Carissima, carissimo,
ecco la nostra consueta lettera, questa volta approfitto di due interessantissime riflessioni inviatemi in questi giorni dall’amico scrittore Erri De Luca e da una giovane emiliana, Giorgia Ansaloni per farle nostre e riflettere insieme su due temi importantissimi: i diritti e l’economia e i migranti. Inizia Erri, a seguire Giorgia. Un caro saluto, Antonio
Erri. Negli anni delle rivolte politiche ho conosciuto il pubblico coraggio di una gioventù intransigente. Era possibile a conseguenze anche gravi perché c’era un legame di lealtà e di solidarietà che aumentava il valore di ognuno.
Per contro non so immaginare il coraggio personale di chi svolge in solitudine un suo compito rischioso.
Penso a Giulio Regeni, sequestrato, torturato e ucciso tre anni fa in Egitto. Sapeva di essere seguito, spiato, intercettato dai reparti della sicurezza di Stato, mentre svolgeva le sue ricerche di studioso per conto di una università inglese che qui non merita di essere nominata.
Abitava una città metà trappola e metà labirinto. Leggendo le avventure di Teseo nella mitologia Greca non mi sono immaginato un suo particolare coraggio nell’imboccare l’ingresso del Labirinto di Creta. Era un vendicatore della sua gioventù immolata al Minotauro, era armato e conosceva il terreno, grazie al filo dipanato all’ingresso, dono di Arianna.
Per Giulio Regeni devo immaginare invece la dote di un coraggio personale inflessibile, ribadito come una disciplina. Non arrivo però a immaginare quello dei giorni di sequestro e di macelleria sommaria del suo corpo. Perciò mi viene di accostarlo alla figura di Pasolini, entrambi intellettuali che volevano conoscere sul campo le condizioni di vita e i temi che li interessavano. Entrambi sono stati assassinati in infami agguati dei quali si continua a chiedere conto.
Nessun governo ha operato allora e adesso per forzare ostacoli alla verità. Se Giulio Regeni fosse stato tedesco, francese, inglese, l’Europa avrebbe reagito in coro. Invece la diplomazia italiana ha toccato il punto più basso di servilismo e inefficienza. Ognuno può scegliere tra incapacità e omertà. Oggi a Il Cairo c’è imperturbabile un ambasciatore italiano che continua il suo ruolo di procacciatore di affari.
Un governo ha per compito la tutela dei propri cittadini in Italia e all’estero. Se antepone a questo dovere quello di agevolare traffici, si comporta con le stesse priorità della Mafia, che subordina perfino le vite dei propri familiari all’arricchimento. Lo Stato che abdica alla ricerca della verità per un suo cittadino assassinato da servizi di uno Stato dichiarato amico e sicuro, si degrada a trafficante. L’Egitto non è uno Stato sicuro e questo dev’essere ben scritto nell’informativa del Ministero degli Esteri a beneficio dei cittadini italiani che intendono recarvisi.
L’ambasciatore italiano dev’essere richiamato in patria, finché non sarà crepato il muro di omertà del governo egiziano intorno ai responsabili.
In occasione della fiaccolata e dell’assemblea convocata a Fiumicello da Claudio, Paola e Irene Regeni ho espresso la mia gratitudine. Non si sono chiusi nel loro dolore impenetrabile, non hanno contrapposto il loro silenzio privato a quello pubblico di governi che antepongono i commerci al sacrosanto diritto di giustizia.
La famiglia Regeni è perciò esempio di valore civile e chiama a raccolta le energie migliori della nostra sfilacciata comunità.
È compatto, spesso, il silenzio dei governi sugli assassini di Stato del nostro cittadino Giulio Regeni. Ma sono più robuste di quel silenzio le nostre nocche che battono a quel muro e non temono di spellarsi, e le nostre voci di sgolarsi per scippare verità e giustizia dovute a Giulio Regeni, alla sua famiglia e a noi.”
