Intervista a Frei Betto, teologo della liberazione: «Cuba non sarà una mini-Cina. Il passaggio è da un’economia statalizzata a un’economia popolare. Dove lo Stato è presente ma attiva il protagonismo dal basso». «L’isola torna ad essere un punto di riferimento come nel 1959, quando dimostrò con la rivoluzione dei barbudos che l’imperialismo americano non era invincibile»
Fidel Castro e Frei Betto
È una lunga amicizia quella che lega lo scrittore e teologo della liberazione brasiliano Frei Betto al popolo cubano. Nell’isola, il frate domenicano è noto, in particolare, per la sua lunga intervista a Fidel Castro che, diventata nel 1985 un celeberrimo libro, Fidel y la religión, segnò una nuova pagina nel rapporto dell’isola caraibica con la fede.
Ma non è certo solo alla sua assidua frequentazione con i fratelli Castro che Frei Betto, autore di oltre 50 libri, deve la sua fama in America Latina. Rinchiuso in carcere dal regime militare brasiliano (dal 1969 al 1973), il teologo ha lottato in prima fila contro la dittatura, rafforzando l’organizzazione popolare attraverso le comunità ecclesiali di base. Consigliere speciale di Lula e uno dei principali ideatori del Progetto «Fame Zero», ha lasciato il governo – in punta di piedi – alla fine del 2004, non condividendo le modalità del programma di lotta alla povertà.
Né ha risparmiato critiche al programma neodesarrollista portato avanti dai governi progressisti – mirato sostanzialmente a fare dell’America Latina un’oasi di stabilità del capitalismo in crisi – individuando nel modello cubano una fonte di ispirazione per la sinistra latinoamericana e mondiale.
Quale significato ha avuto per l’America Latina la rivoluzione cubana?
È stata la dimostrazione che l’imperialismo Usa non era invincibile. Se i barbudos della Sierra Maestra erano riusciti a liberare Cuba, altri popoli avrebbero potuto fare lo stesso. Cuba è un punto di riferimento, un segno di speranza per chiunque sogni un altro mondo possibile. Perché, malgrado tutte le difficoltà, è riuscita ad assicurare ai suoi abitanti i tre diritti essenziali – alimentazione, salute ed educazione – elevando la loro autostima. Per molto tempo, a causa delle pressioni Usa sull’Oea (L’Organizzazione degli Stati americani ndr), solo il Messico ha conservato relazioni con Cuba. Poi, con la fine delle dittature militari, le cose sono cambiate. Cuba ha espresso la sua solidarietà inviando medici e insegnanti nei luoghi più remoti del continente. E ha ricevuto in cambio rispetto e appoggio popolare alla rivoluzione.
Che ruolo ha svolto la teologia della liberazione nei rapporti tra Cuba e l’America Latina?
La Teologia della liberazione ha rivelato ai cubani come l’ottica sovietica sulla religione fosse sbagliata. L’incontro di Fidel con i «cristiani per il socialismo» durante la sua visita nel Cile di Allende come pure la partecipazione dei cristiani alla rivoluzione sandinista mostravano come la religione potesse anche costituire un fattore di liberazione. Da qui il contatto diretto di Fidel con i teologi legati alla TdL, la mia intervista del 1985, le visite di teologi e vescovi a Cuba (i fratelli Boff, Giulio Girardi, François Houtart, Pedro Casaldáliga, Mendes Arceo), la lettura da parte di Fidel delle opere di Gustavo Gutiérrez. Tutto ciò ha avvicinato l’isola ai cristiani latinoamericani, portando al superamento del carattere ateo dello Stato cubano.
Perché Cuba ancora resiste mentre i governi progressisti hanno per gran parte ceduto il passo?
