Le Sardine si sono ”contate” a Roma ma non hanno riempito il mare – di Stefano Bertoldi
A Roma il Movimento delle Sardine, circa trentamila, è stato pacifico, silenzioso, praticamente senza striscioni, niente megafoni o casse acustiche assordanti a parte quelle allestite su un piccolo palco trasportato da un camion dal quale Mattia Santori, dopo aver cercato invano l’applauso di sardine reatine o viterbesi, ha ringraziato Romano Prodi per aver pagato il noleggio del mezzo. Poi lo stesso Santori, ha un po’ voluto testare l’energia populista della folla e al suo unico ma deciso grido di incitamento della folla questa ha risposto ma ”weltronianamente” (ovvero pacatamente!) forse per non confondersi troppo con le folle dei ”vaffa-day” o quelle molto più grezze e ignoranti dei salviniani o semplicemente a causa dell’età media delle corde vocali un po’ in là con gli anni, a occhio, intorno ai 50 anni. Del resto la cosiddetta anti-politica, ormai confusa con l’anti-partitismo non poteva che essere la cifra di un movimento molto poco integrato nel tessuto sociale ma semplicemente ”trasversale” ad esso, alle sue associazioni, partiti, gruppi, ecc. e che anzi propone proprio un distacco totale dalla forma-partito attuale. Non si è sentita o letta nessuna critica al cuore del sistema culturale ed economico attuale, né tanto meno al nostro modello neo-libersita e capitalistico con il paradosso di ritrovarsi in una piazza che per una sua porzione sgombera e recintata ha visto fluire indisturbato il fiume dei turisti in una basilica di San Giovanni protetta dalle forze di polizia a riprova che the show must go on nella città-simbolo della gentrificazione in atto da anni in tutti i nostri pittoreschi centri storici.
In piazza, tra una chiacchiera e l’altra, si è sentito solo l’auspicio impellente che nei palazzi della politica si lavori secondo le regole del rispetto della persona, con la dovuta attenzione per chi sta indietro o è più debole e indifeso e soprattutto in modo silenzioso. Dalle interviste effettuate, però, verrebbe da dire che l’idea inconfessabile sottostante è che il lavoro ”sporco”, imbarazzante ma che molte sardine considerano appunto necessario, va fatto con garbo, con un’estetica della comunicazione che non urti le sensibilità radical-chic o di quel popolo orfano delle cinque stelle cui le ”il rispetto delle regole” piace così tanto. Si sono visti, quindi, tanti capannelli di amici, alcuni con figli muniti di sardine di cartone, molti anziani, tante singole persone, parti del cosiddetto “popolo”, richiamato dallo slogan tanto affascinante quanto poco rivoluzionario ”basta con la politica dell’odio, della divisione, strillata violentemente”: chi l’ha lanciato questo slogan? Al momento si può solo dire che nasce dall’iniziativa di qualche gruppo di giovani bolognesi, tutti bravi ragazzi, tutti più o meno precari, aiutati anche finanziariamente da Romano Prodi allarmato dal rischio di perdere l’ultimo feudo in mano al PD prima della paventata capitolazione alla destra salviniana. Dopo la conferma degli ultimi sondaggi della disintegrazione del Movimento 5 Stelle e il conseguente ritorno in casa PD di un suo pezzo e dall’altro la fuoriuscita verso la sua componente fascistoide, l’Emilia Romagna deciderà la sorti dei prossimi 5 anni dell’Italia. Da qui la necessità, per il popolo moderato ex o attuale filo-PD, di contarsi attraverso Facebook, Twitter, ecc.ecc. e in modo più tradizionale anche riversandosi nelle piazze. Quello che il popolo delle sardine vuole deliberatamente rimuovere è che oggi la sinistra cui fa riferimento esplicito è di fatto al potere e nulla sta facendo per rimuovere le leggi sulla sicurezza che peraltro lei ha introdotto per decreto con Minniti o per aprire i porti a dei veri canali umanitari, dopo aver pagato nel 2017 i trafficanti di uomini, la cosiddetta