Un giorno di luglio, Roberto, libraio di Milano (la Libreria Linea d’Ombra, situata in zona Sant’Agostino e gestita da lui e dalla moglie Chiara, è un luogo che vale almeno una visita), mi scrive:
“Ho appena finito di leggere (ristampato ora dopo cinquant’anni) Conversazioni contadine di Danilo Dolci. È un libro formidabile, sulla linea di Basaglia, Freire, De Martino, eccetera. Due i temi centrali: il rispetto per la parola (dunque per gli uomini) e la capacità di ascoltare (dunque di imparare). È un libro-mondo, illuminante”.
Nel 2014 il Saggiatore ripubblica infatti tale imperdibile opera, la cui prima edizione risale al 1966 per i tipi di Mondadori.
Il volume è costituito di dodici conversazioni -avvenute tra il 1961 e il 1962, registrate mediante un magnetofono e poi trascritte con la collaborazione di Franco Alasia-, che vedono protagonisti venti o trenta abitanti dell’ambiente rurale di Partinico (Palermo) – uomini e donne di tutte le età –, i quali, durante la riunione settimanale dopo il lavoro, a turno si esprimono attorno a una domanda posta da Danilo (ad esempio, “È giusto ammazzare o non è giusto?”; “Deve essere battezzato un bambino? Perché?”; “Che qualità deve avere un uomo per essere un vero uomo?”; “Come deve essere una donna?”; “Cosa vorremmo tenere e sviluppare, e cosa cambiare nella vita di questa zona?”; “… E come cambiare?”; “Cosa è vivere?”; “Cosa è morire?”, etc.).
Scrive il pedagogista Daniele Novara, allievo di Danilo Dolci: “Possiamo definire Dolci come l’educatore della domanda, ossia l’educatore che innesta tutta la sua azione formativa sul chiedere, sull’esplorare, sul creare, sull’interrogazione, ovviamente non in senso scolastico, ma nel senso dello scavo, dell’andare oltre l’apparente, cercando di scoprire «il non-noto», ciò che è velato dalle tradizioni, dalla consuetudine, dagli stereotipi. In questo sta il richiamo all’approccio maieutico, per cui Danilo Dolci è famoso, alla pratica del tirar fuori, del porre gli educati nella condizione di allargare la propria sfera di apprendimento a partire dalla capacità di utilizzare in maniera costruttiva le domande”1.
Danilo Dolci spiega che la scelta dei temi avviene a partire da casi concreti e si precisa progressivamente “a seconda degli interessi dei partecipanti e dello sviluppo della discussione” (p. 9).
Le domande che innescano il confronto sono cioè legittime, colui che le pone non conosce in anticipo le risposte; il contesto in cui si svolge il dialogo è sostanzialmente fondato sull’uguaglianza di tutti gli attanti: non esistono privilegi intellettuali davanti a certe questioni, e le differenze dei singoli (anche dal punto di vista culturale) sono occasioni per ciascuno di imparare.
È interessante notare che nel corso delle riunioni intervengono persone non originarie di Partinico (ad esempio, provenienti dal Nord Europa o dall’India) o di altra estrazione sociale, proprio a chiarire la vocazione universale di questi incontri che hanno radice in una comunità paesana.
Anche chi fa le domande partecipa (poiché interrogare non corrisponde a creare per sé un rifugio); tuttavia, un preciso ordine nel prendere la parola crea le condizioni affinché l’uguaglianza sia rispettata: “[…] Di solito si bada di fare parlare per ultimi coloro che più potrebbero inibire gli altri o per superiorità di cultura o per prestigio o altro: in modo che tutti possano esprimersi” (p. 10), spiega nella premessa Danilo Dolci, il quale si occupa di riassumere, prima della fine di ogni dibattito, le eventuali posizioni comuni raggiunte in merito a ciascheduna questione.
Al termine del giro (in tal modo anche i più timidi – e le donne – possono dire la propria), chi lo desidera chiede la parola e ha inizio una discussione aperta; si continua così a “cercare insieme dal basso” (p. 26), e ciò permette il confronto con l’imprevedibile che il vero discorrere degli uomini reca con sé.
