Abbiamo ascoltato in questi tempi l’affermazione, da più parti, sul diritto dei cittadini ad una parola “contraria” contro la violenza perpetrata in Val di Susa. Contro lo scempio del nuovo aeroporto di Firenze e di tutte quelle opere che allontanano le popolazioni dai processi decisionali che impattano drammaticamente sul territorio.
Abbiamo ascoltato, per bocca di un vero esponente della cultura italiana, Erri De Luca, lo strenuo ed orgoglioso atto di difesa che si è trasformato in atto di accusa contro la violenza delle “grandi opere”, dei potenti, alla “bellezza” di un territorio e di chi ci vive: “Ciò che è costituzionale – ha detto per quelle parole “contrarie” alla Tav, nel corso del processo che poi lo ha visto assolto – si decide e difende in luoghi pubblici come questo, come le scuole, le prigioni, i luoghi di lavoro, le frontiere attraversate dai richiedenti asilo. Si decide al piano terra della società”.
E’ proprio dalla rivendicazione al poter includere chi vive “al piano terra della società” nelle decisioni sulla sorte di un territorio, prendiamo spunto e occasione per spendere qualche parola sulla incombente violenza di quei progetti che qualcuno osa presentare come “progresso” e come “supremo interesse pubblico”.
A noi, molto più modestamente, invece, preme ricordare che non è stato sposato un “no” a prescindere su tutto quello che è nuovo. Piace sottolineare che sarebbe bene portare avanti opere ed interventi che abbiano, insieme al significato della pubblica utilità, il valore della “bellezza” come punto essenziale di riferimento. La “bellezza” per il bene comune mentre, spesso, le grandi opere hanno una portata eccezionale solo per impatto ambientale e di costo per la comunità.
Quindi occorre rivendicare il diritto ad essere contrari e considerarsi a pieno diritto “parte lesa” nel nome di quella “bellezza” così tanto sbandierata e poco rispettata.
E per “bellezza” è bene precisare per non ingenerare errori in chi legge, vale ogni lembo di territorio, del nostro Paese che indipendentemente da quello che rimane il suo contenuto odierno, possiede una sua pur minima dignità che impone di dover essere custodita e tramandata alle generazioni future.
Una dignità che dobbiamo e possiamo ritrovare nei pochi luoghi che ancora sono incontaminati ma anche nelle nostre periferie più devastate. Gli uni da difendere strenuamente, gli altri per cercare di “rammendare” continuamente.
E su questo, sì, emerge il dovere, l’obbligo, di difendere dalla violenza di chi continua ad insistere nel nome del progresso, della crescita imponendo di continuare sulla strada della costruzione indiscriminata di opere e manufatti che mancano di visione e di utilità pubblica. Ci sono, invece, altre pressanti necessità, quelle che i nostri sindaci, i nostri amministratori ben conoscono. Esiste, ancora oggi più che mai, l’esigenza di dedicare una maggiore attenzione alle “piccole opere”, a quelle meno faraoniche ma che magari toccano di più l’esigenza del bene comune. A quelle che non finiscono di continuo sulle prime pagine dei giornali o che alimentano i convegni degli imprenditori ma che alla classe imprenditoriale farebbero molto di più bene. Non occorre certo enfatizzare troppo per ricordare che il Paese soffre di una devastante fragilità di fronte agli eventi della natura e quelli provocati dell’uomo stesso.
Quale dei nostri borghi, quali delle nostre meraviglie dell’arte e della storia, quali delle nostre periferie non soffrono per le avversità meteorologiche, per le esondazioni, per gli allagamenti, le frane o gli smottamenti di intere colline, o per il degrado e l’incuria materiale?
Cosa dire poi dei terremoti, con le devastazioni e le miserie che gli seguono nel nome della ricostruzione.
Sciagure che immediatamente dopo la conta dei morti, i danni, le distruzioni proseguono attraverso lo scempio di chi mira solo a fare affari sulle disgrazie altrui, come abbiamo ascoltato dalle registrazioni effettuata agli “avvoltoi” la notte del terremoto dell’Aquila.
E poi, subito dopo, le polemiche, le responsabilità scaricate sul caso, sul clima, sulle bombe d’acqua, sul costruzione scellerate, su quel calcolo delle probabilità che il male non avvenga.
Solo per le alluvioni, dal 2000, abbiamo da una parte duemila eventi che hanno spazzato via 293 vite umane e provocato danni per 3 miliardi e mezzo di euro l’anno. Tutto questo mentre l’impegno dello Stato per il riassetto idrogeologico che non è andato oltre i quattrocento milioni l’anno.
È così, passa poco tempo, mentre gli angeli del fango, scaraventati da una parte all’altra del Paese, sono ancora a togliere la melma e le macerie dalle case, ecco che arrivano le promesse d’interventi, di riparazione. Ed immancabilmente, disbrigata qualche pratica per i rimborsi, questa stessa politica, dimentica. Lamentando la mancanza di fondi importanti per il territorio, ma soprattutto dimostrando la resa di fronte alla necessità di interventi che dovrebbero perseverare nella cura dissesto del paese.