Guardia costiera libica per trattenere e riportare indietro i migranti nei loro lager secondo lo slogan ”aiutiamoli a casa loro”. Il codice di condotta promosso con Minniti in base al quale ‘i ”taxi del mare” secondo la definizione dell’attuale partner di governo, potevano operare a non meno di 20 miglia dalla costa è stato rinnovato, così come come i finanziamenti alle milizie armate e le situazioni di stand-by intimate alle ONG in mar libico si moltiplicano al fine di far lavorare in pace i poliziotti libici lontano da occhi indiscreti. Le contraddizioni e purtroppo anche i luoghi comuni di stampo populista emergono chiaramente da tutte le interviste effettuate: dai decreti sicurezza che sarebbero stati introdotti da Salvini, alla precarizzazione ulteriore del lavoro del Job’s act considerata ”necessaria” così come le norme per regolamentare i flussi migratori o meglio per evitare l’invasione. Il popolo delle Sardine non vuole ammettere insomma che quella sinistra cui si fa riferimento è la stessa al governo ed è quella che negli ultimi anni si è distinta per fare lo stesso lavoro sporco per abbattere diritti acquisiti, limitare il diritto di sciopero e di protesta, nel massacrare le popolazioni in fuga, nel vendere armi alla Turchia o all’Arabia Saudita, nel difendere la proprietà privata anche quella abbandonata da anni e divenuta rifugio indispensabile per gruppi crescenti di poveri. Il popolo delle Sardine, dunque, si definisce di ”sinistra” ma messo di fronte a queste contraddizioni tiene a precisare che quella dei decreti sicurezza e del codice di condotta delle ONG in mare, del Job’s act e degli sgomberi non era ”vera” sinistra o al limite si è trattato di una sinistra messa alle strette da fatti epocali più grandi di lei cui andava data una qualche forma di regolamentazione. Il palco di San Giovanni, quindi, ha puntato su alcuni cavalli di battaglia come la parità di genere, i diritti LGBT e dei migranti, dimenticando che lo ius soli o i matrimoni gay non si sono voluti introdurre. In modo altrettanto coerente ma tendenzioso ad intervenire a nome delle ONG impegnate in mare è stata Giorgia Linardi di Sea Watch resasi protagonista del braccio di ferro con Salvini a Lampedusa ma non, per esempio, SOS MEDITERRANEE che ha dovuto sottostare ai codici di condotta, ai primi stand-by in mare e poi ai sequestri e alle denunce per ”traffico internazionale di esseri umani” o per l’altrettanto fantasiosa accusa di ”smaltimento illecito di rifiuti tossici” sotto il governo della cosiddetta ”sinistra” attualmente, non si sa per quanto, al governo.
Lettera aperta alle Sardine – Andrea Segre
Non è l’accoglienza la risposta all’odio. Le piazze piene di persone che si riuniscono per difendere i diritti e contrastare l’odio sono un segnale nuovo e importante, non c’è alcun dubbio. Credo sia però importante in questo momento portare in quelle piazze contenuti e proposte perché tutto ciò provi a diventare anche un laboratorio di rinnovamento politico. In questa chiave ho deciso di scrivere questa lettera aperta.
Il tema migrazioni è senza dubbio il perno di quanto sta accadendo dentro e fuori queste piazze. La deriva autoritaria e xenofoba della Lega di Salvini è la preoccupazione che ha portato migliaia di cittadini a riempire le piazze di Sardine. Questa deriva fa spavento e inquieta, perché risveglia istinti pericolosi che minano alla base lo stato di diritto costruito a fatica dal dopo guerra in poi. Ma credo sia un errore assai grave non capire quali condizioni reali, materiali abbiano in questi anni aiutato una crescita così impetuosa del consenso a Salvini; non possiamo imputare la sua crescita solo a ignoranze o semplificazioni, sarebbe miope e anche offensivo. Ovviamente i ragionamenti a questo proposito possono essere tanti, ma credo ce ne sia uno basilare più importante di altri.
