di Deborah Lucchetti (*)
Estratto dell’articolo di approfondimento contenuto nel rapporto “Sviluppo sostenibile per chi? Una visione critica per la coerenza delle politiche italiane ed europee” a cura della “Coalizione italiana contro la povertà“.
Leggere le rotte di produzione globali che oggi caratterizzano il settore della moda è di fondamentale importanza per comprendere l’architettura dell’economia mondiale, i suoi modelli organizzativi e di governance. Le profonde riorganizzazioni produttive che hanno attraversato gli ultimi decenni, basate sulla frammentazione e dispersione spinta della produzione, hanno dato origine a complesse reti di fornitura globale che attraversano i diversi Paesi generando flussi di merce, capitali e manodopera che plasmano la geografia sociale e politica dei territori. Si tratta di rotte produttive in continuo mutamento, dove la mobilità dei capitali unitamente alle strategie di outsourcing (come viene chiamata la esternalizzazione della produzione di beni o servizi) crea l’ambiente perfetto per spingere le condizioni di lavoro e i salari sempre più in basso. Il risultato è che oggi a produrre un capo di abbigliamento o un paio di scarpe concorre una manodopera dislocata in diverse parti del mondo, che opera con intensità e in condizioni di lavoro differenziate, a seconda che si collochi a monte o a valle delle catene globali del valore. Le imprese transnazionali si riorganizzano costantemente e, tramite i flussi produttivi generati lungo le catene di produzione, intersecano dinamiche istituzionali, sociali, lavorative e spaziali che utilizzano nel modo più vantaggioso e profittevole. Il potere è concentrato nelle mani delle imprese leader detentrici del marchio e/o dei canali distributivi; oggi i global player, che dettano all’infinita e frammentata pletora di fornitori e sub-fornitori le condizioni e i termini di partecipazione ai processi produttivi, determinano le condizioni di lavoro e di vita di milioni di lavoratori, soprattutto donne.
Assistiamo perciò a un esteso e dilagante fenomeno di pauperizzazione del lavoro nei “nodi” della rete più disconnessi e periferici dove il lavoro mercificato, sfruttato e non organizzato è uno dei fattori strategici di profitto (oltre ai vantaggi normativi e fiscali). I grandi marchi investono in tutti i segmenti del mercato, dalla fast-fashion al lusso, per ottenere al minor costo prodotti adatti ad ogni tasca, così da assicurarsi spazi di vendita fra consumatori sempre più impoveriti (anche in Europa) e élites sempre più ricche (specialmente nei paesi emergenti).
È bene chiarire che tali traiettorie attraversano senza ostacolo alcuno l’intero globo, dislocando i nodi produttivi e logistici sia nei paesi in via di sviluppo, sia in quelli occidentali a capitalismo maturo. L’Italia, paese dalla grande tradizione manifatturiera e al contempo mercato di sbocco per iper-consumatori maturi, condensa e riflette tutte le contraddizioni del sistema globale della moda.
Soggetta ai dettami del fashion-system, che impone cambi di collezione sempre più frequenti per stimolare mercati saturi o ultra esigenti, la produzione di abbigliamento e calzature cresce in maniera inversa ai diritti di chi li produce e – come dimostrano le numerose ricerche condotte in Italia, Est-Europa e Asia – processi ad alta intensità di manodopera sottoposti a rapidi tempi di consegna e prezzi ridotti all’osso peggiorano le condizioni di vita e di lavoro di milioni di lavoratori collocati a valle delle catene produttive. Un peggioramento avvenuto anche nel continente europeo, oggi al centro di importanti fenomeni di delocalizzazione di ritorno. Ad essere più interessati sono i paesi dell’Europa dell’Est, con salari talvolta più bassi di quelli asiatici, ma anche l’Italia dove importanti brand del lusso vengono o tornano a produrre per una “delocalizzazione di prossimità”.
Si tratta del fenomeno del reshoring, cioè del rientro delle produzioni prevalentemente di fascia medio-alta dall’Asia verso i paesi di origine come l’Italia (back-reshoring) o verso i paesi del bacino del Mediterraneo o dell’Europa dell’Est(near-reshoring). Il fenomeno, da leggere all’interno della dinamica globale, non rappresenta tuttavia una totale inversione di tendenza. Esso è piuttosto complementare e simultaneo a fenomeni di delocalizzazione dipendenti dall’attrattività delle condizioni economiche e istituzionali e dal livello di qualità artigianale richiesto.
