La scintilla è stata il rincaro del prezzo dei carburanti: ha provocato l’ondata di proteste più ampia dei 40 anni di storia della Repubblica islamica dell’Iran, e la più sanguinosa. Anche se il quadro dei fatti è ancora incompleto, numerose testimonianze e perfino alcune notizie ufficiali dicono che la repressione è stata brutale. In almeno un caso, le Guardie della Rivoluzione hanno sparato sui dimostranti con mitragliatrici automatiche.
Il bilancio è contestato. Le forze di sicurezza avrebbero ucciso oltre 300 persone, secondo la stima più recente di Amnesty International. Fonti ufficiali respingono queste stime come “menzogne”, ma non hanno ancora fornito un bilancio delle vittime. Eppure il Leader supremo iraniano, l’ayatollah Ali Khamenei, ha ammesso in modo implicito la violenza quando ha decretato, il 4 dicembre, che “i cittadini che non hanno avuto ruolo nelle violenze e hanno perso la vita saranno considerati martiri”, definizione allo stesso tempo simbolica e molto concreta (permette alle famiglie di ottenere risarcimenti).
L’intensità delle protesta ha colto molti di sorpresa. Ci certo apre interrogativi sull’ampiezza della crisi economica e sociale in Iran e le sue ripercussioni politiche. Ma prima riassumiamo i fatti, o almeno quanto sappiamo finora.
Un’esplosione di rabbia
Le proteste sono cominciate venerdì 15 novembre quando il governo ha annunciato un drastico aumento del prezzo della benzina (torneremo su questo annuncio). Quel giorno sono scoppiate manifestazioni in città di provincia come Sirjan, nell’Iran centrale, o Ahwaz nella provincia petrolifera sud-occidentale del Khuzestan, o Mashhad nel nord-est. Il giorno dopo, sabato 16, la protesta si era estesa a città grandi e piccole di tutto il paese, da nord a sud, dalle coste del golfo Persico alle province più densamente popolate del nord-ovest, inclusa la capitale Tehran. Le dimostrazioni sono continuate fino almeno al 19 novembre, prima che le forze di sicurezza riprendessero il controllo.
In quei quattro giorni dimostranti hanno gridato “la benzina è più cara, i poveri sono più poveri”. Oppure “i soldi del petrolio sono spesi in Palestina”. O “morte al dittatore”, riferimento all’ayatollah Khamenei. Simili slogan non sono nuovi in Iran, erano stati già uditi ad esempio durante le proteste del gennaio 2018 contro il rincaro dei generi alimentari.
Il ministro dell’interno Abdolreza Rahmani Fazli ha poi detto che dimostranti hanno attaccato 50 basi militari e saccheggiato o bruciato 731 filiali di banca, 140 uffici governativi, 70 benzinai, 9 centri religiosi, 307 veicoli privati e 183 militari, e 1076 motociclette private. Il ministro ha dichiarato alla tv di stato (Irib) che tra 130mila e 200mila persone hanno preso parte alle proteste in tutto il paese.
Durante quei quattro giorni però circolavano solo voci imprecise. Infatti nel tardo pomeriggio di sabato 16, secondo giorno di disordini, il governo ha sospeso l’accesso a internet in tutto l’Iran, bloccando così i social media. Il blackout è continuato per 10 giorni, in cui condividere notizie è stato estremamente difficile: anche se ciò non ha impedito che almeno alcune informazioni, foto e video giungessero ai media stranieri.
Quelle foto hanno mostrato gruppi di persone che attaccavano benzinai e edifici pubblici o che si scontravano con la polizia, e poi scene di saccheggi o banche bruciacchiate. Testimonianze raccolte ad esempio da IranWire o dal New York Times dicono che in molti casi le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sui dimostranti. A volte, come in un sobborgo di Shiraz, i dimostranti in realtà non hanno danneggiato nulla: testimoni dicono che sono stati i paramilitari a incendiare una filiale di banca, per poi accusare i “teppisti”.
La violenza più impressionante però è quella avvenuta a Mahshahr, città di 120mila abitanti nel Khuzestan. Qui dimostranti avevano preso il controllo di alcuni quartieri periferici e occupato il principale snodo stradale, accesso all’importante porto di Bandar Imam. Per tre giorni la polizia non era riuscita a disperderli. Finché sono intervenute le Guardie della Rivoluzione, cioè i militari; prima hanno marciato sul blocco stradale e aperto il fuoco, a quanto pare senza preavviso, uccidendo molte persone. Poi hanno circondato una palude dove erano fuggiti i superstiti, e hanno sparato con le mitragliatrici: i morti sarebbero un centinaio, secondo le testimonianze di molti residenti, o dei medici e infermieri che hanno visto arrivate le salme in ospedale e hanno curato i feriti.