Per proporlo parto da una provocazione. Io credo che la crescita di Salvini sia stata fortemente aiutata negli ultimi anni dalle politiche di accoglienza. Credo infatti che queste politiche abbiano distratto troppa parte della società civile antirazzista dalla capacità di individuare le responsabilità più profonde delle ingiustizie che vivono i migranti forzati (viaggiatori non autorizzati, preferisco definirli). Ci siamo divisi tra chi li vuole accogliere e chi li vuole respingere, tra chi li vuole salvare e chi li vuole abbandonare (o peggio). Questa divisione ci ha portati a credere che il nemico dei diritti sia chi vuole respingere e il paladino della civiltà sia chi vuole accogliere. Abbiamo alzato lo scontro, portando corpi a salvare corpi e sfidando fisicamente le chiusure dei porti. Ma facendo questo ci siamo profondamente distratti e soprattutto abbiamo portato tanta parte della cittadinanza a cercare in questo scontro un leader pronto a innalzarlo fino alle massime conseguenze, ossia l’attacco alle basi costituzionali della convivenza civile. Tutto questo va fermato, non solo contrastando il leader di quella deriva, ma anche avendo il coraggio di dire che non è l’accoglienza l’alternativa all’odio.
L’accoglienza, come il salvataggio, come l’aiuto umanitario hanno schiacciato i migranti al ruolo di vittime passive e tantissimi di loro sono stati abbandonati in luoghi inutili e impreparati diventando simboli materiali utili al consenso salviniano: “li vedi gli africani che ciondolano in giro senza far niente? Quelli li paghiamo noi”. Questa la base del consenso salviniano. Città per città, quartiere per quartiere. Da Nord a Sud, in tantissimo Sud. Abbiamo il coraggio di dirlo: sì è vero, molti ragazzi africani sono stati abbandonati a non far nulla. Perché l’errore è stato “accoglierli”, ridurli a soggetti beneficiari di progetti che non volevano e non chiedevano. Per poi ovviamente abbandonarli, lasciarli vagare ancora di più nei meandri fangosi dell’economia nera e illegale.
Questa storia deve cambiare, se no Salvini o chi per lui sarà inarrestabile. Deve cambiare a mio avviso facendo tre cose:
– Aprendo vie regolari di viaggio a chi cerca lavoro, studio, dignità ed è disposto a farlo in modo controllato, come è normale per tutti noi migranti liberi (viaggiatori autorizzati).
– Finanziando politiche di integrazione e welfare sociale, economico e culturale che difendano diritti di cittadini e lavoratori di qualsiasi provenienza etnica (italiani inclusi).
– Garantendo accoglienza seria e professionale a chi davvero ne ha bisogno, e non obbligando tutti a chiederla, anche se non vorrebbero.
Questa direzione sarebbe una novità radicale, contraria tanto a Salvini quanto alla stragrande maggioranza delle forze di governo europee, più o meno democratiche e anti-sovraniste, che continuano a sostenere politiche di chiusura e discriminazione del diritto di mobilità, concedendo piccoli e farraginosi pertugi al diritto d’asilo, applicato per spirito umanitario, ma con grande timore.
Contrastare l’odio della Lega e dei suoi alleati è insufficiente se non immaginiamo anche una svolta vera e profonda delle politiche migratorie; altrimenti ci troveremo ancora per decenni a contare barche e cadaveri e a dare loro il macabro peso elettorale che hanno tanto a destra quanto a sinistra.
Mi auguro che il Movimento delle Sardine abbia la voglia di liberare idee e proposte per uscire dall’inutile dicotomia tra “accoglienza” e “respingimento” e per invitare i cittadini a immaginare un mondo più libero e giusto dove tutti i soggetti stranieri o autoctoni abbiano diritti e doveri comuni e condivisibili.
Per questo invito concretamente le Sardine a partecipare al laboratorio del Forum Per cambiare l’ordine delle cose, un coordinamento libero e plurale di tante realtà territoriali che si stanno chiedendo come far crescere proposte concrete di radicale cambiamento delle politiche migratorie europee, fin qui causa di tante violenze e violazioni, ed anche in fondo vero sostegno all’affermarsi dell’odio della Lega e degli altri sovranismi xenofobi.
