Il laboratorio di riparazione di strumenti musicali di Gaza, il cielo nero per i gas lacrimogeni, i bambini e i ragazzi palestinesi feriti o uccisi ogni giorno, le strade deserte di Betlemme, la manifestazione che vuole la restituzione dei corpi degli uccisi alle famiglie, la rivolta dei giovani, il saccheggio dei reperti archeologici palestinesi da parte degli israeliani. Breve viaggio nella Palestina che non fa notizia.
Sono tornata in Palestina dopo un anno, per discutere di due progetti che vogliamo realizzare per la campagna Cultura è Libertà: quello “Liutai a Gaza, la musica al lavoro contro la distruzione”, un laboratorio di riparazione degli strumenti musicali, proposto dalla scuola di musica Al Kamandjati, e quello con Miftah, l‘associazione di donne fondata da Hanan Ashrawi. Si tratta di un dialogo in tre parti (1987-2015) tra donne di tre generazioni, palestinesi e italiane – “attraversare i confini, attraversare le generazioni” – che abbiamo messo a punto e per la cui realizzazione stiamo cercando i fondi.
La scuola di musica di Al Kamandjati è situata in una antico edificio di pietra della vecchia Ramallah, adesso ampliato con l’aiuto di un architetto francese, molto tranquillo, dove arriva solo la musica di qualche allievo. Qui, nell’incontro con il direttore Ramzi Aburedwan, verifichiamo con soddisfazione che, i 9.000 euro raccolti nel 2015 in iniziative musicali (realizzate grazie alla solidarietà di diversi artisti, della Casa del jazz, di Libera e della Casa internazionale delle donne di Roma), renderanno possibile l’avvio del laboratorio all’inizio del 2016 – probabilmente con uno spazio messo a disposizione dall’Istituto italiano di scambi culturali a Gaza, diretto da Meri Calvelli, che partecipa all’incontro. Ramzi è molto contento, ma è indispensabile continuare a cercare fondi, per dargli la possibilità di un secondo anno, per poi camminare con le proprie gambe.
Al di là degli incontri di lavoro, che si sono svolti a Ramallah, dove sono stata la maggior parte del tempo, volevo cercare di conoscere e capire la situazione più da vicino, la rivolta dei giovani, le opinioni su di essa. Ramallah, come dicono i palestinesi, è una specie di bolla, molto tranquilla, molta gente per le strade, locali frequentati, da palestinesi e da internazionali. Ma basta solo allontanarsi un po’ per percepire una situazione drammatica. Vado a trovare Fidaa, un’amica che ha studiato e vissuto in Italia a lungo, bravissima cuoca efoodblogger. Adesso non lavora, è in attesa di un bambino. Abita vicino a El Bireh e mi parla degli scontri che ci sono al check point vicino:“Il cielo diventa nero per i gas lacrimogeni e siamo costretti a chiudere tutte le finestre. È una continua tensione”.
Chiamo gli amici di Nablus, mi sconsigliano vivamente di andare, strada non sicura, anche lì scontri quotidiani ai check points, con morti e feriti. Saranno in molti a ripetere la stessa cosa: ogni giorno scontri ai check points e, quel che è tragicamente costante, ogni giorno ci sono ragazzi e ragazze uccisi o feriti.
Le valutazioni sono diverse: tra chi dice che i ragazzi fanno bene a ribellarsi in questo modo all’occupazione e chi lo considera totalmente inutile. Ma in comune c’è un punto: la scuola non educa, non trasmette valori, i ragazzi non sanno niente, neanche del passato recente. Altra valutazione comune è il giudizio negativo sull’Anp, sull’assenza della politica e dei partiti in generale. Incredibile che di fronte a “una strage degli innocenti” come è quella in corso la politica sia ammutolita e inerte.
