Il Brasile, che fu laboratorio politico della sinistra a Porto Alegre, oggi si consegna alla “restaurazione dell’ordine gerarchico naturale” del fascista evangelico Jair Bolsonaro. Ma non è la fine della Storia in America latina.
Ci sono poche speranze che oggi il Brasile non si consegni a Jair Messias Bolsonaro, il candidato parafascista, che viene a “restaurare l’ordine gerarchico naturale”, violato dai diritti sociali e umani, e che farà strame del regime democratico restaurato nel 1985 in Brasile, dopo il ventennio della dittatura militare, e identificato nel XXI secolo col ruolo del più grande partito socialdemocratico del mondo, il PT, il partito dei lavoratori di Lula da Silva. Sul carattere di Bolsonaro si è scritto molto in queste settimane ed esistono pochi dubbi; pochi dittatori in fieri – prima ancora di andare al potere – hanno la sfacciataggine di promettere l’esilio o il carcere a chi si oppone loro. Politico di lungo corso, in parlamento da 28 anni, si spaccia per il nuovo, ma è l’uomo di tutte le lobby, da quella delle armi, che vuole totalmente liberalizzare, all’agroindustria che vuole sradicare la foresta amazzonica. Propugnatore di tutte le sconcezze più reazionarie, dalla tortura alla pena di morte extragiudiziale, dall’omofobia alla subalternità della donna, Bolsonaro piace.
Bolsonaro piace non solo come uomo forte, ma piace proprio in quanto anti-democratico, nel quale la spada e la croce, quella evangelica, siano la risposta a qualunque mediazione e qualunque complessità. La verità è che Bolsonaro piace senza limiti nella sua promessa di restaurare un regime premoderno, predemocratico, nel quale ognuno stia al suo posto e il Brasile torni grande (come i democratici scimmiottavano lo “yes we can” di Obama, così lo slogan è esattamente quello di Trump) rispetto a un’età dell’oro, una grandezza, che non è mai esistita. Grandezza, legge e ordine (non “ordine e progresso”, motto positivista del Brasile) e l’opinione pubblica sconcertata gli si afferra. Bolsonaro è anche creatura di Steve Bannon, attivissimo nel paese e il riferimento trumpiano, sia ideologico che di prassi politica, è presentissimo e legittimante. Non importa quanti (perfino Marine Le Pen lo disprezza) considerano Bolsonaro un impresentabile: la Casa Bianca è con me. E pure Salvini, col quale cinguetta amorevolmente.
L’egemonia mediatica di Bolsonaro (che smantella la menzogna mainstream per la quale la sinistra sia mai riuscita nel Continente a controllare i media) supera la mediazione perfino delle televisioni monopoliste peggiori del mondo. Travalica perfino i blandi processi di controllo di Facebook e Twitter per buttarsi sulla personalizzazione pervasiva e totale di Whatsapp. L’uso di gruppi Whatsapp – sui quali sono stati investiti milioni di dollari di capitali illeciti – nella campagna elettorale in Brasile, è oggi il caso di scuola per eccellenza di veicolazione di fake news senza alcun controllo possibile. Chi scrive, meno di dieci anni fa, aveva scritto un libro sui media personali di comunicazione di massa, sul potere dei cittadini informati di autocomunicare. Chi scrive sbagliava, tanto sui cittadini informati come sulla parcellizzazione della libertà di stampa; si possono veicolare menzogne ed essere totalmente disinformati e tutto ciò non è affatto a favore di processi democratici. Il Brasile lo testimonia in un presente già distopico.
Con Bolsonaro il destino di grande potenza del Brasile, che Lula aveva tentato, a volte riuscendovi, a declinare in senso progressista, torna a farsi convitato di pietra nel dibattito, questa volta in senso militarista e sub-imperialista, un vecchio dibattito che ci riporta al Piano Condor e allo sterminio degli anni Settanta. Il Brasile potenza regionale, ma subalterna rispetto agli Stati Uniti, è pronta a rompere il tabù della guerra tra stati nella regione, innanzitutto contro il Venezuela, come hanno già affermato sia il figlio di Bolsonaro Eduardo, sia il candidato vicepresidente, il generale Hamilton Mourao, apertamente nostalgico della dittatura militare. C’è da credere che se bombarderà Caracas Bolsonaro prenderà applausi anche in Europa, anche a sinistra perché Bolsonaro è innanzitutto il tutore di quell’ordine conservatore, locale e mondiale che i tucanos (la destra tradizionale) non era più in grado di garantire.
Non bisogna però nascondersi che, se il regime militare nel 1964 era stato la risposta delle élite all’irruzione delle masse nella vita pubblica, il regime di Bolsonaro appare essere quello della ritirata delle masse stesse come soggetto politico, della fine delle rappresentazioni collettive e dei corpi intermedi. Questa samba macabra è dunque la ricetta che spazza via tutto quello nel quale i democratici hanno creduto dalla fine del socialismo reale in qua. Abbiamo tutti creduto che, in una situazione che mai è stata di egemonia né culturale né di controllo reale dei processi economici, si potesse almeno temperare il modello economico vigente, basato sull’individualismo ideologico e sulla dissoluzione della società in quanto tale e catalizzare, attraverso l’educazione, la salute, aiuti agli indigenti, la difesa dell’ambiente, una nuova società dove i diritti avessero un ruolo centrale e si potessero creare classi popolari e medie coscienti. In fondo di questo si è sempre trattato e in fondo – nell’impraticabilità di ogni prospettiva più radicale – ed è questo che verrebbe sconfitto oggi da Bolsonaro: la riformabilità del sistema economico vigente. Nella sconfitta del PT c’è la costatazione del riformismo impossibile e della pervasività del neoliberismo individualista che trova nell’evangelismo – del quale Bolsonaro è esponente – la sua religione e una nuova escatologia del mondo e dei destini individuali. Ci torno più avanti.
