Donau, Dunaj, Dunav, Duna, Dunarea, con questi nomi passa le frontiere di mezza Europa il fiume da noi chiamato Danubio. Nel giugno di venti anni fa si riempì di un diluvio di acque piovane e provvidenziali, scese a ripulire i veleni finiti nel suo letto. I bombardamenti della Nato sul petrolchimico di Pancevo, presso Belgrado, avevano avuto effetto di enormi sversamenti tossici nel Danubio.
Era uno dei danni collaterali minori, i maggiori riguardavano le esistenze dei cittadini dell’ultima città del 1900 martellata dall’alto dei cieli.
Sulla corrente del Danubio a maggio di venti anni fa vedevo galleggiare le molte varietà di pesci avvelenati.
I Belgradesi amano la pesca, in ogni casa c’è almeno un attrezzo per fare qualche buona presa. La loro città sta all’incontro del Danubio e della Sava, molte rive dalle quali calare un amo in acqua.
Malgrado le sirene di allarme aereo, seguite dai più strepitosi rumori della mia vita, restavo affascinato a guardare l’unione nuziale delle loro acque solenni venute a raccolta da varie catene montuose. Si abbracciavano sotto il parco Kalemegdan, seminando isole nel mezzo. In piedi tra i viali assistevo alle partite di scacchi di pensionati che non si lasciavano interrompere da nessuna esplosione.
Per una parte di quelle undici settimane di terrorismo allo stato puro, di bombe esplose in case e pubbliche piazze, mi sono aggiunto da ospite della loro malora. Non inviato da nessun organo d’informazione, ero lì per me stesso, mandato dai racconti della città di Napoli, la più bombardata d’Italia dalle incursioni aeree. Intorno alla base di Aviano le famiglie nel fine settimana facevano i picnic guardando da vicino il decollo dei bombardieri a pieno carico, che tornavano vuoti in meno di un’ora.
Non potevo stare da questa parte del cielo.
Avevo chiesto a marzo, a inizio di bombardamenti, un visto d’ingresso all’ambasciata jugoslava a Roma. Era in funzione, si faceva guerra a una nazione senza disturbarsi a dichiararla.
Entrai in Belgrado una notte di aprile, scaricato da un furgone proveniente dall’Ungheria, frontiera aperta. Suonava la sirena d’allarme dell’incursione aerea, ululato che per me è la colonna sonora del 1900.
Ho amato i fiumi di Belgrado. Le loro acque riflettevano il rosso degli incendi, la loro corrente riforniva gli idranti dei pompieri usciti senza aspettare la fine dei proiettili e dei missili.
Tornai e mi stupii di trovare che dal soffitto entrava pioggia in casa. Venivo da una città di tetti sfondati, il mio da riparare era una presa in giro.
Venti anni fa di maggio stavo dove quel secolo chiudeva nel peggiore fracasso la sua saracinesca.
Nessun giornale italiano ospitò il mio resoconto. Lo fece un quotidiano francese.
Grazie Erri stacci vicino con stima e affetto se mi permetti. Massimo