Il giudizio meno negativo sul governo è che la disperazione dei giovani è anche quella del governo stesso, non saper cosa fare e non avere alcuno strumento per poter cambiare le cose. Non appassiona discutere se si tratta di “intifada” o no: il fatto evidente è che questa rivolta è una denuncia molto chiara del totale fallimento della politica, dagli accordi di Oslo in poi. Ne sono passati di anni, ma sembra che non si sia prodotta nessuna analisi critica, nessuna strategia per un cambiamento. Certo, rispetto alla prima intifada, quando un’intera popolazione era in rivolta, insieme ai ragazzi delle pietre, quando le madri prendevano per il bavero i soldati israeliani sulla porta di casa, quando c’era una organizzazione capillare e strutturata della società, lo scenario di oggi è completamente diverso. I ragazzi e le ragazze delle pietre, qualcuno col coltello, sembrano soli, in una società attonita.
Tutti denunciano la grande corruzione della politica, il degrado anche morale, l’assenza di punti di riferimento. Sento addirittura dire che qualche soldo viene dato ai ragazzi per andare a tirare sassi (che significa qualche volta morire per questo)! Non lo ritengo credibile, ma è impressionante che circolino voci di questo tipo. Sono anche impressionanti le reazioni raccontate, criticamente, di qualche familiare, all’uccisione di un figlio o figlia. Come quella del padre di una giovanissima uccisa, senza alcun motivo, che proclama pubblicamente “l’onore che la figlia ha reso alla famiglia”. Veramente triste.
In realtà i giovani che si ribellano sono alcune centinaia, “ci vorrebbe – dice un’ altra amica – una preparazione, una formazione alla lotta, in modo che fossero a migliaia a scendere per le strade”. È stato interessante ascoltare Munther Amir, uno dei coordinatori dei comitati di lotta popolare, che ho incontrato nel campo profughi di Aida sotto Betlemme, 4.000 abitanti circa, visitato da molti attivisti/e internazionali, come testimoniano le scritte sui muri. Munther vive nel campo e dirige un centro giovani che, dice, intende essere aperto, coinvolgere nelle attività anche le donne. Al centro si inventano molte iniziative per far partecipare la giovane popolazione: “Raccogliamo i lacrimogeni esplosi (il campo ne è pieno) per creare prodotti artistici per Natale, porteremo nella piazza di Betlemme un grande olivo che è stato sradicato dagli israeliani, per manifestare contro l’occupazione, andremo ai check point per manifestare che vogliamo andare a pregare a Gerusalemme. E poi c’è la novità dell’apertura di corsi di musica e di dabka, la danza tradizionale palestinese”. C’è un lavoro continuo per creare occasioni di incontro, di socialità e di espressione, per evitare che i giovanissimi escano a tirare sassi contro i militari israeliani che sono a breve distanza. È un lavoro difficile, spesso non si riesce, perché i soldati entrano nel campo, minacciando e picchiando (mi mostra un video che lo documenta) anche chi, come Munther e gli organizzatori del centro giovani, dichiarano apertamente e praticano la nonviolenza.
“È sempre più difficile – dice Munther – perché oggi non si tratta solo di far fronte alla povertà, caratteristica del campo, e alla frustrazione; oggi i ragazzi si trovano di fronte alla aggressione ed è a questo che si ribellano. L’inizio è stato del tutto spontaneo; poi noi dei comitati di lotta popolare abbiamo cominciato a cercare di organizzare pratiche non violente, ma è sempre più arduo. Perché la violenza israeliana si è fatta più intensa, non arrestano, uccidono”.
A ricordarlo, all’entrata del campo, accanto al grande arco sormontato dalla simbolica chiave del ritorno, c’è la gigantografia di un bambino di tredici anni, Abdulrahman Abud Shadi, ammazzato da un cecchino solo pochi giorni fa. Ad ogni passo c’è una storia triste: il campo è chiuso da una parte dal muro, dall’altra c’è l’hotel Intercontinental, bellissimo edifico dei primi del Novecento dentro cui i militari israeliani si erano asserragliati e tiravano sugli abitanti del campo. Così è morto, qualche anno fa, mentre chiamava il figlio perché rientrasse a casa, il padre di un amico di Munther che incontriamo, uscendo.
Troviamo un’atmosfera distesa, quasi allegra, nella visita alla casa dove abita un ragazzo che è appena uscito da venti mesi di prigione israeliana, che racconta come in prigione le diverse fazioni politiche siano separate (su richiesta palestinese), mentre, dice Munther, nella casa dove ci troviamo sono insieme componenti di tutti i gruppi. Veniamo accolti con la abituale squisita ospitalità: caffè, tè, dolci. Dopo un po’ salutiamo e andiamo, lasciando il posto agli insegnanti che arrivano a congratularsi con il ragazzo e la famiglia.
Betlemme è semideserta, nonostante la vicinanza del Natale, qualche gruppo di pellegrini, molti dei quali africani, nessun turismo: e questo è il dramma economico e sociale che si ripete in ogni occasione di tensione. Di ritorno a Ramallah mi imbatto in una manifestazione di qualche centinaio di persone, ragazzi prevalentemente, ma anche donne con bambini. Mi avvicino ad una di loro per sapere di che si tratta: mi spiega che è una manifestazione che vuole la restituzione dei corpi degli uccisi alle famiglie… Ritorno a casa, leggo che la nuova legge antiterrorismo di Israele prevede la negazione del rito funebre per i “terroristi” uccisi, la sepoltura dei loro corpi in luogo non noto e la distruzione delle loro abitazioni entro ventiquattro ore.
Prima di ripartire, piena di interrogativi e sentimenti contraddittori, decido di trascorrere l’ultima giornata in un bellissimo luogo, Jericho, le cui zone archeologiche sono una delle testimonianze dell’enorme patrimonio della Palestina, che purtroppo nel tempo sia le incursioni militari che i bombardamenti israeliani nonché i saccheggi con relativo commercio illegale di reperti, hanno sottratto ai palestinesi. In particolare nell’area C, sotto il controllo dei coloni, sono stati addirittura costruiti musei ad “ospitare” reperti del patrimonio archeologico palestinese. Si tratta con evidenza di un altro aspetto della politica di esproprio, anche culturale, da parte del governo israeliano.
Bisogna vedere le meraviglie di Jerico e dintorni, attraverso le quali il tassista guida con esperienza e conoscenza. Arrivo a piedi dalla stazione dei service alla “collina del principe”, Tell es-Sultan, luogo simbolo dell’archeologia medio-orientale, indagato a partire dal 1868, che racchiude le rovine di quella che è stata definita la «città piú antica del mondo». Subito fuori, la fontana del principe, Ain el Sultan racconta le origini della città; poi si arriva ai resti del Palazzo Hisham, residenza invernale dei califfi omayyadi, risalente all’VIII secolo d.C., a circa cinque chilometri a nord di Jericho. Dai resti del Palazzo di Erode qualche chilometro fino al Wadi el Qelt, in un canyon da mozzare il fiato, sulle cui rocce è abbarbicato il monastero ortodosso di San Giorgio in Koziba.
Un panorama grandioso. Una splendida giornata, aiutata dal clima perfetto della zona, ricca infatti di agrumeti e bananeti, conclude un viaggio breve in questa terra di cui amo persone e cultura, accompagnata dalle parole di due giovani palestinesi,Riyam Kafri AbuLaban e Tala Abu Rahmeh che hanno curato uno dei tanti bei numeri, dedicato ad arti e cultura, di This week in Palestine (luglio 2015):
“Lottiamo per definire la nostra identità artistica e ci chiediamo se siamo per sempre confinati nella resistenza e nell’amore per una terra sempre in lotta. Forse non lo dobbiamo decidere adesso. Forse la nostra arte e la nostra cultura sono una ridefinizione quotidiana della nostra speranza, e uno spazio che ci dà costantemente la possibilità di decidere chi e che cosa siamo”.