È molto interessante osservare quanto il tema della qualità percepita sia centrale oggi per orientare le scelte produttive delle griffes, dato che all’estero il mercato del lusso cerca il vero made in Italy per il quale «i super-ricchi cinesi sono disposti a spendere fino al 50% in più» (Bubbico D., Redini V. e Sacchetto D., I cieli e i gironi del lusso. Processi lavorativi e di valorizzazione nelle reti della moda, 2017). È quindi chiaro il valore commerciale assoluto del marchio e il peso della retorica della narrazione dei luoghi nutrita di un immaginario artistico, produttivo e perfino paesaggistico necessario a sostanziare l’“economia del brand”. Come ha ben sintetizzato uno dei lavoratori intervistati per la ricerca sui marchi delle calzature del lusso pubblicata da Abiti Puliti nel 2017: «Alle imprese globali non importa dove si realizza la produzione. A loro basta disporre di filiere produttive funzionali ai loro progetti e poter scrivere sui propri prodotti made in Prada, piuttosto che made in Tod’s» (vedi il rapporto “Il vero costo delle scarpe” su www.abitipuliti.org).
L’operazione di marketing compiuta dalle griffes fa leva sul made in Italy o in Europe come vettore di un immaginario sociale e culturale puro che, alla prova dei fatti, non esiste, al solo scopo di rafforzare l’“economia del brand”. Quello che invece emerge dalle numerose indagini svolte è una realtà ben più articolata e scomoda: una realtà che vede l’utilizzo delle catene di fornitura e di subfornitura fino al lavoro a domicilio quali opportunità per esternalizzare responsabilità, abbassare drasticamente il costo del lavoro, mettere in competizione lavoratori poveri italiani, rumeni, albanesi, tunisini o cinesi (per citarne alcuni) operanti sia in Italia che all’estero. Il miracolo è compiuto: oggi può accadere che un ricco consumatore cinese possa finalmente acquistare un prodotto di lusso italiano confezionato da una lavoratrice albanese in Albania pagata con un salario da fame oppure in Italia da un terzista spinto a frodare i lavoratori, il fisco e il sistema previdenziale o ancora da un laboratorio cinese operante nel cono d’ombra dell’economia sommersa.
Una delle cause è nelle pratiche commerciali adottate dalle imprese leader che appaltano commesse a costi troppo bassi per garantire il rispetto della legalità e dei diritti. La totale libertà di circolazione dei capitali e delle merci associata alle politiche attive di attrazione degli investimenti esercitate dai governi europei favorisce il rientro delle produzioni nel nostro paese e/o in Europa. Le imprese leader però esibiscono solo la parte del processo produttivo funzionale ad accrescere il valore del brand mentre occultano, anche attraverso obblighi di confidenzialità con i fornitori, le dinamiche di irregolarità e sfruttamento prodotte man mano che si scende nella filiera.
Nelle stesse filiere globali possono dunque convivere funzioni professionali pagate profumatamente come il design, il marketing, la comunicazione, il lavoro specializzato, con una massa di lavoratori, soprattutto donne, sfruttati, flessibili, irregolari, spesso privi di tutele e rappresentanza. Essi sono le principali vittime di un imponente processo di pauperizzazione prodotto dalla dinamica selettiva delle catene di produzione su scala globale.
In tale contesto il tanto celebrato made in Italy veicolato come sinonimo di maggiori garanzie sui diritti e sulla qualità sociale dei prodotti si scontra con la realtà materiale che incontriamo. Se un paio di scarpe è solo progettato in Italia e poi cucito in stabilimenti di proprietà dei marchi o presso sub-terzisti in Serbia, Albania o Indonesia (per citarne solo alcuni) da lavoratori stranieri miserabili oppure in Italia da parte di terzisti che pagano salari inferiori al livello dignitoso, quale significato e valore ha davvero oggi parlare di made in Italy?
L’Italia: snodo mondiale ed europeo strategico
Senza vincoli di proprietà, la rete di produzione globale costituisce un contesto socio-spaziale ideale per favorire la mobilità della produzione verso i territori più convenienti in termini di fiscalità, costo del lavoro, infrastrutture e rapidità di trasporto. L’intero apparato produttivo mondiale è messo a disposizione dei grandi marchi in una sorta di just in time che rende perfino superflua la disputa sul made in Italy. L’Italia è uno snodo strategico, per le diverse funzioni che assolve nell’ambito del sistema globale: ideativa, produttiva, distributiva e simbolica, con un territorio straordinariamente prossimo ad uno dei principali bacini di manodopera a basso costo del pianeta: l’Europa centrale, orientale e sud-orientale, senza naturalmente dimenticare il Mediterraneo.
