Questa mattina, prima di iniziare questa nota, dando una scorsa alle prime pagine di alcuni giornali mi ha colpito un titolo del New York Times: “Un Insegnante ucciso da Palestinesi, Ricordato come Uomo di Pace”. Si parla di una delle vittime di quella che qualcuno ha chiamato l’Intifada dei Coltelli. Ferito gravemente in un attacco a un autobus a Gerusalemme il 13 ottobre scorso, Richard Lakin, un insegnante di 76 anni, è morto pochi giorni fa nell’ospedale dove era ricoverato. Uno dei 10 israeliani che, insieme a oltre 60 palestinesi hanno finora perso la vita in questa Intifada.Richard Lakin, immigrato in Israele dagli Stati Uniti circa 30 anni fa, viene presentato come un pacifista, molto attivo nelle manifestazioni per la pace. La maggiore delle nipoti, di fronte al suo feretro, così lo ricorda: “Io so che tu vorresti che io cercassi di essere sempre una persona migliore e che facessi sempre la cosa giusta. … E vorresti che io non abbia nel mio corpo neppure un’oncia di odio, malgrado quello che ti è stato fatto.”
Lo stesso giorno, riporta il Palestine Chronicle, a Betlemme in scontri fra dimostranti ed esercito moriva, colpito in pieno petto da un proiettile israeliano, Mutaz Ibrahim Zawahreh, 27 anni, militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Un suo amico, dopo avere ricordato che sei dei suoi fratelli sono in questo momento nelle prigioni israeliane, lo ricorda così: “Era una persona molto popolare, ognuno nella zona lo conosceva e aveva qualche relazione con lui. Era semplicemente il tipo di persona che dà speranza alla gente. Ogni volta che qualcuno soffriva o si sentiva giù, egli era lì pronto a essergli vicino.”
Ho voluto partire così perché non si dimentichi mai che dietro ogni conflitto, dietro le violenze che in esso si sviluppano ci sono sempre persone reali, con un nome, un vissuto, degli affetti, delle speranze e anche delle disperazioni.
A oltre un mese dall’inizio, la ribellione a Gerusalemme e nei Territori Occupati continua. Non passa giorno che non si verifichi un nuovo accoltellamento o uno scontro fra giovani palestinesi armati di pietre e i soldati di Israele. È l’intifada dei coltelli o, come qualcuno preferisce chiamarla, degli smartphone, perché è attraverso i social networks e i telefonini che questi ragazzi e ragazze comunicano e organizzano la loro protesta. Una ribellione che coinvolge non solo i palestinesi dei Territori Occupati, ma anche i palestinesi cittadini di Israele.
La scintilla è stata il tentativo, da parte di gruppi radicali ebraici legati ai movimento dei coloni e ai partiti di estrema destra, di cambiare nei fatti lo status quo dei luoghi santi musulmani. Fra questi i “Fedeli del Monte del Tempio” il cui obiettivo è di “liberare il Monte del Tempio dall’occupazione araba … [e di] ricostruire il Terzo Tempio, in accordo con le parole dei profeti ebraici”. Questi gruppi si sono recati ripetutamente e ostentatamente nella spianata delle moschee, anche per pregarvi, spesso accompagnati da membri dello stesso governo, fra i quali il ministro dell’agricoltura, Uri Ariel, che vi si è fatto filmare mentre mormorava una preghiera.1 Il 26 ottobre, la vice ministra agli esteri, Tzipi Hotovely, aveva pubblicamente rivelato il suo sogno che la bandiera israeliana sventolasse sul monte del Tempio.
Da qui gli scontri, anche molto forti, nella spianata delle moschee, estesi poi a tutti i Territori Occupati.
Ma la ribellione palestinese che ha radici ben più lontane. Da un lato c’è la popolazione araba di Israele che si sente sempre più discriminata all’interno dello stato e che, soprattutto dalla morte Rabin, ha visto peggiorare la propria situazione. Il senso di progressiva alienazione della popolazione araba di Israele è evidenziato da recenti sondaggi secondo cui, fra il 2003 e il 2009, la percentuale di coloro che ritengono quella palestinese, piuttosto che quella araba o israeliana, la loro principale identità è salito dal 18,8% al 32%.2
Dall’altro lato c’è la popolazione palestinese sia di Gerusalemme che dei Territori Occupati.
A Gerusalemme la condizione dei residenti palestinesi è sempre più critica a causa del sostegno che i governi israeliani, soprattutto negli ultimi 10 anni, hanno dato alla strategia della destra dei coloni che entrano a Gerusalemme per acquistare e occupare case nel cuore dei quartieri palestinesi più prossimi alla Città Vecchia. L’obiettivo chiaro è l’espulsione. I palestinesi sono spinti ad andarsene anche dalla mancanza di servizi: ai quartieri arabi viene allocato solo il 10% del bilancio comunale, pur essendo i palestinesi oltre il 30% della popolazione e pagando le stesse tasse dei cittadini ebrei. E continua la politica di revoca dei permessi di residenza (14.481 fra il 1967 e il 2014), e la demolizione di case palestinesi (1.724 dal 1967). E infine il muro passa dentro la città chiudendo in ghetti interi quartieri palestinesi.