Il sobborgo teatro di questo massacro, Shahrak Chamran, è abitato in particolare dalla minoranza araba iraniana. Alcuni testimoni dicono che un dimostrante ha risposto alle Guardie sparando con una mitraglietta AK47: cosa che rafforzerà la tesi ufficiale secondo cui “terroristi” hanno infiltrato le proteste. Il 2 dicembre la tv di stato ha confermato che le forze di sicurezza hanno sparato e ucciso dimostranti nascosti nelle paludi di Mahshahr; il comandante della polizia locale li ha definiti “terroristi armati” e ha lodato le forze di sicurezza per aver messo fine al caos.
Chi sono i dimostranti?
Secondo tutte le testimonianze, a riempire le strade sono stati soprattutto giovani uomini, a volte poco più che adolescenti. Molti erano giovani disoccupati, anche se magari con buoni diplomi. Le proteste sono avvenute nelle periferie urbane a basso reddito, abitate da lavoratori e famiglie a basso reddito. “Protestavano contro la povertà, la diseguaglianza e la disoccupazione, e continuano a protestare”, ha detto un testimone citato da IranWire.
Per l’establishment iraniano questo dovrebbe far suonare un allarme. Infatti non si tratta di un conflitto politico tra i ben noti schieramenti interni alla Repubblica Islamica – come era il movimento dell’Onda verde nel 2009, dopo la contestata rielezione dell’oltranzista presidente Mahmoud Ahmadi Nejad. I dimostranti di questo novembre 2019, come già quelli del dicembre 2017-gennaio 2018, sono proprio le classi popolari da sempre considerate la base della Repubblica Islamica, pilastro del consenso anche grazie a un sistema di redistribuzione un po’ clientelare, vagamente “democristiano” e paternalista: segno che quel compromesso è in crisi? Sta di fatto che, come già due anni fa, a protestare sono persone che “non hanno candidati in gioco”, per usare le parole di un noto sociologo iraniano: non si sentono rappresentati dagli schieramenti politici noti. Non c’è però segno di un movimento organizzato.
Alcuni ricercatori del Boston College hanno contato che circa il 20 per cento delle contee (la più piccola suddivisione amministrativa prima del municipio), cioè 89 su 429, hanno registrato almeno un giorno di protesta nel novembre scorso; in un recente articolo osservano che si tratta delle zone più urbanizzate e sviluppate dell’Iran in termini di istruzione, sanità, infrastrutture. In effetti la Repubblica islamica ha investito in primo luogo nell’istruzione universale: e così facendo ha contribuito a creare nuove generazioni di “cittadini emancipati”. Ora questi “cittadini emancipati” sono nelle strade a protestare. Ma il prezzo della benzina è solo la scintilla: per spiegare l’esplosione di rabbia bisogna guardare più in generale alle aspettative frustrate di tanti giovani istruiti, alle speranze di benessere suscitate dall’accordo sul nucleare e poi disilluse, al generale senso di incertezza in un paese in crisi economica profonda, assediato dalle sanzioni in una regione turbolenta.
Un Paese sgomento
La brutalità della repressione ha lasciato il Paese sgomento. Via via che si diffondono le notizie si levano accuse: “Fino a che punto intendete usare la violenza per negare ai cittadini i loro diritti più basilari” chiede una lettera aperta firmata da decine di noti artisti e persone di cultura. Il leader riformista Mir-Hossein Mousavi, agli arresti domiciliari dal 2011, ha paragonato la repressione di novembre a un massacro di manifestanti compiuto dal regime dello Shah: “I killer del 1978 rappresentavano un regime non-religioso, mentre gli agenti che hanno sparato nel novembre 2019 rappresentano un governo religioso” ha scritto Mousavi in una nota pubblicata dal sito riformista Kaleme. Ha aggiunto parole di insolita durezza contro l’ayatollah Khamenei: “Allora il comandante in capo era lo Shah. Oggi è un leader supremo con poteri assoluti”.
Mousavi non è stato l’unico a fare paragoni con il vecchio regime. Circa una settimana dopo gli eventi di Mahshahr, Mohammad Golmoradi, deputato eletto in quella città, è sbottato in pieno parlamento: “Cosa avete fatto, che quel bastardo dello Shah non abbia fatto?” pare abbia urlato – prima che colleghi deputati riuscissero a calmarlo.
Il 2 dicembre una deputata del Blocco riformista, Parvaneh Salahshouri, ha chiesto che sia istituita una commissione d’indagine parlamentare per “stabilire la verità su quanto avvenuto” e rispondere alle domande degli elettori. La signora Salahshouri ha tra l’altro riferito che “gruppi di persone mescolate ai dimostranti” hanno compiuto atti di vandalismo durante le proteste: è la prima volta che una figura pubblica accusa esplicitamente gli organi di sicurezza e di intelligence di qualcosa che molti sospettano da tempo.
