12 dicembre 2015
Cominciamo con un avvenimento. Con ciò che è accaduto oggi, nel primo pomeriggio, in Gan Shmuel Junction. In una vigil abituale delle “Donne in nero”, fra l’1 e le 2 del pomeriggio, io fra loro.
Tre uomini giovanissimi ci passano davanti in macchina lanciandoci contro una sfilza di insulti a cui siamo del tutto abituate. Qualche minuto dopo tornano dalla direzione opposta, girano a sinistra nel centro commerciale dietro di noi, urlando di nuovo contro di noi e augurandoci la morte. Un momento dopo compaiono sul marciapiede dove stiamo noi, uno con una bandiera israeliana, l’altro sta filmando. Quello con la bandiera scende sulla strada e si mette a ballare di fronte a noi, rischiando la vita nel traffico, salta e saltella, sventolando la bandiera e gridando “il popolo di Israele è vivo!” tentando di avvicinarsi di più a noi. Quando io arretro, lui avanza ancora, quasi mi tocca. Attorno a noi le auto sono ferme al semaforo. Nel migliore dei casi, gli automobilisti ignorano la scena. Più comunemente suonano il clacson, battono le mani, applaudono e gridano che ce lo meritiamo, facendo gesti osceni. Una signora, fuori dell’ordinario, abbassa il vetro del finestrino e dice al ragazzo “ma non violenza!” Il compagno filma la scena e tutti e due ci gridano contro che è nostra la colpa di tutti gli accoltellamenti, gli investimenti e gli assassinii e perché non manifestiamo contro TUTTO CIÒ e ci augurano la morte…
Io sono semplicemente sconvolta. Fuori di me. Scioccata.
Un signore si avvicina con una fotocamera, dice loro che anche lui vuole filmare. Si esibiscono alla grande, e poi lui gli dice che è un giornalista e che li ha filmati per mostrarli alla polizia e rendere pubblico che sono violenti e pericolosi. E poi chiama la polizia. Spariscono immediatamente. Arriva la polizia, e alla fine il poliziotto ci rimprovera. (Abbiamo un permesso? Chi è responsabile? Se non presentate un reclamo, che cosa volete? Perché siete ciniche?)
Sono nata nel 1966. Un anno prima della guerra dei Sei Giorni. Sono cresciuta nell’Occupazione. Finché non ho completato il mio servizio militare, non ho avuto una identità politica. Il giorno dopo il mio congedo, esplose la Prima Intifada. Cominciai a far domande, a capire, pensare, avere opinioni e scoprii che ero di sinistra.
Un salto nel tempo
Durante l’Operazione Scudo difensivo mi sono unita alle “Donne in Nero” in Gan Shmuel Junction. Come detto sopra, ogni venerdì fra l’1 e le 2. È un turno di veterane che da oltre 25 anni tiene la vigil. Non siamo molte e non tanto giovani. Ho già rivelato la mia età, e sono una delle più giovani.
Non è facile essere là ogni settimana. Non serve granché. A quanto sembra. È davvero così?
Negli anni ho vissuto ogni sorta di momenti spiacevoli. Mi hanno lanciato uova, una pietra mi ha colpito in testa, siamo state insultate infinite volte… Questa è ordinaria amministrazione e ci è familiare, e più o meno ci facciamo forza per reggere. Rispondiamo ai nostri assalitori in vari modi, ma almeno dico a me stessa che la nostra settimanale presenza sisifiana è soprattutto per noi. Così non dimentichiamo l’Occupazione. Affinché la parola Occupazione non sia cancellata dal vocabolario dello spazio pubblico. La gente era solita chiederci: Quale occupazione? Del 1948? Del 1967?
Ormai questa parola è stata cancellata. I bambini e le bambine crescono non sapendo che c’è una Occupazione in corso. E come fanno a saperlo se non glielo si spiega? È avvenuta quando io ero bimba, e come ho già detto, non sono una ragazzina. E di fatto non fu spiegato neanche a me…
Ad ogni escalation, con l’andar del tempo, la situazione si riflette in Gan Shmuel Junction. Le maledizioni, gli insulti diventano più forti, la rabbia contro di noi ribolle – come se noi, con il nostro stesso stare lì, siamo la causa degli atti terroristici, della violenza. Come se non siamo cittadine di questo stato. Come se i nostri figli e figlie non siano nello stesso sistema scolastico che li fa entrare nell’esercito. La gente augura del male a noi, del male alle nostre famiglie. Allora sì che sapremo…! (Tristemente, alcune delle donne che sono qui con me hanno subito attacchi terroristici, sono anche state vittime, e ancora insistono a dire: basta!)
Ciò che è avvenuto oggi mi ha scioccata. Ero terribilmente spaventata. Avevo paura che stessero per andare fuori di testa. Un altro istante e mi avrebbero sfiorata. Fatto male. E non volevo questo. Non per me, non per loro. Non per chiunque li aspetti a casa, non per coloro che aspettano me a casa.
Mi sento sull’orlo dell’abisso. Sono molto spaventata, per me stessa ma anche per tutte noi. Come ha potuto una violenza simile, verso un’opinione e naturalmente contro delle donne, essere accettata con tale partecipazione? (Ci avrebbero attaccato in questo modo se ci fosse stato un uomo con noi? Ne dubito. Dopo tutto, quando è comparso il giornalista e li ha fronteggiati, si sono semplicemente dileguati).
Sebbene io abbia paura di tornare là, penso che devo. Che questa nostra voce debba essere presente. Anche se è impopolare proprio adesso. La gente deve sapere che c’è ancora una Occupazione in corso. Che ancora opprimiamo quasi 2 milioni di persone. E che questa oppressione esige prezzi terribili, oltre a essere apertamente immorale.
Ci corrompe, ci rende violenti/e nostro malgrado. Mette in pericolo i nostri figli e figlie e tutte/i noi al livello quotidiano della sicurezza personale, come anche nel senso più profondo di quale specie di società siamo. Quello che è successo oggi (e sicuramente succede di continuo ad altre) svela la faccia di una società violenta che minaccia le donne, le opinioni, le minoranze, e le persone più deboli con una fondamentale mancanza di rispetto, mancanza di stima, brutalità, crudeltà e rozzezza.
Non ho più parole.