«Ho rimproverato alcuni mesi fa una donna in una parrocchia perché era incinta dell’ottavo dopo sette cesarei. “Ma lei vuole lasciare orfani sette?”. Questo è tentare Dio». Carissimo papa Francesco, finalmente una parola autorevolmente concreta sul cristiano che “deve fare figli in serie”! Perché, possiamo girarci intorno finché vogliamo, ma, anche se non era scritto in tutte lettere, pulpiti e confessori hanno sempre inteso il dono della vita proprio “come i conigli”, delle cui opzioni personali si sa poco, ma il mio personale animalismo ama credere che qualche vaga intelligenza riproduttiva l’abbiano anche loro. Comunque, non è infondata la presunzione che la Humanae vitae non sia un’appendice della Populorum progressio. Anche se era presente la preoccupazione degli scienziati laici per lo squilibrio tra popolazione e risorse (il cosiddetto “neomalthusianesimo universale”), Paolo VI diceva inequivocabilmente che, poiché “il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole.., per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite” (e anche Francesco conferma che il vincolo è nullo se si accompagna al rifiuto di generare). Si trattava dunque della “disponibilità a trasmettere la vita che Dio creatore di tutte le cose secondo particolari leggi vi ha immesso” e di rispettare “le leggi del processo generativo… riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma piuttosto ministri del disegno stabilito dal creatore. Infatti, come sul suo corpo in generale l’uomo non ha un dominio illimitato, così non lo ha, con particolare ragione, sulle sue facoltà generative in quanto tali, a motivo della loro ordinazione intrinseca a suscitare la vita, di cui Dio è principio… È quindi errore pensare che un atto coniugale, reso volutamente infecondo, e perciò intrinsecamente non onesto, possa essere coonestato dall’insieme di una vita coniugale feconda”.
Quando, nel luglio 1968, venne pubblicata l’Humanae vitae, mi trovavo a dirigere il mensile delle donne di A.C. “Il nostro impegno”. Fu uno choc per la redazione (tutta di donne): decidemmo di ricorrere ad espedienti per pubblicarla in modo da fornire alle lettrici la parola del Papa senza incentivarne troppo la lettura: titolo in latino, taglio basso, uso del “retino” che ingrigisce e rende irrilevante all’occhio l’articolo. Come mai, a quel livello (l’Azione cattolica”!) già allora ci ribellavamo alla parola del Papa che gelava aspettative nate da interventi di ben altro tenore in Concilio?
Nella storia clericale delle religioni resta quella che alle donne appare l’ ”eresia” maschilista l’impronta patriarcale: la donna è esaltata come compagna dell’uomo amata e rispettata, ma appena si parla -in teologia e diritto- di matrimonio e di riproduzione arriva, sola, “la paternità”. Non è un caso che, proprio a partire da qui, esce ovvio il monito (femminista) che, dato che “Dio ha creato l’uomo”, l’uomo si fa dio. Quando Paolo dice che il rapporto uomo/donna, simbolo del rapporto Cristo/Chiesa, è “grande mistero”, l’interpretazione delle donne non pensa in termini neutri. La donna non è solo un corpo e le responsabilità le conosce tutte.
Se paternità e maternità avessero pari dignità almeno nelle parole della Chiesa, molte cose -e certamente l’etica dei valori- si ricomporrebbero in un equilibrio più umano (più cristiano). La castità non è virtù certo maschile e il celibato non ne è il sinonimo: ma nessuna donna pensa di non essere casta perché è sposata. Se la famiglia è una “piccola chiesa”, ovvio che i figli di quella “grande”, una volta fattisi suoi “padri”, vedano le donne come figlie dell’unica Chiesa, possibilmente docili e caste; non madri (della Chiesa). La libertà femminile resta pericolosamente espropriata; e nessuno si accorge che anche nella famiglia umana si è imposta una gerarchia. Le donne sanno che, se l’uomo nel rapporto sessuale non fosse egoista e irresponsabile, non ci sarebbero nemmeno aborti, perché le gravidanze sarebbero solo volute. Per cui la domanda sui mezzi di responsabilizzazione della paternità ha bisogno di risposte: che cosa pensavano i vescovi del Concilio Vaticano II oltre cinquant’anni fa, quando erano abbastanza favorevoli al controllo? A quale responsabilità pensava Giovanni Paolo II quando condannava il preservativo anche nei casi di Aids? Che cosa intendeva l’augurio formulato da Pio XII, che “la scienza medica riesca a dare una base sufficientemente sicura ad una regolazione delle nascite, fondata sull’osservanza dei ritmi naturali”? Resta il suggerimento finale dell’ H.V. che impone “una ascesi, affinché le manifestazioni affettive della vita coniugale siano secondo il retto ordine e in particolare per l’osservanza della continenza periodica” e raccomanda di “creare un clima favorevole all’educazione della castità, cioè al trionfo della sana libertà sulla licenza”? Per tornare alla paternità responsabile, può bastare che “per questo nella Chiesa ci sono i gruppi matrimoniali, gli esperti, i pastori”? Gli uomini, laici o preti, non possono ascoltare solo la propria voce di padri, poco evangelizzati anche affettivamente.
Papa Francesco dice: “Quando dico che è importante che le donne siano più considerate nella Chiesa non è soltanto per dare loro una funzione, come per esempio il segretariato di un dicastero, ma perché loro ci dicano come sentono e guardano la realtà, perché le donne guardano da una ricchezza differente, più grande”. A Francesco lo diciamo con affetto, come facciamo con gli uomini che conosciamo: davvero volete ascoltare?…