La verità è che nel nostro paese, ancor più che altrove, qualsiasi idea di prevenzione dei disastri, della pianificazione del territorio, diventa nel tempo un vero e proprio tabù politico. In questo risulta troppo complicato ed offre troppa poca la visibilità, fondare una strategia che miri complessivamente a rimediare ai mali del passato ed impedire quelli del futuro. Dunque piuttosto che impegnarsi in un stillicidio di piccoli interventi molto meglio puntare sul facile consenso delle grandi opere, di enorme visibilità, ma di scarso risultato pratico. Troppo facile, così, rispolverare i progetti faraonici come quello del Ponte sullo Stretto, mentre alle sue estremità il paese frana, o più semplicemente manca delle infrastrutture minime.
E subito a ruota un corollario di norme che accentra ogni potere decisionale nelle mani del governo che deregolamenta i controlli, emargina gli enti locali, porta a ricorrere a commissari che avranno autorità superiore a ogni altro organo di controllo ed infine trasforma quanto non viene accettato supinamente dai cittadini in opere “di interesse strategico”. E così viene da aggiungere, arditamente, troppo facile trovare i fondi per poche grandi colate di cemento piuttosto che impegnarsi a “costruire” migliaia di interventi che per una volta vedano e prevedano il rispetto del territorio. Di un territorio e delle sue genti. Rammentando l’obbligo che corre verso le generazioni future che fra tutte sono le meno colpevoli dello scempio fatto fino ad oggi. Tutto questo mentre il rapporto 2016 sul consumo di suolo in Italia, redatto dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), presentato lo scorso luglio, evidenzia numeri che descrivono un’evoluzione preoccupante. Facile inserire la Tav Torino-Lione, il Mose, il nuovo aeroporto di Firenze, il Ponte sullo Stretto, la Pedemontana, le altre ferroviarie per l’alta velocità, il terzo valico della Milano-Genova, il tunnel del Brennero, la Napoli-Bari in questo aspetto di totale disattenzione all’ambiente in cui sono inserite. La consapevolezza che le strade percorse da molti governi europei portino alla solita deriva ha imposto ai movimenti di diversi Stati membri dell’UE, in particolare Francia, Spagna, Italia, di ritrovarsi. Così movimenti che si battono contro la costruzione di nuove Linee ferroviarie TAV (Treno ad Alta Velocità) e di Linee merci rapide ad alta capacità hanno iniziato a riunirsi fino dal 2010 per raccogliere le forze e fare ascoltare la propria voce in modo univoco, considerato che le problematiche sono le stesse dappertutto. Di comune accordo hanno redatto la Carta di Hendaye, un documento che supera il quadro nazionale per travalicare in quello europeo. Un dichiarazione che sinteticamente raccoglie critiche, obiezioni, alle grandi opere, alle varie TAV, ma eleva all’attenzione dei popoli europei la necessità di ammodernare, mantenere, ottimizzare quanto già esiste. Attribuendo alle popolazioni “direttamente interessate il processo decisionale, fondamento della vera democrazia e dell’autonomia locale nei confronti di un modello di sviluppo imposto”. Questo ha portato a delle relazioni tra le associazioni in lotta contro le Grandi Opere Inutili e Imposte che si sono rafforzate e allargate a nuovi movimenti. Così, dal 2011, ogni anno, viene organizzato un Forum per permettere di fare il punto e di progredire insieme.
Quest’anno il 6° Forum Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte (GOII) tenutosi a Bayonne dal 15 al 17 luglio 2016 è stato come nel passato un luogo di scambio di esperienze simili e specifiche ed ha permesso di rafforzare i legami e la solidarietà tra i movimenti partecipanti. Il Forum di quest’anno ha fatto specifici riferimenti al dibattito della conferenza COP21 e all’urgenza di fermare il riscaldamento globale, ma anche alla crisi della democrazia, all’inasprimento dei conflitti sociali e alla drammatica condizione dei migranti.
Il Forum è stato l’occasione per discutere pratiche e azioni, e per migliorare la convergenza delle lotte, con l’obiettivo di costruire una società più consapevole. Dopo la presentazione delle lotte rappresentate al Forum, nelle conferenze e laboratori sono stati esaminati e discussi i seguenti argomenti: l’impatto del movimento contro le grandi opere “inutili ed imposte, nella lotta ecologica e climatica, il concetto di “interesse generale”, le comunità in lotta e i percorsi trasversali delle lotte, la non indifferente questione del ricatto occupazionale, le forme di azione non-violente, le incoerenze delle decisioni pubbliche a seguito della COP21, la natura infida del commercio delle compensazione dei danni ecologici, l’esacerbazione della repressione e la negazione della democrazia camuffata come legalità da mettere in relazione con la legittima denuncia delle menzogne e dei metodi mafiosi applicati, la recrudescenza della protesta, la resistenza e le nuove forme di democrazia attiva. Il Forum ha poi deciso azioni comuni di fronte al Parlamento Europeo di Strasburgo e in altri luoghi, per evidenziare la violazione dei diritti fondamentali dei cittadini in molti casi di progettazione e realizzazione di Grandi Opere.
Purtroppo, i potenti (e i loro progetti) prosperano sulle illusioni dei popoli che governano. La cultura dovrebbe permetterci di smascherare facilmente i “prestigiatori delle leggi”. Ai giovani il compito di mantenersi irremovibili e incorruttibili sulla strada del vero progresso e l’onestà è l’unica strada percorribile anche se la più dura.