La prevista vittoria di Jair Bolsonaro in Brasile sarebbe una sciagura di proporzioni gigantesche per tutto il continente, ma non possiamo limitarci a denunciarne gli effetti catastrofici. Il fatto che mezzo paese abbia scelto di votarlo impone una riflessione finalmente seria e profonda sul consenso che ha ottenuto e, soprattutto, sulla necessità impellente di aprire nuove strade. A maggior ragione se ricordiamo che la storia insegna che non è mai stato possibile sconfiggere il fascismo limitandosi a votare. In América latina, nei decenni passati, siamo passati dalla strategia della lotta armata a una strategia esclusivamente elettorale. Entrambe hanno in comune l’obiettivo di prendere il potere e concentrano tutte le loro batterie in quella direzione. Questo pendolo è nefasto perché pone i settori popolari solamente come supporto logistico o come elettori, sempre al servizio delle avanguardie o dei caudillos, e mai come protagonisti delle loro vite politiche di ogni giorno.
La schiacciante votazione che ha ricevuto Jair Bolsonaro al primo turno delle elezioni brasiliane, che lo colloca alle porte della presidenza, è però una buona opportunità affinché, come persone di sinistra, riflettiamo sulla necessità di percorrere nuove strade. Non basta, pertanto, limitarsi a denunciare quello che già sappiamo: il carattere militarista, autoritario e di ultra-destra del candidato. È necessario spiegare perché mezzo paese lo vota e che implicazioni comporta per il progetto di emancipazione.
Il Brasile vive una profonda frattura di classe, di genere e di colore della pelle che si manifesta in maniera nitida nei partiti della destra, i quali hanno delineato i loro obiettivi in modo chiaro e trasparente: vogliono installare una dittatura mantenendo il sistema elettorale. La sinistra crede in una democrazia inesistente, basata su una impossibile conciliazione delle classi. Se Bolsonaro è fascista, come dicono il PT e i suoi intellettuali, dobbiamo ricordare che non è mai stato possibile sconfiggere il fascismo, votando. È necessaria un’altra strategia.
L’altra è la frattura geografica: un paese diviso tra un sud ricco e bianco e un nord povero e nero/meticcio. Il fatto curioso è che tanto il PT che i principali movimenti sociali sono nati nel sud, dove hanno avuto alcuni governi statali e municipali. Quella regione è adesso l’epicentro della profonda svolta a destra, con chiaro contenuto razzista e machista.
Dobbiamo spiegarci le ragioni per le quali le élite e le classi medie abbienti hanno prodotto questa fenomenale svolta, disertando dal loro partito preferito, la socialdemocrazia di Fernando Henrique Cardoso, per Bolsonaro. Hanno abbandonato la democrazia e conservano appena le elezioni, come maschera della dominazione.
La ragione principale la spiega in una interessante intervista il filosofo Vladimir Safatle. “Il Brasile arriva al 2018 con due delle sue maggiori imprese che sono pubbliche, così come due delle maggiori banche. Per di più, con un sistema sanitario che copre 207 milioni di persone, gratuito e universale, qualcosa che non possiede alcun paese con più di 100 milioni di abitanti”. Safatle aggiunge che le università non sono solo per le ricche minoranze e conclude che “il Brasile arriva ai nostri giorni in una situazione molto atipica dal punto di vista del neoliberalismo”.
L’autoritarismo è il modo per imporre l’agenda necessaria al sistema finanziario, all’agro-business e alle compagnie minerarie affinché possano continuare ad accumulare ricchezza in un periodo di crisi sistemica. Non lo possono fare senza reprimere i settori popolari e criminalizzare i loro movimenti. Per questo Bolsonaro convoca i militari e la polizia e si permette di minacciare l’attivismo sociale, con modi molto simili a quelli della ministra della Sicurezza argentina Patricia Bullrich, che accusa i movimenti sociali di mantenere rapporti “molto stretti” con il narcotraffico, quando tutti sappiamo che è la polizia quella che lo protegge.
Il razzismo, la violenza anti-LGBT e l’odio verso la sinistra da parte delle classi medie brasiliane, mostrano il volto occulto del paese con la maggiore disuguaglianza del mondo. Non vogliono perdere i propri privilegi di colore, di genere, di posizione geografica e di classe. Poco gli importa che vengano assassinate più di 60 mila persone ogni anno, nella stragrande maggioranza giovani, neri, poveri, perché sanno che quello è il prezzo per mantenere i loro privilegi.
Davanti a questo scenario, le sinistre non devono continuare ad aggrapparsi a una strategia che è stata delineata per altri tempi, quando il dialogo di classe era ancora possibile. Nel precedente mezzo secolo siamo passati dalla strategia della lotta armata alla strategia puramente elettorale. Entrambe hanno in comune l’obiettivo di prendere il potere e concentrano tutte le loro batterie in quella direzione.
Questo pendolo è nefasto perché pone i settori popolari solamente come supporto logistico o come elettori, sempre al servizio delle avanguardie o dei caudillos, ma mai come protagonisti delle loro vite politiche. Davanti a noi, alcuni popoli originari, comunità nere e una manciata di movimenti stanno percorrendo altre strade, al di fuori delle istituzioni ma senza affrontarle apertamente.
Stanno aprendo spazi nei territori dei popoli che giocano un duplice ruolo: resistere creando vita. Negli anni recenti abbiamo riportato, come altri compagni, forse migliaia di resistenze creative in tutti i paesi della regione. Sono strade che percorrono da sé, senza che nessuna avanguardia o partito indichi loro i passi da seguire.
Se a un certo punto decideranno di avere una presenza elettorale, lo faranno da quei “poteri in movimento” ma senza disarticolarli. Quel che non ha alcun senso, è che mentre la borghesia sta smantellando una democrazia che le è servita durante il periodo degli stati sociali, noi ci limitiamo ad agire solo su quel terreno, mettendo in pericolo tutte le costruzioni precedenti.
La strategia puramente elettorale ci lascia alla mercé de los de arriba, tranne la manciata di cariche che passano dal partito allo Stato, in un viaggio senza ritorno.
“Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri” don Lorenzo Milani, “L’obbedienza non è più una virtù”