Maurizio Musolino 14/07/2016
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 27 del 23/07/2016
A Dacca nei giorni scorsi si è consumata l’ennesima tappa della corsa verso la barbarie. Un filo rosso sangue lega infatti la capitale del Bangladesh a Istanbul, Parigi, Damasco e Baghdad. Poco importa se i responsabili dei criminali attentati sono direttamente legati all’Isis, oppure se da esso sono influenzati e manipolati. Le cause e l’origine sono comunque ben identificabili.
Quello che è avvenuto in questi anni è un vero stravolgimento di valori, il mondo islamico è profondamente cambiato, e le responsabilità non sono né casuali né ignote. Gli ultimi avvenimenti terroristici inoltre dimostrano, anche ai più scettici e ottusi, che questa battaglia non si vince sul solo piano militare: serve contrapporre alla deriva barbarica valori e culture alternative. Nella seconda metà del secolo scorso spesso falsando la realtà, l’Occidente rappresentava per i popoli del cosiddetto Terzo mondo i valori della Rivoluzione francese e il blocco socialista rafforzava questi valori con la promessa di una redistribuzione delle ricchezze e del controllo dei mezzi di produzione. Oggi invece per questi popoli, ma anche per le periferie delle nostre città, l’Occidente, e più in generale il “resto del mondo”, rappresenta solo guerre, prevaricazioni ed egoismi.
Alla fine degli anni Ottanta con lo sgretolarsi del mondo diviso in blocchi si evidenzia una crisi di formazione delle leadership laiche, progressiste e socialiste che lascia spazio ad altre leadership, come alcuni movimenti islamici – i Fratelli Musulmani (legati oggi al Qatar e alla Turchia) e i wahabiti (figli della corte saudita) su tutti, che investono sulla costruzione di nuove moschee e scuole coraniche e si coinvolgono, spesso come protagonisti, in conflitti regionali con valenza planetaria, come in Afghanistan e nei Balcani.
È in quest’ambito che nascono i teorici dell’islam politico del XXI secolo, all’inizio perseguitati dai vari governi arabi (alleati dell’Occidente) e successivamente strumento dell’Occidente che se ne serve per assicurarsi un controllo sulle cosiddette “primavere arabe”. Un momento di svolta sarà il discorso di Barack Obama a Il Cairo nel giugno 2009 e i successivi incontri dell’allora segretario di Stato Usa Hillary Clinton con vari rappresentanti della “fratellanza musulmana”.
Una strategia preparata a tavolino, pensata e messa in atto negli ultimi decenni, e non fatti casuali e spontanei come spesso vogliono farci credere.
Torno indietro di qualche anno: ricordo alcuni viaggi in Siria, Tunisia e Giordania, accompagnato da compagni palestinesi e della sinistra di quei Paesi. Girando per le strade di Amman, Damasco e Tunisi – le ultime due città fra le più laiche del mondo arabo di allora – questi amici mi facevano notare il fiorire di cantieri per la costruzione di moschee, tutte finanziate da Paesi stranieri, Arabia Saudita e Qatar in testa. L’atteggiamento verso questi cantieri era contraddittorio, da una parte portavano lavoro e soldi, aiutando economie già sofferenti, dall’altra già si intravedeva l’elemento destabilizzante che queste attività potevano incubare.
Pochi anni dopo con la caduta di alcuni governi-regimi, la società civile e le sinistre – protagoniste della prima fase delle proteste – dimostrarono tutta la loro debolezza e inconsistenza lasciando campo aperto alle organizzazioni religiose, meglio strutturate, con una classe politica riconosciuta e soprattutto con strutture dislocate in tutto il territorio nazionale e con alleanze internazionali solide. L’egemonia islamica sulle società arabe – spesso totalizzante e oscurantista – si andava così affermando proprio nel senso gramsciano più classico.
Si capisce bene che la lotta odierna contro la barbarie e l’oscurantismo non può non avere inizio da un elemento di contrapposizione culturale. E per capire complicità e alleanze, spesso occulte, è utile proprio analizzare uno dei principali aspetti che influenza le menti e manipola le coscienze, chiaramente non solo nel mondo musulmano: i media. Provando a scorrere i media di queste ultime settimane risalta il modo in cui sono raccontati i vari attentati terroristici. Al Arabiya, una delle principali tv satellitari arabe, parla apertamente di Daesh (l’acronimo arabo per definire l’Isis) solo per gli attentati che avvengono in Iraq, omettendo sempre che le vittime sono sciite. Le stragi di Dacca, come quelle di Istanbul o delle capitali europee, sono opera di fantomatici “gruppi terroristici”. Se poi ad essere colpita è Damasco, sparisce anche la definizione generica di terrorismo e resta solo il termine “attentati”. Anche Al Jazeera, seppur più prudente e attenta alle sensibilità occidentali, distingue i responsabili delle stragi a seconda del luogo in cui sono commesse. Più esplicito è il racconto che di queste stragi fanno i giornali sauditi, prevalentemente indirizzati ad un pubblico wahabita. Qui raramente compare la sigla Daesh.
In Turchia la scure delle nuove leggi liberticide del governo Erdogan sta uniformando i media riconducendoli a svolgere un vero e proprio lavoro di disinformazione a tutto vantaggio del nuovo sultano.
Pochi esempi che svelano, più di mille dichiarazioni o di mille proclami, alleanze e complicità fra questi Paesi e il terrorismo. Una lettura che non interessa i nostri media che troppo spesso – ci sono però mirabili esempi di voci fuori dal coro – preferiscono ricorrere alla mai morta pratica delle tre scimmiette.
Maurizio Musolino è giornalista, già direttore del settimanale “La Rinascita”, ed esperto di Medio Oriente.