Ci sono gli inni nazionali, gli inni di partito; ci sono canti di guerra, canti di lotta, canti rivoluzionari, canti che riecheggiano le voci delle minoranze del mondo.
Talvolta però ad assumere valore politico e sociale sono canzoni nate secondo tutt’altro genere di intenti, commerciali in primis. In casi estremi, questa attribuzione di significati diversi può avvenire all’insaputa dell’autore stesso.
Oggi raccontiamo uno di questi casi estremi, avvenuto quarant’anni fa, quando ancora un disco finito nel dimenticatoio da un capo del mondo poteva risultare fondamentale e rivoluzionario dall’altro.
Detroit nel 1968 non doveva essere un gran posto. Certamente non era San Francisco, né Woodstock. Ma è nei bassifondi di Detroit che due produttori musicali, Dennis Coffey e Mike Theodore, scoprono Sixto Rodriguez.
Nato nel 1942, Rodriguez era poco più che un vagabondo, passava da un tetto all’altro e si guadagnava da vivere con lavori occasionali. Ma sapeva suonare la chitarra e nessuno, a parte forse Bob Dylan, scriveva bene quanto lui.
Nel 1970 Coffey e Theodore producono il primo album di Rodriguez: “Cold Fact”. Soltanto un anno dopo esce il secondo, “Coming From Reality”.
“My most memorable artist”, lo definisce il produttore di quest’ultimo: “Non solo un talento, ma un saggio, un profeta, molto più che un semplice musicista”.
Ma qualcosa va storto: entrambi i dischi sono un flop.
E così, nel dicembre 1971, un mese dopo la pubblicazione di “Coming From Reality”, la Sussex Records licenzia Rodriguez.
Cape Town, Città del Capo.
Una ragazza americana atterra in Sudafrica per incontrare il fidanzato: nel suo bagaglio, una copia di “Cold Fact”. Che si voglia credere o meno a questa origine mitologica, il primo LP di Rodriguez passa di mano in mano e si moltiplica.
Ma Rodriguez non può sapere, almeno tanto quanto i sudafricani non sanno nulla di lui.
Il “non poter sapere”, d’altronde, è la cifra del Sudafrica di quegli anni: il Sudafrica dell’apartheid, oppresso dalla censura all’interno e boicottato dall’esterno per le politiche di segregazione.
“Ogni rivoluzione ha bisogno di un inno, e in Sudafrica ’Cold Fact’ fu il disco che permise alla gente di cominciare a pensare diversamente”, testimonia Craig Bartholomew, giornalista musicale e testimone dell’epoca.
Un secondo testimone, Steve Segerman, ricorda un brano contenuto nel disco, intitolato “Anti-establishment blues”: “Noi nemmeno sapevamo cosa significasse quel termine prima di imbatterci nella canzone di Rodriguez, e il messaggio era ‘si può protestare contro la propria società'”.
“Cold Fact” vende, più o meno clandestinamente, cinquecentomila copie, e a fermarlo non basta la censura di “Sugar Man” (singolo che il governo non poteva tollerare per i suoi espliciti riferimenti alla droga), grattato via dai vinili a forza.
Poco tempo dopo, in Sudafrica si diffondono leggende riguardo ad un’epica morte di Rodriguez: si sarebbe sparato su un palco, al termine di un concerto.
Ma qualcuno a Cape Town, a partire dai suddetti Bartholomew e Segerman, vuole saperne di più, ed intraprende una lunga ricerca di informazioni sul proprio beniamino. Le vicende di questa particolare inchiesta sono raccontate nel commovente documentario “Searching for Sugarman” di Malik Bendjelloul.
Soltanto nel 1997, dopo aver setacciato i testi delle canzoni alla ricerca di riferimenti, dopo essersi destreggiati tra contratti di distribuzione e case discografiche, si giunge ad una scoperta sconvolgente: Sixto Rodriguez è vivo, è povero, ha tre figlie. Fa il carpentiere, si carica frigoriferi sulla schiena e li porta su e giù per rampe di scale di case in costruzione.
Un anno dopo, il 6 marzo 1998, Rodriguez suona dal vivo a Cape Town, davanti a ventimila persone, replicando poi in altre località del paese.
Il popolo sudafricano, finalmente libero dall’apartheid, si riuniva con il misterioso e inconsapevole cantore della propria ribellione.