(La lettera aperta è stata pubblicata l’8 dicembre 2019 su L’Espresso)
Le sardine, la legge del branco e la fine del tonno – Andrea Le Moli
Aristotele ci aveva già avvertito e la biologia marina contemporanea lo ha precisato: il mare è popolato di oloturie, organismi detritivori importanti perché ripuliscono i fondali dei mari, rimettono in circolo sostanze nutritive e aiutano a mantenere in equilibrio l’ecosistema. Ma sono meglio le sardine, purché non facciano la fine del tonno.
Recenti sviluppi nell’uso della comunicazione pubblica fanno pensare che più che il cielo sia il mare il vero limite dell’immaginario umano. Almeno se ha un senso la scelta della sardina come espressione di una “legge del banco” opposta a quella del “branco” (intelligenza distribuita versus coesione regolata da rapporti di forza e leadership incondizionata); come lo aveva l’immagine di un parlamento “scatoletta di tonno” da sventrare o quella della “minchia marina” (oloturia) a simbolo dell’ottusità di chi rifugge dall’azione civile libera e responsabile.
Sul potenziale delle minchie marine/oloturie e sulla conseguente efficacia di questa metafora ci sarebbe da discutere. Di questi fondamentali organismi di transizione tra mondo vegetale e mondo animale parla già Aristotele (Hist. An. 487 b; De part. an. 681 a) per spiegare come la natura passi senza soluzioni di continuità dalle cose inanimate agli animali per il tramite di esseri che, pur essendo viventi, non sono tuttavia “semplicemente” animali. Aggiungendo che questi miracoli organici sono come quelle piante terrestri “dotate della capacità di vivere e di crescere ora su altre piante, ora persino sradicate”. Anche per la biologia marina contemporanea le oloturie sono organismi detritivori importantissimi perché ripuliscono i fondali dei mari, rimettono in circolo sostanze nutritive e aiutano a mantenere in equilibrio l’ecosistema. Per tacer del fatto che possiedono incredibili capacità rigenerative e risultano capaci di vivere a profondità inaspettate, costituendo quasi il 90% delle forme viventi sotto gli 8.000 metri di profondità. Dunque attenzione, nel mare e nel linguaggio, alle oloturie. Che continuano a vivere quando e dove meno ce lo aspettiamo, che se proviamo a toccarle ci bruciano e che, a differenza nostra, non hanno sempre il problema di decidere da che parte stare.
Il “banco di sardine” appare invece immagine più promettente, perché cifra di una resistenza prodotta dalla capacità dei piccoli di organizzare la propria debolezza, di far fronte circondando il predatore, sempre pronti a disperdersi per non offrire un bersaglio. Una sorta di riscatto degli individui polverizzati dal contesto socio-politico globale che scoprono di poter sfruttare la polverizzazione come arma; e dunque immagine di una organizzazione spontanea alternativa ai modelli distorti di leadership incondizionata. Oltre alla riprova del fatto che sempre più spesso, nell’azione politica, è necessario metterci i corpi, e non solo la faccia. Questo, ovviamente, posto che non si tratti dell’ennesima architettonica del consenso travestita da spontaneismo e veicolata da mezzi solo apparentemente universalisti e democratici come i social network.
In ogni caso, quanto questa strategia possa funzionare in politica è sempre stata questione aperta, campo di predizioni facili ma scivolose in quell’acquapark collettivo che è diventata la comunicazione pubblica. Dall’Uomo Qualunque di Giannini, passando attraverso Girotondi e Popolo Viola, la storia del movimentismo italiano è fatta di esperienze destinate a naufragare nell’assenza di progettualità a lungo termine e capacità politica. Buon gioco sembrerebbe avere allora la corsa alla predizione disfattista. Mentre un’attenzione forse troppo benevola per esser sincera viene concessa da forze politiche in attesa di accreditamento elettorale. Il tutto a legittimar l’impressione che si sia ufficialmente aperta la stagione della pesca. Aggiungeteci che il candidato alla poltrona di governatore della Calabria per il centrosinistra potrebbe essere un pregiato inscatolatore professionista di tonno e il cerchio, davvero, si chiude.