I governi, dal canto loro, competono per attrarre le imprese globali offrendo le condizioni più vantaggiose. Un caso esemplare è quello della Serbia, dove una forte deindustrializzazione ha decimato il settore del tessile-abbigliamento-calzature all’indomani del collasso della Federazione Jugoslava. Il settore, che fino agli anni Ottanta vantava 250.000 addetti e un mercato interno autosufficiente per la confezione del prodotto finito, oggi è sostanzialmente scomparso e totalmente dipendente dalle esportazioni verso paesi come l’Italia (37,4%), la Germania (13%), la Russia (9,7%) e la Bosnia Erzegovina (7,9%). L’industria tessile serba, nonostante il progressivo e inesorabile impoverimento (meno100.000 occupati dagli anni Ottanta, condizioni di lavoro pessime, povertà diffusa) resta quella trainante nelle esportazioni che però, dopo gli accordi sottoscritti con l’Unione europea (Ue) avvengono principalmente in regime di Traffico di perfezionamento passivo o TPP (regime doganale che consente alle imprese comunitarie di esportare materie prime o semilavorati in paesi non Ue per poi reimportarle senza pagare dazi), che rappresenta il colpo di grazia per l’economia nazionale e per il reddito dei lavoratori (vedi il rapporto “Europe’s Sweatshop – L’Europa dello sfruttamento” su www.abitipuliti.org).
In Serbia, fra i grandi marchi della fast fashion e del lusso che attingono al bacino depresso di manodopera locale low-cost, sono stati individuati Armani, Calzedonia, D&G, H&M, Inditex/Zara, Louis Vuitton, Mango, Max Mara, Zegna, Geox, Golden Lady, Gucci, Prada, Versace (idem). Qui il salario minimo legale netto vale 189 euro mensili, valore nettamente al di sotto della soglia di povertà pari a 256 euro, e appena il 29% del salario minimo dignitoso stimato dai lavoratori intervistati dai ricercatori della Clean Clothes Campaign (CCC).
Ma ciò ancora non basta. Oltre a regimi doganali favorevoli e manodopera a basso costo, la Serbia offre anche generosi incentivi ai capitali esteri purché investano nel paese: sovvenzioni, zone franche, esenzioni fiscali, incentivi per l’assunzione di disoccupati, terreni e infrastrutture. Come nel caso della Geox, che ha ricevuto 11,25 milioni di euro dal governo per aprire lo stabilimento inaugurato a Vranje nel 2016 con l’impegno di assumere 1.250 lavoratori cui corrispondere salari maggiorati del 20% rispetto al minimo legale. Impegno che, secondo quanto riportato ancora nell’ultimo rapporto pubblicato dalla CCC nel 2017, non è stato rispettato. I lavoratori intervistati hanno dichiarato di percepire salari compresi tra 25.000 e 36.000 RSD (dinaro serbo), per una media di 30.000 RSD (248 euro). Ciò significa che essi guadagnavano in media l’89% di quanto il datore era contrattualmente obbligato a pagare, e che una parte percepiva un salario addirittura inferiore al minimo legale netto. In media i lavoratori intervistati percepivano solo il 39% del salario minimo dignitoso calcolato dagli stessi lavoratori, a conferma della condizione strutturale di povertà diffusa nel settore e nei paesi dell’Est Europa con i quali le imprese italiane del settore intrattengono maggiori rapporti produttivi in regime di TPP.
A una lavoratrice albanese o rumena occorre un’ora di lavoro per acquistare un litro di latte mentre alla collega tedesca solo sei minuti (vedi il report “Il lavoro sul filo di una stringa”). Questa semplice comparazione tra i poteri d’acquisto spiega immediatamente l’enorme disparità prodotta nelle catene di fornitura dove l’asimmetria di potere tra chi comanda a monte e chi esegue a valle, si riflette sulle condizioni di vita dei più vulnerabili, che si tratti delle lavoratrici dell’Europa dell’Est al servizio delle griffes europee o delle lavoratrici italiane intrappolate al fondo della stessa filiera in competizione con le colleghe cinesi, albanesi o macedoni.
La corsa verso il basso non ha frontiere e in un sistema profondamente interconnesso sta producendo un pericoloso peggioramento delle condizioni di lavoro anche nel nostro paese, dove esistono sacche dilaganti di economia sommersa affiancate dalla proliferazione di contratti peggiorativi o “pirata”.
Val la pena di ricordare che i contratti peggiorativi sono proliferati grazie alla spinta propulsiva della Banca Centrale Europea che ha imposto all’Italia pesanti riforme alla contrattazione salariale collettiva (vedi il sole 24 ore del 29 settembre 2011). Diktat accolto istantaneamente dal governo italiano che con l’art. 8 del decreto 138/2011 ha stabilito la possibilità di siglare accordi sindacali aziendali o territoriali che possono derogare in peggio a quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali e dalla legge.
Il ruolo delle politiche EU e dei governi
Come già ricordato le reti di produzione globale non sono fenomeni sconnessi dal contesto socio-economico in cui operano. Anzi, esse interagiscono dinamicamente con le vocazioni produttive territoriali e gli assetti politico-istituzionali in un intenso rapporto di scambio, oggi del tutto a vantaggio delle imprese.