Nei Territori Occupati la ribellione coinvolge giovani in gran parte fra i 13 e i 27 anni. È, dice una studentessa universitaria di Ramallah intervistata da Al Jazeera, “la generazione di Oslo, una generazione che non conosce se non la realtà del muro dell’apartheid o delle tattiche repressive dell’Autorità Nazionale Palestinese…. Questo è un momento cruciale, in cui i giovani stanno prendendo le cose nelle loro mani. Le voci che erano rimaste assenti dalle politiche israelo-palestinesi stanno ora erompendo attraverso canti, pietre, accoltellamenti e ogni altro metodo disponibile. Non si può dire a cosa porterà tutto ciò, ma non credo che questo sia importante in questo momento. … Comunque il messaggio è chiaro … questa è la reazione della gioventù palestinese al fallimento dei negoziati e alla continua aggressione israeliana.”3
Abbiamo iniziato ricordando come dietro ogni realtà di violenza ci siano persone reali che soffrono questa violenza, che ne sono vittime ma anche, in qualche modo, complici. È l’ambiguità insita in ogni conflitto, ambiguità che impedisce di separare nettamente torti e ragioni.
Richard Lakin, ad esempio, pur certamente impegnato sinceramente per la pace, era, anche se involontariamente, parte del sistema di apartheid che caratterizza la Palestina rendendo difficile, se non impossibile, la vita dei palestinesi. Lui, americano, aveva potuto senza difficoltà trasferirsi in Israele ottenendone subito la cittadinanza e i diritti sociali e politici. A un palestinese della diaspora è invece impossibile tornare in Palestina, e un israeliano arabo, se sposato con una palestinese della Cisgiordania o di Gaza, è costretto a lasciare Israele se vuole vivere con la moglie. Lakin aveva poi la possibilità di muoversi liberamente, al contrario dei palestinesi costretti a confrontarsi quotidianamente con checkpoint, muri e strade riservate ai coloni. Al di là della repressione e della violenza, apartheid significa proprio questo: due popolazioni, nello stesso territorio, sotto la stessa autorità, ma regolate da due sistemi legali diversi.
Ma anche il giovane palestinese che reagisce alla frustrazione e mancanza di prospettive in cui vive armandosi di un coltello, come più volte è accaduto in questi giorni, nei fatti finisce per alimentare ulteriormente la violenza della repressione. Scrive, sul Palestine Chronicle, Jonathan Cook: “gli israeliani non incolpano per la reazione [dei palestinesi] la politica di implacabile forza del loro governo. Chiedono anzi maggiore forza nei riguardi dei palestinesi. I sondaggi dicono che Avigdor Lieberman, l’ex buttafuori moldavo divenuto poi il duro della destra israeliana, è il candidato preferito a guidare la nazione fuori della crisi”. Secondo Jafar Farah, un leader dei palestinesi israeliani, il conflitto sta divenendo sempre più simile a una guerra civile piuttosto che a una guerra di liberazione. E le guerre civili, soprattutto se di tipo etnico, sono le più violente: l’obiettivo non è la sconfitta dell’avversario ma la sua distruzione.
È urgente un maggiore impegno di solidarietà attraverso forme di lotta nonviolenta, quali ad esempio il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni). Sarebbe un modo efficace per affiancare la lotta nonviolenta che in diverse realtà della Palestina viene portata avanti, anche se spesso nel disinteresse della stampa. Anche se purtroppo non in Italia, il sostegno per il BDS sta crescendo. Proprio il 27 ottobre, 343 accademici inglesi si sono impegnati a boicottare le istituzioni accademiche israeliane fino a che Israele non rispetti le leggi internazionali e non cessi la discriminazione nei riguardi dei palestinesi. Sempre in Gran Bretagna, lo scorso aprile, la banca Barclays ha disinvestito dalla Elbit Systems, uno dei principali produttori di armi israeliani. È di settembre la notizia che la compagnia francese Veolia ha venduto le ultime partecipazioni in aziende israeliane.
Chi sa che un giorno non si possa realizzare il sogno di Vincino di un’Intifada degli abbracci. Un’idea certamente molto ingenua, ma senza una buona dose di ingenuità sarà mai possibile cambiare il mondo?
- Negli ultimi giorni, a seguito delle pressioni venute anche dall’amministrazione americana, il Governo di Israele ha deciso di vietare ai suoi ministri di recarsi nella spianata delle moschee, e a tutti i non musulmani di pregarvi.
- Sammy Smooha, Index of Arab-Jewish Relations in Israel, 2003-2009, The Jewish-Arab Center, University of Haifa.
- Al Jazeera America, 14 ottobre 2015.