Della sinistra, dei governi di centro-sinistra degli ultimi tre lustri, di quello di Lula prima e di Dilma poi, si può fare tutta la critica e l’autocritica che si vuole. Sul breve termine in molti hanno visto il percorso che ha portato alla candidatura di Fernando Haddad come un cumulo di errori e di personalismi. Se Lula avesse fatto un passo indietro immediatamente dopo la sua ingiusta condanna, forse la candidatura di Haddad avrebbe potuto prendere il volo, non sarebbe stata schiacciata sulla rappresentazione della continuità con Lula, ma avrebbe potuto giocare su fattori di rinnovamento rispetto alla legittima stanchezza di tanti per il PT. D’altra parte – chi scrive ebbe conversazioni in questo senso ai massimi livelli – la cupola del PT era convinta che l’unico candidato in grado di vincere fosse Lula stesso e non si è mai mossa da tale convinzione, che peraltro sarebbe suffragata dal voto odierno.
Sul lungo termine si può biasimare la limitatezza della prospettiva che non ha saputo, potuto, voluto modificare forse irrisolvibili nodi storici, dell’America latina in particolare. In primo luogo la dipendenza dalle commodities del Continente, una dipendenza storica che ne segna ricchezza e miseria. Che piaccia o no, in un Continente che è quasi un paradiso fiscale per i ricchi, da Lázaro Cárdenas a Salvador Allende a Cristina Kirchner è solo esportando materie prime che si è finanziato lo stato sociale. Il ciclo progressista di inizio XXI secolo non ha fatto eccezione. L’uscita dalla povertà e l’accesso alla cittadinanza in sé è stata declinata piuttosto come accesso al consumo; sei cittadino in quanto hai accesso al mercato. Al sottoproletario è bastato.
Se solo alla fine ha inciso l’incapacità di rinnovamento generazionale, l’alleanza col capitale finanziario, che non si poteva o pensava di potere contrastare, è stata una scelta di fondo. Dalla corruzione all’inadeguatezza rispetto a problemi più grandi di noi, come il narco, il potere infinito del narco, la verità è che anche il migliore dei PT possibili non sarebbe bastato a tamponare processi storici dove innanzitutto il lavoro di massa, salariato, organizzato e difeso dai sindacati (la CUT ha tuttora venti milioni di iscritti) non è più il cuore dei processi storici. Va da sé che il Brasile laboratorio mondiale di alternative a Porto Alegre, alla prova del governo, 14 anni, non un giorno, doveva e poteva dare prova migliore di sé.
E però, ricordiamo la temperie di fine XX secolo che generò quella prospettiva di cambio: il trionfo del neoliberismo e del Washington Consensus imposto sì dalle dittature ma anche dalla caduta del socialismo reale. Il tradimento alla chiesa conciliare, che era attrice fondamentale della vita latinoamericana, produce il protagonismo evangelico proprio nei paesi, come il Brasile o il Guatemala dove più importante era l’elaborazione teorica e la testimonianza della “opzione preferenziale per i poveri”. Karol Wojtyla sacrificò l’America latina (che non amava e non gli interessava) sull’altare della guerra fredda, per consegnare oggi quello che è stato ma non è più il più grande paese cattolico al mondo, all’evangelismo più reazionario che si fa governo con Bolsonaro.
Oggi non perde solo il PT, un partito socialdemocratico che ha tentato di mettere insieme nell’ultimo trentennio troppe cose, ma è la storica sconfitta del cattolicesimo conciliare che in Brasile trovava la sua massima espressione. Jorge Bergoglio, eletto papa innanzitutto per rimediare al disastro del wojtylismo nel continente cattolico, oggi appare un argine troppo fragile. Non è il cattolicesimo conservatore a trionfare, ma l’evangelismo, il cristianesimo neoliberale dove la salvezza è solo individuale e non è mai di questa terra.
Chioso: anche nell’era di Whatsapp le masse esistono e, come mostrano in queste ore i coraggiosi migranti che dall’Honduras discendono il mappamondo verso gli Stati Uniti, i loro bisogni e i loro diritti sono ancora il centro di tutto. Ancora poche settimane fa, con tutta la timidezza e in una situazione sociale terribilmente compromessa, Andrés Manuel López Obrador ha vinto in Messico le elezioni. Come ciò si possa declinare nel presente distopico di Macri, Duque, Trump e Bolsonaro, va oltre le ambizioni di questo articolo, ma le ragioni in cui credevamo vent’anni fa, limitare la disuguaglianza e l’ingiustizia, restano pienamente vigenti, per quanti errori si siano commessi e per quanto dura sia la traversata del deserto che ci attende. Molto si è seminato, tornerà il tempo del raccolto.