I governi progressisti hanno avuto indubbiamente il merito di adottare importanti misure a favore delle fasce più povere, ma non sono riusciti ad approfittare degli alti prezzi delle materie prime sul mercato internazionale per intraprendere le riforme strutturali tanto necessarie all’America Latina. Né hanno saputo combattere la corruzione, come invece è riuscita a fare Cuba. Un secondo errore è stato quello di dare la priorità all’accesso delle persone ai beni personali, quando avrebbero dovuto invece seguire l’esempio di Cuba, privilegiando, in primo luogo, i beni sociali: educazione, salute, alimentazione, casa… In assenza di un accesso ai beni sociali, è assai difficile raggiungere un livello sufficiente di qualità di vita, soprattutto nel quadro di un modello così fortemente consumista. Infine, al contrario di Cuba, è mancata l’alfabetizzazione politica del popolo. E in ciò non esiste neutralità: se io non vengo educato a una concezione solidale, altruista, socialista, la mia formazione avverrà all’interno di una prospettiva individualista, egocentrica, consumista. Non si è promossa la formazione politica e ideologica nell’illusione che il solo fatto di stare sotto un governo progressista rendesse le persone progressiste. È come pensare che a Cuba chiunque nasca sia, naturalmente, socialista. Non è vero. Perché, come diceva Lenin, l’amore è un prodotto culturale, è frutto di un’educazione.
Se il socialismo fallisse a Cuba, hai scritto in passato, «sarebbe la fine di tutta la speranza storica dell’umanità». Quanto è reale questo pericolo di fronte all’attuale offensiva della destra in America Latina?
L’egemonia capitalista esercita un potere così schiacciante che molti abdicano dal proposito di costruire un nuovo modello di civiltà. A poco a poco, come se si trattasse di un virus incontrollabile, il capitalismo si impone nelle nostre relazioni personali e sociali. E noi aderiamo alla credenza idolatrica che «non c’è salvezza fuori dal mercato». È importante capire perché, con l’eccezione di Cuba, l’esperienza socialista sia fallita. Il socialismo ha commesso l’errore, socializzando i beni materiali, di privatizzare quelli simbolici, scambiando la critica costruttiva con la controrivoluzione, riducendo l’autonomia della società civile, permettendo che la sfera del potere si trasformasse in una casta di privilegiati distanti dagli aneliti popolari. Era un socialismo che non aveva radici, un socialismo «parrucca» e non «capello», non cresceva dal basso verso l’alto. Ci resta Cuba. E il socialismo cubano non deve fallire, perché significherebbe che la storia è finita, l’utopia è morta, ha vinto il capitalismo, e ha vinto per i pochi che godono dei suoi progressi su una montagna di cadaveri e di vittime.
E i cambiamenti in corso a Cuba cosa possono suggerire alla sinistra latinoamericana, nell’attuale contesto di crisi?
Cuba sta attraversando una fase di cambiamento che può essere fonte di ispirazione per la sinistra latinoamericana. Alcuni si chiedono se non finirà per trasformarsi in una mini-Cina, sposando un’economia capitalista con un governo socialista. Ma credo si. In realtà, il passaggio è da un’economia statalizzata a un’economia popolare. Dove lo Stato fa sentire sì la sua presenza, ma lasciando spazio ai piccoli imprenditori, alle cooperative, all’economia solidale e a molte altre forme che vanno crescendo dal basso verso l’alto. È un errore pensare che Cuba stia uscendo da un’economia socialista per entrare in un’economia capitalista. Quello a cui stiamo assistendo è il protagonismo della gente con la sua creatività, con la sua capacità di iniziativa, con la sua forza di resistenza. E quando si diventa protagonisti si è chiamati ad assumere una decisione etica: ne trarrò beneficio per me o contribuirò a creare una cultura etica? L’economia popolare nel quadro del socialismo esige uno spirito socialista molto radicato. Io dico sempre che il socialismo è il nome politico dell’amore. Fidel diceva che un rivoluzionario può perdere la libertà andando in carcere e la famiglia andando in esilio, può perdere la salute ammalandosi, può perdere il lavoro facendosi cacciare in quanto rivoluzionario, e persino la vita, ma solo una cosa non può perdere: l’etica.