Ve la racconto così come me l’ha raccontata un abitante della favela di Surui, durante una mia visita, senza aggiungere o togliere niente.
Doralice desiderava Zé Pedro da molto tempo, forse da sempre. Lo immaginava bello e sano. Fino a che un giorno lo incontrò per le molte strade della vita. Si innamorarono. A lui, lei piacque perchè era riservata, si esprimeva con gentilezza e aveva negli occhi la luce di un amore disinteressato.
Zé Pedro veniva dalla periferia, da una famiglia sfasciata, da una storia triste. I suoi antenati erano schiavi. Da loro aveva ereditato non solo il vigore fisico e l’allegria della danza, ma anche l’amarezza, il risentimento e l’astuzia. E anche una certa arroganza, che la stessa dignità umana richiede.
I primi tempi dopo le nozze furono solo delizie. Ma a poco a poco la routine e la necessità di guadagnarsi da vivere, a qualunque costo, lo allontanarono da casa. La sera Doralice lo aspettava con la cena pronta. Molte volte arrivava ubriaco o drogato e qualche volta diventava violento. Anche così lei continuava ad amarlo e lo serviva amorevolmente.
Un giorno, Zé Pedro non tornò più. Era rientrato nel mondo della marginalità. Non che lo volesse, ma non aveva altra scelta. Doralice, addolorata, continuava a sperare che un giorno tornasse. In lei la passione non si era indebolita, solo intristita. Passavano i mesi e niente. C’erano giorni in cui sembrava perdere la speranza.
Ma anche in lui l’amore non era morto. La notte, durante le serate agitate della favela, quando la polizia aveva pacificato la situazione, si ricordava di lei con affetto. Ricordava quello sguardo dolce, quella pelle di pesca, quelle cure materne, quell’amore fedele e costante. Aveva conosciuto altre donne, ma nessuna era come Doralice. Un giorno, pieno di nostalgia, pensò tra sè e sè: “Vado a cercarla!” Ed uscì.
Incontrò Doralice nella stessa baracca di tre stanze, tutta pulita e ordinata. Il letto aveva ancora il profumo di rose, economico, che lei comprava da un’amica e spruzzava tutte le mattine quando riordinava la stanza. Si amarono come la prima notte. Dopo l’amore, lei gli disse quasi sussurrando: “Amore mio, lascia questa vita. È un inferno che tormenta te e me. Un giorno ci ucciderà!”. Zé Pedro ascoltava in silenzio. Sapeva che aveva ragione. Ma dopo una settimana tornò in favela, senza dire una parola.
Durante un fine settimana, nella favela tornò la guerra con più intensità. Era una guerra di un gruppo contro l’altro e insieme con la polizia. Negli scontri, Zé Pedro finì per essere picchiato e arrestato dalla polizia.
Doralice seppe di quel che era avvenuto da una comare. Andò a trovare il marito nella prima settimana. Lui era furioso. Un odio mortale gli divorava il cuore. Anche così, lei lo amò con passione, per quanto permesso dalle condizioni del carcere.
Mesi dopo, Doralice sentì per radio la notizia di una ribellione nel carcere. Disperata, corse alla porta della prigione, insieme ad altre donne. Vide la lista dei morti. Tra questi c’era anche il nome del suo amato Zé Pedro. Il pianto gli seccò il cuore. Il giorno dopo andò a fare il riconoscimento di quell’essere che tanto amava, ora un cadavere insanguinato. Prendendolo tra le braccia e vestendolo per la sepoltura, trovò nella tasca posteriore dei pantaloni una bozza di canzone che aveva scritto per lei. Pianse di nuovo e a lungo.
Nove mesi dopo il primo incontro intimo in carcere, le nacque il primo e unico figlio. Aveva i lineamenti del padre: belli e vigorosi. E la vita e le storie sarebbero continuate.
Fu questo che sentii dal narratore di storie, che la concluse chiedendo con una qualche ironia: “Come può esserci perdizione se c’è stato tanto amore? Come può dominare la morte, se la vita si riproduce sempre?” L’osservazione certo potrebbe confondere i professionisti della religione e tutti i guardiani dei buoni costumi.
Traduzione di Serena Romagnoli