Carissima, carissimo, oggi il problema è che la dialettica politica è sempre più scolorita, si sta svolgendo nel deserto della disaffezione dei cittadini.
Dietro le dichiarazioni sempre più sicure di sé, come vuole il copione, dietro le luci di una politica che viaggia tra giornali, TV, facebook e twitter, vi è l’indifferenza rassegnata dei cittadini, quella che non si vede, quella che non si sente ed é diffusa, piatta e sparsa come in un deserto.
Il diffondersi del rifiuto della politica, dell’indifferenza, del ritorno di qualcosa che somiglia all’oscillare plebeo tra consenso servile e rabbia incontrollata, deve fare riflettere.
Abbiamo bisogno di riflessione, di pensare, di creare la cultura della partecipazione, non di quella accademica dei soloni locali e nazionali, ma di quella politica che assume in sé la necessità della critica.
Ma torniamo al punto di partenza. Partiti che si scolorano, cittadini che si disinteressano.
Siamo sicuri che non vi sia un nesso tra le due cose?
Quando i politici non crederanno più che ai poveri piaccia mangiare promesse?
Quando il mondo non sarà più in guerra contro i poveri, ma contro la povertà?
Quando la politica capirà l’importanza di sperimentare e attuare la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili della propria impresa? Dal pubblico al privato?
Oggi é necessario un nuovo atteggiamento.
La nostra capacità di reazione é fortemente limitata da tre deficit che dobbiamo riconoscere e affrontare: un deficit di conoscenza; un deficit di responsabilità, un deficit di fraternità.
Migranti e rifugiati ci interpellano, sono nostri fratelli e sorelle in umanità, vittime della guerra e delle violenze, del potere tiranniaco o della fame.
Oggi siamo in molti che comprendiamo e denunciamo come sia venuta meno la partecipazione e la fraternità, virtù senza le quali l’uguaglianza e la libertà restano parole vuote.
Com’è possibile che godendo di condizioni migliori sul piano economico, tecnologico, culturale ci sentiamo minacciati dai poveri che bussano alle nostre frontiere?
La vita di una persona non ha forse lo stesso valore indipendentemente dalla terra in cui viene alla luce?
Noi che siamo privilegiati, noi che abbiamo vinto alla lotteria biologica, noi che siamo nati qui, e non in una bidonvelle africana? I diritti, prima di essere quelli di un cittadino di una determinata nazione, devono essere riconosciuti come “diritti dell’uomo” in quanto tale.
Se vogliamo sfuggire al disastro dobbiamo tornare a prenderci cura degli altri, a condividere quello che abbiamo e a camminare insieme.
La cosa interessante è che possiamo incominciare adesso.
Quali politici ci stanno, dal piccolo al grande a lavorare per formare, per educare e sperimentare quadri, stare sul territorio, elaborare culture e progetti a diretto contatto con la gente?
Forse dovremmo riflettere sul tipo di società che stiamo creando, le crescenti disuguaglianze, la mancanza di solidarietà, i conflitti violenti e la razzia delle risorse naturali, penso alla rapina della terra che affligge gran parte dei paesi poveri.
In questo mondo di “diseguaglianza”, gli ultimi dati ci mostrano che la maggior parte della ricchezza del pianeta è concentrata nelle mani di pochissime persone. 400 persone come noi posseggono il 40% della ricchezza del pianeta.
Ogni anno nel mondo si spendono 1750 miliardi di dollari in armamenti, è una cifra difficile da capire, sono 50 mila dollari al secondo, così ci capiamo di più. Uno, due, ne abbiamo già spesi 100 mila. In compenso abbiamo due miliardi di persone che vivono con circa 2 dollari al giorno. Questo è un esempio della diseguaglianza.
Un mese fa all’Expo di Milano, c’è stato un incontro che ci ha consegnato gli ultimi dati sul cibo nel mondo: si produce da mangiare per 12 miliardi di persone, la popolazione attuale è di 7 miliardi e 120 milioni, dei quali un miliardo soffre la fame; mentre il 30% viene gettato!
Di questo dovremmo preoccuparci piuttosto che cercare di costruire “sempre e per forza, un nuovo orticello?”.
La politica non è girare un film, né un video-game, è un atto di fede e di passione verso la storia che si racconta.
Se oggi constatiamo qualunquismo, diffidenza, sfiducia verso le istituzioni nazionali e sovrannazionali, i primi che si dovrebbero interrogare sulle cause sono proprio quelli che esercitano il potere: si chiedano se per loro la politica è servizio verso gli ultimi, verso coloro che fanno fatica, se hanno il senso del bene comune e, si confrontino concretamente con la gente e con il Vangelo, per chi è credente, e non con gli appetiti del loro piccolo campanile.
Anche su questo, migranti e rifugiati ci interpellano.
Ecco perchè dobbiamo chiamarci l’uno con l’altro a responsabilità e a creare un lavoro comune.
Antonio