Dai casi analizzati, emerge un ruolo molto attivo dei governi nazionali e delle istituzioni europee volto a creare un ambiente favorevole agli investitori e alle imprese. Le forme di condizionamento esercitate dalla Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sui paesi post-socialisti osservati, ad esempio, limitano lo sviluppo salariale mediantel’imposizione di politiche economiche restrittive come contropartita all’erogazione di finanziamenti, misure che hanno favorito la nascita di un’area a basso reddito all’interno del continente europeo.
L’Italia, dove da decenni trionfano politiche di stampo liberista centrate sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro come fattore di crescita e competitività, non è esente da tali dinamiche. Il progressivo impoverimento dei lavoratori, la crescita sensibile delle diseguaglianze economiche e sociali, l’aumento della povertà relativa ed assoluta, testimoniano il fallimento di politiche pubbliche che sono intervenute pesantemente nell’economia a sostegno della parte più forte nei rapporti di produzione, le imprese. Ciò è perfettamente sintetizzato nei dati rilasciati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, secondo cui in Italia la quota dei redditi da lavoro sul PIL è passata dal 66,1% del 1976 al 53% del 2016 (Fana M., Non è lavoro, è sfruttamento, 2017).
La sorveglianza sistematica dello sviluppo salariale e l’invito a fissare salari minimi che generano povertà a livello nazionale, è ormai uno strumento normale delle politiche Ue. Ciò contraddice palesemente gli obiettivi di riduzione della povertà indicati nella Strategia Europa 2020 e nel Pilastro europeo dei diritti socialidove si afferma: «Retribuzioni minime di livello adeguato garantiscono uno standard dignitoso di vita ai lavoratori e alle loro famiglie e contribuiscono a ridurre l’incidenza della povertà lavorativa».
Conclusioni
Il punto di vista del lavoro fatica oggi a condizionare le agende politiche a tutti i livelli. Siamo di fronte ad una frantumazione delle filiere produttive che agevola fenomeni di dumping e sfruttamento endemico dei lavoratori, sempre più vulnerabili, atomizzati, precari e confinati in aree periferiche lontane dai centri decisionali. Alla frantumazione delle filiere corrisponde una disintegrazione sociale che, unitamente al timore dei paesi produttori di perdere i loro margini competitivi, alla paura dei lavoratori di perdere il posto di lavoro e alla repressione e alle minacce subite di chi ha avuto il coraggio di esporsi con denunce pubbliche, neutralizza il conflitto sociale, ostacola l’organizzazione collettiva e la formazione di sindacati liberi capaci di fare gli interessi dei lavoratori.
Si rende quindi sempre più urgente una revisione delle politiche pubbliche coerente con gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, a partire da una presa d’atto pubblica delle pessime condizioni di lavoro e di vita che affliggono più di 60 milioni di lavoratori, in particolare donne, nell’industria globale dell’abbigliamento e delle calzature. Dall’analisi condotta sul settore analizzato, l’obiettivo ambizioso di porre fine alla povertà attraverso la creazione di posti di lavoro sicuri e dignitosi è posto in forte discussione dalla realtà di una crescita economica sostenuta da politiche pubbliche a favore degli investitori, sganciata dal benessere delle comunità, tutt’altro che inclusiva e sostenibile. Crescita che lascia a terra i lavoratori più vulnerabili, in particolare le donne, abdicando al compito di ridurre le diseguaglianze di genere, semmai acuite quale elemento competitivo a favore delle imprese. Tra le cause della crescita delle diseguaglianze vi è il perseverare degli Stati e degli organismi internazionali a promuovere principi e raccomandazioni di carattere volontario per la difesa dei diritti umani mentre si rafforza una cornice globale fatta di leggi, regole, trattati e incentivi orientati ad assicurare politiche pubbliche favorevoli agli investitori e alle imprese, a scapito della capacità dei governi di proteggere i cittadini e le comunità.
Un quadro normativo vincolante per le imprese transnazionali a livello internazionale, europeo e nazionale, che superi l’approccio volontario, è oggi più che mai necessario. A tal proposito è fondamentale il sostegno esplicito dei Governi e dell’Ue al processo negoziale avviato dal Gruppo di lavoro intergovernativo delle Nazioni Unite per la definizione di un Trattato vincolante per le multinazionali in materia di diritti umani. Inoltre è necessario affermare una visione sistemica e coerente tra le politiche in materia di commercio, investimenti e lavoro, in modo da promuovere accordi, leggi e incentiviche riconoscano la supremazia dei diritti umani sugli interessi economici di stampo privatistico. Senza un deciso e radicale cambio di prospettiva, è difficile pensare ad una effettiva implementazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile, costantemente minacciati o addirittura ostacolati da politiche di segno opposto molto più efficaci e cogenti.
(*) Articolo tratto da Comune-Info.
Deborah Lucchetti è portavoce portavoce della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign.