Domenica 6 novembre sugli spalti dello Stadio San Paolo era esposto uno striscione bellissimo. C’era scritto “Forza Napoli” ma evidentemente non era questo che lo rendeva tanto speciale. La scritta bella, bellissima, era la parola “grazie” ripetuta in tutte le lingue del mondo.
Lo striscione era firmato da 25 ragazzi, tutti minorenni, sbarcati a Napoli a fine ottobre. Venticinque migranti, scappati dalla Libia, senza genitori e approdati sulle nostre coste, come la sirena Partenope che ci ha regalato il suo nome.
Solo che la sirena è arrivata qui a morire, loro per iniziare una nuova vita.
È la mattina del 23 ottobre e il porto di Napoli si prepara ad accogliere 466 persone, tanti minori, e purtroppo anche il corpo di una giovane mamma di 25 anni.
Anche lì c’era uno striscione, recitava “Welcome, Napoli is your home”.
Vedendo quelle immagini mi sono chiesta come si dovessero sentire: cosa hanno provato quelle centinaia di persone, stremate da un viaggio impossibile, con le vene che pulsano di paura e speranza, con la morte ancora negli occhi? Quanto calore hanno mai potuto dar loro quelle cinque parole?
Ho provato a immaginare cosa possa significare sbarcare in un paese sconosciuto, con gli abiti fradici, con la consapevolezza di essere sopravvissuti ma senza sapere cosa aspettarsi. Ci ho provato ma non ci sono riuscita, io che ho sempre attraversato i confini in aereo, io che non so cosa sia la fame, la sete e la paura, non ci posso riuscire, nessuno può.
Allo stesso modo, non possiamo sapere cosa i loro occhi hanno trovato in quello striscione di benvenuto, se gli ha fatto sorridere il cuore, se è stato un assaggio di quel sole che rende Napoli una delle città più belle del mondo. Non lo possiamo sapere, ma possiamo solo immaginare e sperare che su quel lenzuolo bianco ci abbiano trovato l’abbraccio di tutta la città.
Cosa devono invece aver letto gli occhi delle 12 donne che arrivavano a Gorino una settimana prima, nelle facce di tutte quelle persone intenzionate a non farle passare? Come devono essersi sentite, sopravvissute al mare, sballottolate in giro per l’Italia, convinte di star raggiungendo un posto da poter provare a chiamare casa?
Quanto freddo, quanta cattiveria, quanta disumanità può esserci nel marciare contro dodici persone? Quanto egoismo e quanta ignoranza nel credere che la terra che calpestiamo ci appartenga e che abbiamo il diritto di decidere con chi condividerla?
Anche Napoli non era pronta a quell’ondata di migranti quella mattina, viene allestito all’ultimo minuto uno spazio di accoglienza nelle strutture comunali a Marechiaro, uno dei posti più belli della città, uno di quegli angoli che offrono viste mozzafiato, dove il paesaggio, il mare, i profumi sono indescrivibili. Ci vengono ospitati quei venticinque ragazzi del San Paolo. Pensare di regalare a quei giovani occhi tutta quella bellezza, ci offre l’illusione di poter ripagare in qualche modo a tutto l’orrore che quegli occhi devono aver già raccolto.
Ancora di più devono aver fatto tutte quelle persone che in meno di 24 ore hanno portato al centro cibo, abiti e prodotti per l’igiene personale, tutto quello che a quel centro serviva per accogliere e ospitare questi venticinque giovani. Il Comune di Napoli fa appello alla popolazione e poche ore dopo è costretto a ritirarlo perché a Marechiaro non c’è più spazio per l’enorme quantità di beni raccolti.
Questa risposta della città di Napoli, questa gara di solidarietà, questo calore bastavano a riempire il cuore di ogni napoletano di umanità e orgoglio. Napoli è una città piena di problemi, brucia di ferite, ma è stata in grado di dare una lezione all’Italia intera.
Poteva bastare ma quei ragazzi hanno deciso di farci un altro regalo. Quei “grazie” ripetuti in tantissime lingue e sventolati a tutta la città dagli spalti del San Paolo, quei sorrisi, ci ricordano un sacco di cose.
Ci ricordano di amare questa città, di aggrapparci al calore e alla bellezza che ci sa dare. Ci ricordano che donare è il miglior modo per ricevere qualcosa. Ci ricordano che difendere la vita e la dignità di ogni uomo è l’unico modo di vivere degnamente.