Le parole della paura.
Migranti, profughi, extracomunitari, clandestini, stranieri, immigrati… L’elenco potrebbe continuare e probabilmente molti di noi non sarebbe altro che una lunga ripetizione di termini equivalenti. I media si preoccupano raramente di distinguere scegliendo i vocaboli più adatti per dare il nome ai protagonisti -loro malgrado- della continua ondata di viaggi della speranza di centinaia e centinaia di persone, in fuga dal nord Africa o dal Medio Oriente. Questa massa spaventa, non soltanto perché è obiettivamente difficile accogliere degnamente anche soltanto per un primo soccorso così tanti uomini donne e bambini, ma anche perché molti politici, fanno di tutto per alimentare la diffidenza e la paura degli italiani verso di loro.
A fare notizia sono spesso le tragedie del mare o le scomposte reazioni di chi proprio non riesce a vincere la propria intolleranza. I mezzi di comunicazione amplificano la voce di chi urla di più, ma di tanto in tanto riescono a trovare lo spazio anche per le storie personali di chi scappa. E noialtri, lettori e spettatori sempre più distratti o insofferenti, riusciamo a trovare dietro i numeri delle masse di disperati un volto umano soltanto quando ci vengono mostrate le loro facce o quando leggiamo i loro nomi, che altrimenti finiscono per essere soltanto una quantità eccessiva rispetto alla capienza dei centri di accoglienza.
Per raccontare l’odissea di queste persone in fuga dalla guerra, dall’oppressione, dalla miseria bisogna usare le parole giuste. Non è una questione soltanto lessicale l’uso dei termini corretti per descrivere la loro condizione. In questo i giornalisti dovrebbero essere aiutati dalla “Carta di Roma”, un codice deontologico nato e scritto per promuovere un’informazione più attenta e più corretta in tema di immigrazione.
Il documento nasce da un lavoro congiunto fra l’ordine dei giornalisti, la federazione nazionale della stampa e l’Alto Commissariato delle nazioni Unite per i rifugiati, basato sul fondamentale principio di “rispettare la persona e la sua dignità” e sulla necessità di “non discriminare nessuno per la razza, la religione o le opinioni politiche”. La Carta impegna i giornalisti italiani ad adottare “termini giuridicamente appropriati” per restituire ai destinatari dell’informazione la massima aderenza alla realtà, evitando l’uso di un linguaggio scorretto.
E’ alto il danno che può derivare ai diretti interessati e alla cittadinanza in genere da comportamenti mediatici scorretti e superficiali, capaci di “suscitare allarmi ingiustificati alle persone oggetto di notizia, e di riflesso, alla credibilità dell’intera categoria dei giornalisti”. Per aiutare questi ultimi a svolgere correttamente il proprio lavoro anche quando trattano un argomento tanto delicato, al documento è allegato un glossario che distingue e illustra le definizioni da utilizzare parlando di persone che provengono da oltre confine: da “clandestino” a “irregolare” da “rifugiato” a “vittima della tratta”, da “migrante” a “immigrato”, da “richiedente asilo” a “beneficiario di protezione umanitaria”, l’oscillazione di senso non è soltanto semantica ma determina una connotazione completamente diversa dei soggetti di cui si parla. Farebbero bene non soltanto tutti i giornalisti (soprattutto quelli che scrivono per le testate più apertamente schierate dal punto di vista politico) ma anche i rappresentanti delle istituzioni che sono parte in causa a imparare il corretto uso delle parole che, in questo caso come in molti altri, non sono soltanto una questione di forma, ma di sostanza. Non possiamo essere capaci di accogliere l’altro nel modo giusto se prima non impariamo a chiamarlo con il suo nome. Altrimenti lo rendiamo vittima di un respingimento cinico ed egoistico, cha avviene nei nostri cuori prima ancora che nei nostri mari.
il direttore