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Mi chiamo Giorgia, ho 19 anni, abito a Nonantola, un paese in provincia di Modena. Ero alla fine della terza superiore quando ho iniziato a fare servizio, attraverso gli scout, alla scuola di italiano per stranieri “Frisoun”. Mi sono subito affezionata a questo ambiente sempre accogliente e “colorato”, non solo per le diverse sfumature della pelle, ma anche per la moltitudine dei sorrisi e delle storie di vita che ogni lezione regala. Ho iniziato quando gli studenti a scuola erano solo gli stranieri residenti a Nonantola da tempo che non si erano ancora integrati del tutto o da poco arrivati legalmente in Italia per ricongiungersi con i parenti, per cercare un lavoro.
Il 26 aprile 2017 era prevista una delle riunioni di programmazione delle lezioni successive, ma la sera stessa mi arrivò un SMS: quella sera avremmo conosciuto “i nuovi profughi”, una decina, che sarebbero stati ospitati a Nonantola. All’epoca conoscevo le storie dei migranti solo per le notizie sugli sbarchi a Lampedusa, perché i telegiornali non facevano altro che parlare di quello da diverso tempo, ma incontrarli di persona quella sera ha avuto un effetto ben diverso. Erano in cerchio, in silenzio, in attesa – l’ennesima del loro lungo viaggio – prima di essere trasferiti in un nuovo edificio, non si conoscevano tutti tra di loro e soprattutto avevano gli sguardi che parlavano da soli: c’era chi scambiava qualche mormorio col vicino, chi aveva la faccia assonnata, chi si guardava intorno incuriosito. Questo è stato il primo incontro con loro e due cose mi hanno subito colpito: la loro completa fiducia in chi li stava accogliendo (erano in balìa di decisioni prese da altri) e il fatto che fossero tutti giovani – avevano giusto qualche anno in più di me se non addirittura la stessa età – e io sarei diventata una loro maestra.
Ora a Nonantola sono accolti circa una sessantina di richiedenti asilo e un buon numero di questi frequenta la scuola di italiano insieme agli altri studenti di vecchia data. Inizialmente facevo fatica a parlare con loro, a confrontarmi con il loro passato doloroso. Mi facevano vedere le foto della loro famiglia lontana, mi raccontavano del fratello o della sorella che avrebbero voluto rivedere, della casa che era andata distrutta durante un’alluvione, della Libia, del lungo viaggio, e tuttora a volte sento di non avere le parole giuste per confortarli, impotente di fronte alla loro sofferenza.
Una volta andai a cena a casa di un gruppo di ragazzi (Mohammed, Ablaye, Mansoor, Adama) e rimasi scandalizzata quando, dopo aver posto al centro del tavolo un unico grande piatto di cous cous, iniziarono a mangiare da quello con le mani, senza le posate. Abituata ad un mondo in cui si mantengono sempre le distanze, subito rimasi perplessa, ma questa tradizione africana ti dimostra che per essere accoglienti non basta fornire i mezzi per vivere, offrire una casa e del cibo, che ovviamente sono fondamentali, ma è necessario mettersi intorno allo stesso tavolo, in un rapporto di parità, sentirsi fratelli e condividere ciò che si ha con molta semplicità.
A scuola io provo ad insegnare le lettere e la grammatica italiana, i ragazzi migranti mi insegnano invece l’importanza delle relazioni, la bellezza di un “grazie” sentito col cuore, la ricchezza di tante prospettive, la pazienza, ad avere speranza nel futuro, perché, come mi ha detto Bacari l’altro giorno: “un bambino quando nasce non corre subito”.
Ora quando cammino per Nonantola e mi capita di incontrare uno di loro sono tranquilla, mi fa piacere scambiare due chiacchiere con lui, gli ricordo di essere puntuale a scuola e se sono insieme ad altri amici lo presento anche a loro: se tutti noi aprissimo il nostro cuore scopriremmo che i migranti non sono qualcosa di cui avere paura, ma sono un dono di Dio nella nostra vita.
Questa è stata la mia esperienza ed auguro a tutti di accogliere l’invito di papa Francesco, che è l’invito di Gesù, e di scoprire così che nei migranti Dio ci dona dei fratelli che arricchiscono la nostra vita e quello di Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna che una volta mi ha detto “la vita è tenersi per mano”.
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