Carissima, carissimo,
la confusione certe volte può essere una condizione piacevole, può significare allegria, scambio di emozioni, sorprendenti abbandoni di vecchie credulità, prontezza di riflessi, svago momentaneo dalla solita routine, mente vigile e liberatoria trascendenza, purchè a un certo punto se ne esca. La confusione, come certi litigi tra innamorati, tra familiari, tra compagni di scuola, tra amici, tra colleghi, può diventare un momento fondamentale di crescita, di conoscenza dei tanti che siamo, delle sfumature precise che contraddistinguono ognuno di noi e del valore profondo che ha sapere che gli altri, come noi stessi, ci sono e hanno qualcosa da dire, aspirazioni da realizzare e caratteri strani, diversi uno dall’altra. Fondamentale è che nessuno approfitti della confusione, di quel creativo scambio di idee e di emozioni, di intenti e di scoperte che può dare vita ad una unità di progetto per un futuro progressista, leale, aperto e possibilmente sereno. Il rischio è grande, perché spesso la confusione si tramuta in una estenuante lotta di potere e di furbizia, e allora il peggio dell’essere umano prevarica quel momento straordinario e nella confusione qualcuno rimane schiacciato. Altri, per timore e ignavia, cercano un capo, quello che sembra sempre avere la soluzione per tutto come un dono divino. Ed è questo il momento in cui nelle menti aperte, libere e preparate scatta la scritta luminosa: Pericolo! Personalmente non ci ho mai creduto al “capo”, non mi piace, sono troppo orgoglioso, troppo consapevole, per cedere la mia sovranità a chicchessia. Mentre sono disponibile, disponibilissimo alla collaborazione leale e costruttiva nei confronti di buone idee e progetti favorevoli per la comunità. Per molti è indispensabile avere una religione, una fede, che sia cattolica, musulmana o quel che volete, o che sia politica, che sia calcistica o esoterica. Va bene, è giusto, ognuno si tenga la sua, ma che non pretenda di imporla agli altri, che non si manchi di rispetto a chi cerca di vivere nel rispetto delle buone regole e di una visione allargata del benessere comune, pur con le proprie fragilità e inevitabili cadute.
E’ in questo mondo di confusione, dove le democrazie stanno attraversando una vera e profonda crisi, che mi torna in mente il profondo significato politico della terza convocazione in Vaticano da parte di papa Francesco dei rappresentanti dei Movimenti Popolari di tutto il mondo dello scorso novembre. Incredibile, in un momento di profonda crisi, economica, morale, politica e finanziaria, è il Papa che convoca, non la Politica! Una politica che non riesce a denunciare che il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi finanziari, economici e mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, che non sono partiti politici, esprimono una forma nuova, diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica.
Ho passato tre settimane in Brasile a cavallo tra dicembre e gennaio, ho incontrato politici, teologi, visitato centri sociali, mi sono fermato sotto i viadotti a parlare con i nuovi poveri, (dallo scorso luglio la situazione si è deteriorata così velocemente che sono tornati a migliaia a vivere nelle strade), i rappresentanti del MST (movimento senza terra), tutti si sono espressi sull’urgenza di “organizzare una nuova politica partecipativa”. Una politica che superi le politiche sociali clientelari, concepite verso i poveri, ma mai con i poveri, al solo fine di “tenerli buoni”. Mettere in discussione l’attuale politica economico-finanziaria deve diventare il vero obiettivo politico dei Movimenti. Unica condizione per un reale cambiamento. Joao Pedro Stedile, del MST ha evidenziato con forza la creazione di una nuova azione politica iniziando dal Brasile. Contro questo populismo che fa leva sulla demagogia e contribuisce alla degenerazione della democrazia, perché fondato sulla manipolazione da parte dei media della coscienza popolare e non frutto di una piena partecipazione consapevole e cosciente dei cittadini.
“Italo D’Elisa la giusta fine”: così è stata titolata la macabra pagina Facebook aperta (e troppo tardi richiusa) per celebrare la vendetta di Fabio Di Lello, assassino di Italo, colpevole a sua volta di aver ucciso in un incidente stradale la moglie di Fabio. E’ accaduto a Vasto, dove sui social si è consumata l’ombra gelida della vendetta. Molti hanno scritto: “Italo, uno di meno”, altri che Fabio abbia fatto bene, visto la cronaca lentezza della giustizia, altri ancora che non avrebbero avuto il coraggio, ma che in definitiva la vendetta é del tutto comprensibile. Anche questa volta troppi “eroi” della tastiera sono divenuti “una legione di imbecilli”. Questa tragica vicenda successa a Vasto reclama qualche riflessione ulteriore. Si, perché la vendetta è un comportamento che ci riguarda tutti e riguarda questa società alla ricerca di colpevoli da giustiziare pronti ad accusare gli altri (e assolvere se stessi). E tutti noi, spesso, quando la rabbia ci assale, convinti di aver subito un’ingiustizia, anche minima, siamo lì, immediati paladini di una giustizia sommaria e cercatori di piccole e grandi vendette. Stiamo creando sempre di più una società spietata, bisognosa di riscoprire l’altro come “fonte” della nostra vita, l’incontro, il dialogo, il perdono.
Oggi la psicologia sta proponendo questi comportamenti come un processo indispensabile ed efficace alle offese, migliori della vendetta. L’incontro, il dialogo, il perdono determinano maggior benessere, sia fisico che psicologico, avendo effetti positivi sugli aggressori, migliorando le relazioni sociali. Frei Betto, teologo brasiliano, incarcerato dalla dittatura militare, dove era quotidianamente torturato insieme ad altri suoi compagni scriveva: “odiare fa male a chi odia”. Oggi creare una società di misericordia è più efficace di una società spietata, ripiegata su se stessa. Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, afferma: “l’unità è superiore al conflitto” e propone una via per la pacificazione per non “rimanere intrappolati nel conflitto”, perché è allora che “perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la stessa realtà resta frammentata” (EG 227). Restare intrappolati nel conflitto non serve. Urge innescare processi evolutivi per contrapporsi a svilupparsi di forme di violenza, di vendetta, di sopraffazione e di aggressione. Il conflitto, dunque, può diventare una sorte di spirale mortale per l’uomo. Mentre i temi dell’incontro, del dialogo e del perdono, come processi di risoluzione di conflitti e di rinnovamento delle relazioni, significano promuovere forme di unità profondamente nuove.
Incontrarsi, dialogare, perdonare non significa dimenticare, ignorare le differenze, far finta di nulla, negare il male ricevuto, minimizzare, giustificare o scusare: ma innescare processi capaci di rigenerare le relazioni e noi stessi. Perché l’unità è sempre superiore al conflitto, perché è rigenerativa, mentre il conflitto è paralizzante. Oggi si contano decine di “guerre regionali” che qualcuno ha coniato come la “terza guerra mondiale”, ma dove si svolgono? Lontano dal nostro stare in pace, continuando a consumare, vivendo senza particolari preoccupazioni. Vivendo come se ciò che succede al nostro esterno sia un ingombro. Ma l’altro è parte di noi, è un dono, ha tratti precisi, ha una storia personale, ci aiuta ad aprire gli occhi per accogliere ed amare la vita, anche quando si presenta sotto le mentite spoglie di un violento, di un rifiuto, di uno scartato umano. Guardando il suo volto, mentre il sole sta appena nascendo, ci ricorderemo che nessun uomo è nostro nemico.
Antonio