Due reticolati paralleli, sei metri di altezza, lame affilate in cima: sono stati saliti e scavalcati da più di seicento giovani, scattati tutti insieme, una di queste notti di luglio. A torso nudo, per evitare che la maglietta s’impigli.
È l’atletica leggera dei tempi correnti, lo scavalco di muri, mari, monti.
È l’atletica pesante di chi solleva il proprio peso fino al bordo dello sbarramento, lasciando sulle lame il pedaggio del sangue.
Sono giovani, nel pieno della disperazione delle forze, spese nel viaggio e sull’ostacolo. Hanno smesso di sperare, per darsi allo sbaraglio. Ognuno sente l’energia sovrumana del numero, moltiplicatore di coraggio, quello che ammette di farsi decimare.
La massa critica di centinaia di giovani in una notte di luglio, senza colonna sonora di discoteche, si lancia nella peggiore gara a ostacoli dove non conta arrivare primi, ma in molti.
Imparo da loro che il futuro sta nella loro indifferenza a qualunque ferita, morte inclusa.
Quando da una spiaggia notturna una madre sale con il suo bambino su un canotto stracarico e sgonfio, ho il fotogramma dell’inesorabile. Quando l’istinto materno è sopraffatto da superiore urgenza, imparo cosa sia dover andare.
Da un’altra parte, a Roma, si sgombera di forza un campo di zingari. Le ragioni sono igieniche e sanitarie. È vero. La Giunta locale ha prima demolito container con i gabinetti, poi ha interrotto la fornitura di acqua e chiuso l’allaccio a fogne.
Sono cronache estive di militi ignoti, atleti dell’accanito allenamento al peggio, storie di persone costrette a essere eroiche.
Perché ne scrivo, perché ne riferisco? Senza intenzione di suggerire rimedio, non so guardare da un’altra parte. Non so imparare da altri esempi le virtù della specie alla quale intendo continuare a appartenere.