a cura di Ritanna Armeni
La temperanza è critica, è sapienza e consapevolezza degli abusi che abbiamo perpetrato nei confronti dell’ambiente, della natura, del creato. Nelle parole di Antonietta Potente, teologa della congregazione delle suore domenicane di san Tommaso d’Aquino, la riflessione religiosa e quella ecologica sono inscindibilmente legate. La temperanza è un atteggiamento virtuoso verso il pianeta tutto.
«È la virtù — afferma — da cui nasce la critica del nostro tempo. Critica ai comportamenti, agli abusi nei confronti dell’ambiente naturale e anche degli oggetti che noi stessi abbiamo prodotto.
Da essa può svilupparsi anche la critica alla frenesia che domina le nostre vite. Dal suo esercizio quindi può nascere un atteggiamento virtuoso verso il pianeta, la natura, il creato. Oggi non occorrono solo provvedimenti ma un’educazione profonda a questa virtù».
Nella mentalità comune la temperanza riguarda la persona. Se ne parla e la s’invoca a proposito del cibo, del sesso, dei piaceri. Mi pare di capire che lei la intenda in termini più ampi.
Era già qualcosa di più ampio nella cultura medievale e anche nel mondo greco, lungo i secoli il cristianesimo l’ha rinchiusa nell’ambito della corporalità. Oggi possiamo dire che essa riguarda anche il corpo, ma va e deve andare oltre. Il suo territorio comincia con lo stupore che dovremmo provare nei confronti di tutto ciò che non siamo noi, e che non è nostro, insomma di fronte a ogni alterità: dei territori, delle persone, delle sapienze diverse da noi.
È una virtù che richiede controllo, sacrificio… difficile praticarla in un mondo che chiede la facilità del piacere, del possedere.
No, non è sacrificio, è principalmente riconoscimento e dunque rispetto, fedeltà al quotidiano, relazione vera con ciò che ci circonda.
E allora dobbiamo constatare che purtroppo oggi siamo di fronte a un’intemperanza globale. Il caso più eclatante è quello dell’Amazzonia.
Sì, la distruzione dell’Amazzonia è causata da una mancanza di temperanza ma lo è anche la produzione di armi, l’invasività della tecnologia, la sovrapproduzione di merci. Sono tutti esempi dell’intemperanza che travolge l’umanità e il pianeta. L’Amazzonia in questo momento è uno degli esempi più eclatanti, con la distruzione dei territori amazzonici, viene distrutta la biodiversità ma anche l’anima di coloro che sono nati e vissuti in quella terra fino ad oggi.
Il quadro potrebbe essere definito desolante se ora non ci fosse sempre a livello globale un movimento di giovani che ha compreso gli abusi che hanno danneggiato il pianeta.
Lo possiamo definire un movimento contro l’intemperanza globale. Ci dice che c’è una sensibilità in aumento. Ma mi piacerebbe che in questo movimento non ci fosse solo la paura per ciò che atteggiamenti intemperanti hanno prodotto ma anche la parresia e la sapienza che ha la forza di decidere il bene. Vorrei che emergesse la ricerca del buon vivere e non solo del “buon essere”[o benessere] e del “buon avere”.
È troppo ottimistico vedere anche nei piccoli e banali segnali come i consigli della stampa per consumare di meno, risparmiare sulla plastica, piantare nuovi alberi un tentativo di esercitare la temperanza?
Tutti i gesti belli, anche i più piccoli, hanno una loro forza sia per i credenti sia per i non credenti. Ben vengano quindi anche i più piccoli atti di rispetto. La via della formazione però è lunga, la lotta agli abusi nei confronti del pianeta è ancor tutta da percorrere. L’esercizio della temperanza esige un atteggiamento più ampio e più profondo che riguarda persino il nostro immaginario.
Nel nostro simbolico la vita futura, quella che viene dopo la morte e che non sappiamo come sarà è tuttavia presente nella nostra quotidianità, l’archetipico “giardino” futuro è quello che dobbiamo curare qui ed ora ed è evocato dal nostro habitat naturale, con i suoi colori, odori, suoni. Se danneggiamo la natura, corriamo il rischio di distruggere il pianeta e di privare la vita del suo profondo respiro e così da svilupparci sempre più come donne e uomini tecnologici e di progresso, ma totalmente senz’anima e ciechi di fronte alla bellezza.
Possiamo dire che la temperanza dà quiete, serenità, elimina tensioni, rischi.
Certamente la pratica della temperanza dà quiete a chi la vive e anche agli altri, ma come ogni virtù si vive anche in situazione di tensione. Nessuna virtù è esonerata dal decidere come stare nel mondo. Si tratta di uno stile di vita. Per cui la temperanza è anche pratica di coraggio nella quotidianità, tra discernimento e scelta, scoprendo ciò che davvero serve per vivere, con sapienza. Se siamo nella troppa abbondanza, sarà difficile renderci conto che non tutto è così necessario come pensiamo. Penso che la temperanza sia una virtù amata da quelle persone che sanno che non possono permettersi molte cose e quindi scelgono quelle che sono davvero necessarie. È la virtù di molte donne che riescono a far quadrare il precario bilancio economico della propria famiglia. Che si inventano lavori per poter sfamare altri: una specie di moltiplicazione dei pani delle donne. La temperanza è sapienza che conosce la quotidianità della vita e con essa dialoga, anche quando la vita sembra abitata dal male. Forse in un gergo più moderno e anche politico, la temperanza è la virtù della resistenza e della fedeltà agli altri. A questo ci serve la sua pratica.