Chi va in montagna si sente spesso chiedere se non soffre di vertigine. Evidentemente no: l’aria che ci si trova sotto i piedi è fatta di lente mosse verso l’alto, non è perciò un baratro ma una distanza. Anche se in metri è la stessa di quella dal balcone di un grattacielo, cambia il controllo dell’esposizione al vuoto.
In qualche sera d’estate, lontano da sorgenti luminose, mi sdraio faccia in su e allora sì che provo la vertigine dell’abisso che precipita su di me. L’immensità che mi sovrasta mi procura un crampo alla bocca dello stomaco, poi una respirazione profonda. Quello spazio si sporge su di me. È la variante fisica del sentimento religioso che non provo.
Chi ha invece una fede, stabilisce un’intesa tra se stesso e un creatore universale, si sente così parte dell’immensità. Io sento di condividere con l’universo poco più dell’idrogeno, il gas di cui è composto lo spazio.
Nel sogno di Giacobbe a Betel c’è una scala che unisce terra e cielo, con angeli che ne percorrono i gradini. È per me la precisa immagine della fede, il collegamento stabilito tra la persona in basso e la divinità in cima alla scala. La loro distanza è percorribile con mosse di avvicinamento.
In alpinismo il primo passo che stacca il corpo da terra inaugura la salita di gradini invisibili. Lo scalatore riproduce su materia terrestre la scala sognata da Giacobbe. Ma sulla cima trova solamente altro cielo, altra altezza dalla quale ci si deve dimettere scendendo, cercando di non precipitare.
Erri De Luca