Tutti i gruppi parlamentari chiedono commissioni d’inchiesta, anche se con intenti diversi: gli oltranzisti del regime accusano il governo Rohani per l’aumento dei carburanti, ovviamente cercando di sfruttare a proprio vantaggio le proteste. I riformisti invece accusano l’eccesso di forza delle forze di sicurezza. I riformisti stanno cercando di mettere sotto impeachment il ministro dell’interno Rahmani Fazli; i fondamentalisti hanno già raccolto abbastanza firme per mettere sotto accusa il ministro del petrolio Bijan Zenganeh.
Perché rincara la benzina?
L’aumento del prezzo del carburante – o meglio, la riduzione delle sovvenzioni governative sulla benzina e altri prodotti petroliferi – era previsto, anche se molti si chiedono perché decretarlo proprio ora. La politica di rimuovere gradualmente le sovvenzioni è stata varata nel 2010, sotto la presidenza Ahmadi Nejad, ed è proseguita per fasi (questa era la terza). Fin dapprincipio è stata accompagnata da un sistema di razionamento: ogni veicolo privato è titolare di una tesserina magnetica che dà diritto a 60 litri al mese a prezzo calmierato (di più per taxi e veicoli commerciali); oltre quella quota vige il prezzo di mercato. Il prezzo calmierato, dopo il rincaro del 50 per cento, ha raggiunto 15mila rials al litro, pari a 9 centesimi di dollaro; il prezzo di mercato è salito di oltre il 200 per cento fino a 30mila rials.
Anche così, la benzina in Iran è la meno cara della regione, ed è per questo che si è sviluppato un fiorente contrabbando. Anche se circolano diverse stime, quella più accreditata si attesta su 20 milioni di litri di benzina al giorno esportati di contrabbando: per lo stato significa una perdita annua di circa 1,3 miliardi di dollari (i proventi del contrabbando di solito rientrano in Iran sotto forma di merci importate, anche questo fuori dai canali dichiarati).
Il governo ha spiegato che l’ultimo taglio delle sovvenzioni sul carburante permette di risparmiare 300 trilioni di rials (circa 26 miliardi di dollari al cambio di mercato), che serviranno per aumentare i sussidi diretti ai cittadini a basso reddito. Dunque circa 60 milioni di iraniani, il 73% della popolazione, percepiranno un assegno un po’ più alto. Secondo alcuni calcoli, le fasce di reddito più basse ne avranno un guadagno netto.
Intanto, domenica 8 dicembre il presidente Rohani ha presentato in parlamento la legge finanziaria per l’anno prossimo (va approvata entro il 20 marzo, fine dell’anno persiano): è un “budget di resistenza” per far fronte alle sanzioni. Nonostante l’austerità però contempla un aumento dei salari dei pubblici dipendenti e stanziamenti per i sussidi di povertà.
“L’animo dei cittadini è pieno di rancore”
Per l’establishment iraniano, le proteste di novembre sono opera di “controrivoluzionari” e agenti stranieri, un “complotto” contro la Repubblica islamica che le forze di sicurezza hanno brillantemente sventato. Così ha dichiarato ad esempio l’ayatollah Khamenei il 27 novembre parlando ai Basij, le milizie sotto il comando delle Guardie della rivoluzione.
Poi i toni si sono in parte ammorbiditi. Il presidente Rohani ha dichiarato il 3 dicembre che “le persone innocenti, che hanno protestato contro i rincari della benzina ma non erano armate… vanno rilasciate”, e ha annunciato una commissione d’inchiesta per determinare i fatti e i risarcimenti. Lo stesso ayatollah Khamenei ha distinto tra dimostranti legittimi e “teppisti”.
Intanto però secondo fonti ufficiali oltre 7000 persone sono state arrestate durante le proteste, e gli arresti sono continuati anche dopo. Il 2 dicembre il ministero dell’intelligence ha annunciato l’arresto di 29 “istigatori” dei disordini in Khuzestan e il recupero di parecchie armi da fuoco. Il comandante in capo delle Guardie della rivoluzione, Hossein Salami, in un discorso pubblico il 12 dicembre ha parlato di “sedizione” fomentata dai “nostri nemici”.
Coinvolgimenti stranieri non si possono mai escludere; è ben noto che organizzazioni come i Mojaheddin del Popolo o i sostenitori della dinastia Pahlavi (entrambi molto sostenuti dalle correnti neo-con negli Stati uniti) cercano di sfruttare ogni protesta popolare, anche se in Iran non hanno base né credibilità.
Ma le proteste di novembre sono prima di tutto l’espressione di una reale, profonda rabbia degli iraniani. Come ha dichiarato l’onorevole Salahshouri rivolgendosi al Majlis: “L’animo dei cittadini è pieno di rancore”, e “ignorare i cittadini è molto pericoloso, i decisori politici dovrebbero sapere quali possono essere le conseguenze”.
una prima versione di questo articolo è uscito il 10 dicembre, in inglese, su Reset Doc: https://www.resetdoc.org/story/when-gasoline-turns-political-protests-and-repression-dismay-iran/