Caporalato, i 5 volti degli sfruttatori e il ruolo degli “intermediari” mafiosi – Maria Gabriella Lanza

I braccianti morti di fatica in Puglia. Le recenti inchieste di varie associazioni hanno spiegato nei dettagli il fenomeno del caporalato in agricoltura. E come le organizzazioni malavitose si inseriscono facilmente tra la raccolta e la grande commercializzazione

20 agosto 2015

Agenzia giornalistica


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Lavorano per ore sotto il sole cocente, nelle serre asfissianti, curvi verso terra o con le braccia alzate per raccogliere pomodori, arance, uva. Sono il motore fondamentale del mercato ortofrutticolo italiano che ogni anno muove più di dieci miliardi di euro, eppure loro, gli invisibili dell’agricoltura, guadagnano solo due euro all’ora quando non muoiono di fatica. Come è successo a Paola Clemente, una bracciante di 49 anni di San Giorgio Jonico, vicino Taranto, morta lo scorso 13 luglio mentre raccoglieva uva nelle campagne di Andria. Otto giorni prima era toccato a Mohamed, un sudanese stroncato da un malore sotto il caldo torrido nelle distese di pomodori a Nardò. Ieri la procura di Trani ha indagato l’autista del bus che ha condotto Paola nei campi e ha deciso di riesumare il corpo per effettuare la autopsia. Lo sfruttamento dei braccianti nell’agricoltura è un fenomeno che riguarda italiani e stranieri e si regge su regole e prassi mafiose, come ha sottolineato lo stesso ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina.Già lo scorso mese, era arrivata in Commissione parlamentare antimafia la proposta a firma Pd di estendere il 416 bis anche ai caporali.

IL RUOLO DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
Non è difficile per le organizzazioni malavitose mettere le mani nel mercato ortofrutticolo italiano. Il lavoro nei campi è organizzato per lo più dai grandi commercianti che prendono accordi con le aziende di trasporti e le multinazionali per la vendita del raccolto. Nelle maglie larghe di questi passaggi si inseriscono gli interessi della criminalità. Ad accumulare ricchezza sono proprio gli intermediari che lucrano sul lavoro dei piccoli produttori e dei braccianti. Questi ultimi se si ribellano subiscono aggressioni fisiche e stupri. Come si legge nel rapporto #FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno di Expo”, realizzato dalle associazioni “daSud”, “Terra! Onlus”, “Terrelibere.org”, da nord a sud, lo sfruttamento segue le stesse logiche: un uso intensivo di manodopera migrante altamente ricattabile; situazioni abitative al di sotto degli standard minimi della dignità umana; bassi guadagni a fronte di molte ore di lavoro; una “cultura imprenditoriale” basata sull’illegalità e sulla presenza mafiosa; manodopera organizzata in squadre e capisquadra, con conseguente ricorso al caporalato.

CHI SONO I CAPORALI
Sono i grandi commercianti, spesso ditte a conduzioni familiare, a rivolgersi ai caporali locali. Il meccanismo è ormai noto: il proprietario terriero contatta una cooperativa per valutare la quantità di frutta o verdura nel proprio campo e viene pagato in base ad una prima stima. A questo punto intervengono altri intermediari, a volte delle vere e proprie società, che si impegnano a procurare il personale per la raccolta. È in questa fase che il lavoro viene gestito dai caporali. Questi ultimi costringono i braccianti a cedere una parte del loro guadagno per il trasporto nei campi, per gli alloggi nei ghetti dove vengono sistemati in condizioni igieniche pessime e perfino per la spesa al supermercato come avviene nelle campagne vicino Catania.
Secondo il rapporto 2015 di Presidio, il progetto di Caritas italiana a tutela dei migranti che lavorano la terra, sono cinque i ruoli che i caporali possono svolgere. Il primo è il “caporale-lavoratore”, che ha le stesse mansioni degli altri, ma porta manodopera. C’è poi il “caporale-tassista”, che si fa pagare per il trasporto giornaliero sul campo all’inizio e alla fine dei turni. C’è il “caporale-venditore” che porta beni di prima necessità ai lavoratori. Quarto tipo è il “caporale-aguzzino” che impone ad ogni suo sottoposto una tassa: è la tipologia più violenta. Ultimo caso è il “caporale-amministratore delegato” che per ogni segmento della filiera del raccolto ha un guadagno extra. Ribellarsi è impossibile: molti stranieri non sono regolari e temono di essere riportati nel loro Paese d’origine, altri contraggono un debito in denaro con la criminalità organizzata e devono ripagarlo con la fatica delle loro braccia. Gli italiani, invece, hanno paura di perdere il lavoro.

IL CAPORALATO MASCHERATO
Altre volte i produttori si rivolgono per la gestione della raccolta a strutture formalmente legali come le “cooperative senza terra”. Sono formate sia da italiani che da stranieri, non producono ma offrono servizi come la potatura e raccolta. Spesso sono aziende serie, in alcuni casi però si tratta di forme di caporalato mascherato. Dietro un contratto formale con l’azienda committente, infatti, possono nascondersi lavoro nero, decurtazione delle buste paga, evasione contributiva.

IL LAVORO NERO E GRIGIO
Secondo l’ultimo rapporto Terra Ingiusta di Medu, Medici per i diritti umani, nel 2013 sono stati più di 320mila gli immigrati, provenienti da 169 diverse nazioni, impegnati regolarmente nelle campagne italiane. Hanno svolto circa 26 milioni di giornate di lavoro pari al 23,2 per cento delle giornate dichiarate complessivamente, tra italiani e stranieri, in quell’anno. Il lavoro sommerso riguarda il 32 per cento del totale dei dipendenti del settore agricolo, di cui circa 100mila sono sottoposti a gravi forme di sfruttamento e costretti a vivere in insediamenti malsani e fatiscenti.
Per evitare i controlli si ricorre invece al lavoro grigio. Nella maggior parte dei casi un contratto c’è ma serve al datore di lavoro come scudo per le verifiche: è sufficiente segnare poche giornate e nessuno potrà contestare. Formalmente i braccianti non superano mai i cinque giorni di lavoro a settimana. Oltre questo limite, infatti, scattano i controlli. Il salario medio che guadagnano nei campi va tra i 20 e i 25 euro, solo in pochissimi casi tra i 30 e i 40 euro al giorno. E questo nonostante i contratti provinciali stabiliscano un salario di 52 euro.

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