitari. Oggi più che mai, siamo chiamati a risvegliare la nostra umanità come risposta alla crisi, e a organizzarci per contrastarla, credendo che è possibile.
Se di buone intenzioni si dice che sia lastricato l’inferno, cerchiamo con l’arrivo della primavera di lastricarla di buoni propositi. Proviamo a impegnarci a sviluppare la virtù dell’ascolto. Delle persone e delle situazioni. Un ascolto senza pregiudizi. Profondo. Attento. Al di là delle parole ascoltare i gesti, le speranze, le ragioni degli altri e non solo le nostre. Perché ogni vero cambiamento, ogni trasformazione, ogni miglioramento delle condizioni di vita… inizia da questo tipo di ascolto. Che è qualcosa di più che analisi.
Un proverbio indiano dice: “Prima di giudicare un altro fai sette miglia nei suoi sandali”.
Nei giorni dal 25 al 27 aprile prossimo, molti di noi ci troveremo a Rimini al nostro convegno nazionale dove molti amici: Ettore e Clotilde MASINA, Waldemar BOFF, Riccardo PETRELLA e Antonietta POTENTE, e molti testimoni: Wassim DAMASH e Hanan BANOURA, Palestina; padre Regino MARTINEZ, gesuita domenicano di Haiti; Laatiris MMOUMA e El Khoumani LAMCEN, emigranti lavoratori di Alessandria; Dacia TACACHIRI, Bolivia; Rose NGAMA MPUNDA, Congo; Maria SQUILLACI, gruppo Giovani del GAPA di Catania e Nidia ARROBO RODAS, Equador; ci faranno riflettere sul presente della solidarietà, sull’importanza della partecipazione e della relazione tra memoria e futuro. Avremo così l’opportunità di “capire” senza superficialmente “giudicare”. Chi é interessato a parteciparvi, si può prenotare scrivendo una mail o telefonando allo: 0573/750539. Al termine della lettera troverai tutte le notizie organizzative: luogo, costo.
Segue una riflessione di Frei Betto, domenicano brasiliano che sarà in Italia dal 7 al 12 aprile prossimi per una serie di conferenze, a trent’anni dalla fine della dittatura anni, iniziata 50 anni fa: 1 aprile 1964. Frei Betto fu incarcerato e torturato per 4 anni, dal 1969 al 1972, dalla dittatura brasiliana insieme a altri suoi confratelli, uno dei quali, Frei Tito, si suicidò a seguito delle gravi torture subite.
Antonio Vermigli
Marzo ’64 di Frei Betto
Nel 1964 abitavo a Rio, in un buchetto all’angolo delle strade Laranjeiras e Pereira da Silva. Lì si insediavano i giovani dirigenti della JEC (Gioventù Studentesca Cattolica) e della JUC (Gioventù Universitaria Cattolica), movimenti dell’Azione Cattolica. Lì venivano ospitati spesso i dirigenti studenteschi Betinho, Vinicius Caldeira Brant e José Serra.
Io ero entrato nel corso di Giornalismo dell’Università del Brasile (attuale UFRJ) e tra i miei professori spiccavano Alceu Amoroso Lima, Danton Jobim e Hermes Lima. Di destra, c’era Hélio Vianna, professore di storia, cognato del maresciallo Castelo Branco.
Dal momento del mio arrivo a Rio, dal Minas, il Brasile viveva una fase di turbolenza politica. Si svegliava il gigante addormentato in una splendida culla. Tutto era nuovo sotto il governo di João Goulart: la bossa, il cinema, la letteratura…
La Sudene (Sovrintendenza per lo sviluppo del Nordest) diretta da Celso Furtado, alleata del governatore del Pernambuco, Miguel Arraes, ridisegnava un Nordest libero dal dominio dei colonnelli, industriali e latifondisti. Francisco Julião sosteneva le Ligas Camponesas, che lottavano per la riforma agraria.
Paulo Freire avviava, a partire da Angicos (RN), il suo metodo di coscientizzazione politica dei poveri attraverso l’alfabetizzazione. Concepiva la pedagogia degli oppressi.
Nel sud, Leonel Brizola si scontrava con i monopoli stranieri e difendeva la sovranità brasiliana. Marinai e sergenti dell’Esercito si organizzavano, a Rio, per rivendicare i loro diritti.
“Vedrai che un figlio tuo non fugge dalla lotta”. Tuttavia i figli non avevano sufficiente lucidità per capire che, dopo la rinuncia del presidente Jânio Quadros, nel 1961, le classi dominanti stavano facendo dischiudere l’uovo del serpente…
L’ambasciata USA, che aveva ancora sede a Rio e aveva a capo Lincoln Gordon, si muoveva nell’ombra per aizzare i militari brasiliani – molti dei quali addestrati negli USA – contro l’ordine democratico (vedi “Taking charge: the Johnson White House Tapes – 1963-1964”, de Michael Beschloss).
Chi conosce la storia dei colpi di Stato in America Latina sa che sono stati tutti patrocinati dalla Casa Bianca. Da lì la battuta: Non c’è mai stato un golpe negli USA perché a Washington non c’è un’ambasciata yankie…..
Gli USA, che trovavano inaccettabile l’esito della Rivoluzione Cubana del 1959, temevano l’avanzata del comunismo in America Latina. Il presidente Lyndon Johnson (1963-1969) era convinto che il Brasile fosse vulnerabile all’influenza sovietica quanto il Vietnam.
Fiumi di denaro sono stati destinati a preparare le condizioni per il golpe del 1° aprile del 1964. Ai poveri, che desideravano ardentemente riforme strutturali (chiamate all’epoca “riforme di base”, e ancora oggi non realizzate), gli USA offrivano le briciole delle “ceste basiche”, distribuite dall’Alleanza per il Progresso. Gli imprenditori si organizzavano nell’IBAD (Istituto Brasiliano di Azione Democratica) e nell’IPES (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali).
Gli USA non avrebbero accettato neanche che il Brasile diventasse come l’Egitto di Nasser, un paese indipendente dalle orbite yankee e sovietica. Navi statunitensi dell’Operazione Brother Sam si avviavano verso i nostri porti.
Jango convocò il megacomizio del 13 marzo 1964, alla Central do Brasil. Volevo andarci, ma padre Eduardo Koaik (più tardi vescovo di Piracicaba {SP} e collega di seminario di Carlos Heitor Cony) decise che avremmo approfittato della vacanza per una giornata di studi della direzione nazionale della JEC (della quale facevo parte), ad Itaipava (RJ).
Il 29 marzo, con un biglietto fornito dal Ministero dell’Educazione (cioè da: Betinho, capo di gabinetto del ministro Paulo de Tarso dos Santos), partii per Belém. Nella capitale del Para, mi sorprese il golpe militare, il 1° aprile del 1964. Ebbi difficoltà a credere che il presidente Jango, costituzionalmente eletto, si fosse rifugiato in Uruguai.
Aspettai la tanto propagandata reazione popolare. Il PCB (Partito Comunista Brasiliano), con il quale la JEC manteneva alleanze nella politica studentesca, garantiva che, in caso di golpe, Prestes avrebbe convocato migliaia di lavoratori in armi.
L’Azione Popolare, movimento di sinistra nato dall’Azione Cattolica, prometteva di mobilitare i suoi militanti per difendere l’ordine democratico.
Aspettai invano. Reazioni isolate, compresa quella di alti ufficiali delle Forze Armate, furono subito soffocate senza bisogno di un solo colpo di arma da fuoco. E nessuno credeva che la dittatura sarebbe durata, a partire dal 1° aprile del 1964, per 21 anni.