Il cambiamento climatico in corso è il grande assente dalle politiche non solo italiane, ma anche europee e mondiali. Con poche eccezioni lo si nomina solo per non doverne più parlare. C’è un negazionismo esplicito che risorge periodicamente nonostante l’evidenza dei fatti (vedi Trump, ma anche, dietro a lui, l’esercito in marcia dei trumpiani); un negazionismo di fatto che consiste nel parlarne e farne parlare il meno possibile (“i problemi sono altri”… “il problema è la crescita”…); e c’è un negazionismo opportunista che dice tutto e il contrario di tutto (vedi Renzi che, a Parigi, vanta i progressi delle rinnovabili in Italia – che lui peraltro aveva fermato – e subito dopo si adopera per far fallire il referendum contro le trivellazioni). Ma in tutti e tre i casi i negazionisti hanno un denominatore comune, come spiega Naomi Klein in Una rivoluzione ci salverà: tutti sanno che una catastrofe è alle porte, ma hanno anche capito che per fermarla bisognerebbe cambiare alle radici l’organizzazione sociale, e non sono disposti a farlo. Non possono farlo, ma non possono nemmeno pensarlo, cioè concepirne e accettarne le implicazioni. Ma attenzione, una pigrizia mentale come questa colpisce spesso anche noi…
Bisogna invece prender atto che il cambiamento climatico sta assumendo un andamento irreversibile. Ce lo dicono innanzitutto i glaciologi: i ghiacciai continuano ad arretrare e non torneranno più come prima; e così le calotte polari. In tutto l’emisfero boreale si sta sciogliendo il permafrost, liberando quantità sterminate di metano (un gas serra 20 volte più potente della Co2). E altro metano viene sprigionato dal riscaldamento dei fondali artici. Non si alzerà solo il livello del mare; cambieranno le correnti marine, a partire da quella del Golfo; e quelle aeree, come El Nino e i monsoni, alterando completamente l’assetto climatico del pianeta e moltiplicando, come già accade, gli eventi estremi destinati a trasformarsi in catastrofi. Mentre nelle aree tropicali e temperate avanza ovunque il deserto. È altamente improbabile che questo processo si arresti o addirittura si inverta per tempo: gli obiettivi fissati al vertice di Parigi sul clima sono insufficienti, ma nemmeno quelli vengono rispettati. Il tempo passa e tutti i cambiamenti in corso stanno subendo un’accelerazione imprevista. Il mondo in cui vivranno i nostri nipoti, ma forse già i nostri figli, se non anche alcuni di noi, non sarà più quello che conosciamo; sarà molto più ostico e renderà a tutti la vita molto più difficile, e a molti impossibile. E sarà pieno di guerre e conflitti per spartirsi le risorse residue. Le rinunce necessarie a rallentare il disastro (che per molti potrebbero anche rivelarsi vantaggi), quelle che i governi non osano prospettare ai loro elettori, verranno imposte, moltiplicate per dieci, da una natura ormai stravolta.
Gli antidoti ai guasti dell’ambiente rientrano in due categorie generali: mitigazione e adattamento. Per i cambiamenti climatici, finora, si è parlato quasi solo di mitigazione, cioè di riduzione delle emissioni, e solo in campo energetico. Di agricoltura, allevamento e qualità dei suoli, fonti non meno rilevanti del problema, non si parla quasi mai. E si parla ben poco anche di adattamento.
Se ne parla poco, ma si fa molto. Lo aveva illustrato, già quattordici anni fa, un documento del Pentagono: i paesi dell’Occidente (la Cina non veniva ancora presa in considerazione) devono attrezzarsi per far fronte – con la guerra – all’ondata di profughi che i cambiamenti climatici spingeranno all’assalto delle cittadelle benestanti del pianeta. Allora poteva sembrare solo un delirio militarista; ma oggi, di fronte alla costruzione della “Fortezza Europa”, dobbiamo prendere atto del fatto che questo è il modo in cui – consapevole o meno – il negazionismo imperante sia a destra che al centro e a sinistra conta di far fronte alle conseguenze di ciò che non viene fatto in termini di mitigazione. È chiaro che per noi l’adattamento non può essere la guerra; e ciò chiama in causa innanzitutto la questione delle migrazioni: che per i paesi che ne sono la meta sono la manifestazione più vistosa, per ora, delle conseguenze dei cambiamenti climatici. Senza un’alternativa vera e di ampio respiro alla guerra ai migranti, sferrata tanto da Trump – e prima di lui, e in silenzio, da Obama – che dall’Unione Europea, non c’è nessuna possibilità di sottrarsi alla deriva di una politica criminale di portata planetaria. Ma, anche, nessuna possibilità di affrontare sul serio la “sfida” che i cambiamenti climatici in corso imporranno a tutti: una sfida che ha bisogno di un coinvolgimento anche dei migranti, mentre far loro la guerra non fa che accelerare il disastro.