Innanzitutto, qui la parola è mostrata quale via per condividere ed esprimere l’umano, e non per esercitare un potere sulle cose e sugli altri; essa non è uno strumento per ottenere, ma il segno di una sostanziale gratuità, poiché non si sa esattamente ciò che si raggiunge (l’esito sfugge al calcolo). Davanti alla sfida di rispondere (e la risposta non è un banale riempire, ma un inventare trovando), la parola mette di fronte al limite dei propri pensieri e chiede l’ascolto dell’espressione altrui per non spegnersi, per non restare rinchiusa. D’altra parte, solo chi ascolta davvero (cioè non a partire da sé ma dall’altro) consente all’altro di esprimersi pienamente.
Scrive Daniele Novara: “Danilo Dolci concepisce la domanda come suscitatrice di un nuovo modo di collocarsi e di vedersi. La domanda funge in Danilo da mezzo di riconoscimento e di autoriconoscimento. Essa ha valore fondante. È quella che oggi, con altri termini, potremmo definire una pedagogia dell’ascolto, che è ancora una pedagogia maieutica, che ha la sua caratteristica fondamentale nell’idea che l’apprendimento non sia un’acquisizione esterna, ma piuttosto il ricongiungimento interno fra quanto il soggetto è in grado di elaborare e quanto la realtà esterna gli offre da rielaborare. In questo incontro si genera l’apprendimento”2.
Mediante le conversazioni questo libro restituisce infatti al lettore delle vere e proprie trame di storie e ragionamenti.
Come suggerisce Gemma Corradi Fiumara: “Nell’esperienza di un dialogo radicale […] ci si incontra (oppure ci si scontra) con il pensiero nascente dell’altro […]. Se nel parlare dell’altro si arriva a discernere una linea di consequenzialità, al di là di un’apparente frammentazione, l’ascolto si converte allora in processo maieutico”3.
Danilo Dolci mostra dunque la possibilità di autoeducarsi e di educarsi reciprocamente grazie alla parola; la verità non sta nell’accumulo di conoscenza, ma nel percorso condiviso e imprevedibile in cui si lavora sull’esperienza (studio, vissuto, etc.) che ciascuno ha del mondo e del proprio rapporto con esso.
Egli dà prova della possibilità di una società descolarizzata in cui l’imparare sia una pratica della vita intera. “Alla qualità garantita dell’istruzione professionistica” si antepone “l’esito imprevedibile dell’incontro personale autonomo”4, scrive Ivan Illich.
Cercare, trovare, dare la forma, inventare, confrontare, unire e dividere non sono qui la strada per raggiungere un “patrimonio di sapere” che faccia salire “nella gerarchia dei capitalisti del sapere”5. Non sono cioè i primati ad avere significato nel vero apprendere, ma lo sviluppo del pensiero, la comunione di questo, la creazione e la ricerca collettiva per il bene di tutti.
Nel corso della lettura si assisterà persino all’esplicito bisogno da parte di taluni partecipanti di una nuova pratica, cioè di fare sì che il desiderio di cambiamento si trasformi in azione, in attività organizzata (“mimiddu Noi abbiamo fatto qui tutti i giovedì diverse e diverse riunioni. Giovedì passato io non c’ero che veramente ero stanco, venni tardi di campagna e non ci sono potuto venire. Ma tutti questi discorsi che noi qui facciamo, non so, mi pare che cadono così; non abbiamo visto una cosa di tale discussione, di tale riunione che abbiamo fatto. Per me il risultato è questo: veramente ognuno sentisse, che so, il gusto, il piacere di dire: «Abbiamo fatto questo piano. Siamo dieci, venti persone: facciamo questo piano di sviluppo. Noi fecimo sto piano, abbiamo sviluppato sta cosa». Non so se io mi spiego… Invece non abbiamo inteso niente. Si fanno queste parole, ma cadono, muoiono così in fondo al mare”, p. 145).
In questo libro il lettore ha modo di ascoltare anche una lingua viva, che tiene unita la materia e l’immaginazione della vita e dà luce allo stare insieme consapevole e attivo degli uomini.
1 – Daniele Novara, La pedagogia maieutica di Danilo Dolci, p. 30, disponibile su: http://www.cristinacampo.it/public/danilo%20dolci.pdf
2 – Ivi, p. 31.
3 – Gemma Corradi Fiumara, Filosofia dell’ascolto, Milano, Jaka Book, 1985, p. 188.
4 – Ivan Illich, Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2010, p. 74.
5 – Ivi, p. 117.