Occorre prospettare un’alternativa che permetta a tutti, migranti e nativi, di non precipitare insieme in un abisso senza ritorno. Alle lotte, alle rivendicazioni e alle buone pratiche per rallentare il deterioramento climatico sia del territorio in cui si vive che dell’intero pianeta, fin da ora vanno affiancate misure, ancora più complesse, per promuovere forme di adattamento diverse dalla guerra ai migranti; misure che in larga misura coincidono con quelle di un approccio più radicale alla mitigazione: non basta chiedere, o “esigere”, meno fossili e più rinnovabili, meno sprechi, meno consumi superflui e meno Grandi opere, affidando al mercato, magari incentivato, il compito di perseguire obiettivi “più avanzati” di quelli già fissati a Parigi e non rispettati. Occorre lavorare, insieme ai migranti, per creare le condizioni di una sopravvivenza comune e di una convivenza solidale in ambienti – climatici, ma non solo – molto più ostili di quelli che abbiamo conosciuto finora. In entrambi i casi – quello di una mitigazione più radicale e quello di un adattamento non competitivo, e non fondato sulla guerra ai migranti – il principale fattore che li accomuna è la resilienza: la capacità di costituire un ambiente che conti sempre meno su risorse attingibili solo su un mercato globale, e solo con il saccheggio del pianeta, e sempre più su risorse fisiche, economiche e sociali locali: cioè su una territorializzazione, ovviamente sempre parziale e in progress, delle attività su cui si regge la vita di una comunità. Tutto ciò non partirà mai dall’alto, dai governi; dovrà essere promosso e sviluppato, se mai lo sarà, dal basso: da movimenti di respiro e portata per lo meno europea, premendo e coinvolgendo innanzitutto le istituzioni a più diretto contatto con le comunità. Dunque, processi in gran parte locali. Ma con tre precisazioni: primo, non si tratta di un ripiegamento su se stessi, di una visione chiusa e regressiva della società: la circolazione dell’informazione offerta dal web a livello planetario e quella libera delle persone – oggi permessa solo a ricchi uomini di affari e ai turisti, ma vietata ai poveri e ai fuggiaschi – possono garantire un’apertura della vita sociale ben maggiore di quella promossa dalla globalizzazione odierna, peraltro già ora compartimentata. D’altronde ci sono beni, produzioni e mercati che non potranno essere territorializzati facilmente né in tempi brevi…
Secondo, la territorializzazione dovrà essere un modello replicabile ovunque. Le migrazioni di oggi, e quelle del futuro, grazie al web e ai mezzi di trasporto, non sono necessariamente per sempre: la partecipazione dei migranti come lavoratori regolari a processi di conversione economica fondati sulla resilienza nei territori del continente europeo può fornire know-how e stimoli per un loro impegno anche nella rigenerazione dei territori e delle loro comunità di origine, che loro conoscono bene. Quel che resta di quelle comunità è tenuto insieme in gran parte dalle donne che hanno lasciato là; il ritorno anche solo di una parte degli attuali migranti, armati di nuove esperienze e nuove competenze, potrebbe contribuire sia a rigenerare i suoli che a rinnovare le regole della convivenza anche nei loro paesi di origine. A condizione che ritorni la pace e che cessi la guerra per non farli entrare in Europa. Rinunciare a una prospettiva del genere significa optare per lo sterminio di miliardi di esseri umani.
Terzo, locale vuol dire “locale” e non “nazionale”. Le dimensioni di un territorio su cui costruire processi di resilienza sono date dalla qualità delle risorse fisiche e umane su cui si può contare; sono dimensioni diverse, che si sovrappongono in misura differente a seconda della risorsa impegnata; non sono date una volta per sempre e non sono ovviamente uguali ovunque; ma in nessun caso, o solo eccezionalmente, possono coincidere con quelle di uno Stato nazione. Perché sono dimensioni definite da processi partecipativi: sia quelli diretti, relativi alla gestione di un bene, di un servizio o di un’attività produttiva, sia quelli negoziali, fondati su accordi di lungo periodo che consentano di sottrarre una produzione o una fornitura alle turbolenze dei mercati globali; entrambi richiedono il coinvolgimento di un’istituzione o di un governo locale, come può esserlo un grande Comune o un’unione di Comuni, base di ogni autentico federalismo.
Questo vale soprattutto per i principali settori coinvolti dalla conversione ecologica: energia, agricoltura, alimentazione, edilizia, salvaguardia del territorio, mobilità e turismo: sono tutti settori in cui il grande, il concentrato, il centralizzato, sottratti a ogni controllo dal basso – l’economia globale di oggi – si contrappongono al piccolo, al decentrato, al distribuito e al partecipato (il processo che fa di una risorsa un bene comune), caratteri irrinunciabili di un approccio che abbia di mira la resilienza. Senza partecipazione, cioè senza il coinvolgimento, anche pratico e non solo a livello decisionale, di una popolazione, o di una sua parte consistente, non si dà conversione ecologica; e questo spiega perché essa è incompatibile con gli attuali assetti globali. La territorializzazione dovrà valere a maggior ragione per la circolazione monetaria: con la convivenza, per un lungo periodo, sia delle valute controllate dalla finanza mondiale, come l’euro, sia di diverse monete locali parallele, di ambito più o meno vasto e più o meno specializzato a seconda delle loro finalità; monete che possono affermarsi soltanto se sorrette da una convinta partecipazione di chi le istituisce e le usa. Non si tratta certo di tornare alle vecchie valute nazionali su cui la popolazione non ha mai avuto alcun controllo né avrebbe potuto o potrebbe più averlo (lo aveva lo Stato nazionale, fino a che esso era il principale strumento di governo in mano al capitale). Solo con una progressiva territorializzazione anche delle funzioni della moneta una comunità può cercare di resistere – certo non senza pesanti costi – alla morsa del debito e a quel controllo da parte della finanza internazionale che ha già strangolato la Grecia, l’Argentina e cento altri paesi. E solo così si può riconquistare una vera “sovranità monetaria” che le permetta di affrontare i compiti della resilienza in campo ambientale.