Ma forse si era già aperto un po’ chiuso, l’ultimo cerchio di quella balza da purgatorio che è la politica di casa nostra. Come non notare infatti il paradosso di un movimento che si dichiara antipopulista, ossia contrario proprio a quell’espressione di antipolitica che è stato il populismo italiano, dai Cinquestelle fino alla svolta nazional-balneare della Lega? Se poi, oltre a contemplare la disfida dei simboli, ci imbarchiamo nel contest dei contenuti l’impressione non cambia. Nel manifesto delle sardine di contenuti infatti non ce n’è. La cosa migliore che se ne possa dire è che è pieno di buoni sentimenti, i quali però non fanno piattaforma politica.
Purtuttavia, se le sardine non sembrano aver molto da dire nel merito tantissimo ne hanno nel metodo. Perché la loro è anzitutto rivoluzione metodologica, riforma dello stile comunicativo dominante e scossone dato all’idea che l’unica maniera efficace di compattare il consenso sia la ricerca della bolgia, dell’ordalìa, della tonnara. Che in fondo, come pensano in molti, non si tratti che di rincorrere, imitare e magari un giorno primeggiare nell’uso sapiente e spregiudicato della Bestia. Non dobbiamo chiedere di più, alle sardine. Certo possiamo aspettare il risultato delle elezioni in Emilia, fra due mesi. Se si registrasse un successo schiacciante del fronte anti-Lega o un incremento dei votanti tra i giovani e giovanissimi prenderebbe forza la tesi di un’influenza in positivo della protesta; il capitone (again, il mare) prenderebbe qualche pesce in faccia (la mer, encore) e avrebbe senso insistere su questa strada. Ma se quanti oggi accorrono festosi in piazza dovessero dimenticarsi di andare a votare domani racconteremmo un’altra storia. E magari le sardine si troverebbero di fronte all’accusa di aver contribuito al successo altrui, in quanto la strategia di un’opposizione di piazza rivolta ad una forza all’opposizione avrebbe avuto l’effetto di presentare quest’ultima come vittima, o come talmente forte da essere inevitabilmente destinata al governo.
Tuttavia, se anche grazie a questo piccolo gesto dovesse prodursi un aumento di sensibilità politica, magari un inizio di quella trasformazione dello stile comunicativo che non possiamo non auspicare, si porrebbe la questione se lasciare questa forza ridisperdersi senza un progetto o, peggio, vederla procedere verso lo schieramento di reti in attesa. Diverso sarebbe se ci fosse un ecosistema disposto ad accogliere l’impatto con il banco di sardine equilibrandosi sin da subito in una intelligenza collettiva in grado di declinarne la spinta in un progetto di vita associata, e non semplicemente in una “pesca” elettorale. Non so quanti di coloro che ancora si chiamano a sinistra abbiano le risorse per entrare in questa logica. O se invece preferiscano continuare a farsi trasportare dalle maree giocando a mozzicarsi reciprocamente. In questo destinati, prima o poi, a fare “la fine del tonno”, che poi è davvero il pesce a cui finisce sempre peggio, nel mare e nel linguaggio
Lettera aperta alle sardine – Paolo Flores d’Arcais
Cari Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori e Giulia Trappoloni (rigorosamente in ordine alfabetico), spero con tutto il cuore che la manifestazione di sabato a piazza San Giovanni a Roma risulti GIGANTESCA. Più gigantesca ancora di quella dei Girotondi del 14 settembre 2002, quando i cittadini di quella “Festa di protesta” nella stessa piazza erano davvero stipati come sardine e debordavano per duecento metri su via Merulana, per metà di via Carlo Felice che dalla piazza conduce a Santa Croce in Gerusalemme, e dietro le mura in tutta la zona della sottostante via Sannio.
Spero in un successo che vada oltre le più esuberanti speranze perché c’è bisogno che la società civile democratica, quella che vuole realizzare la Costituzione repubblicana, ritrovi la fiducia e l’entusiasmo della lotta e non si rassegni più a coltivare l’ideale della “Costituzione presa sul serio” solo in interiore homine, e nella rassegnazione di troppi anni all’egemonia vuoi di una destra becera ed eversiva, vuoi di un Pd impaniato nella sudditanza all’establishment, vuoi di un M5S che alle originarie ambiguità e contraddizioni ha aggiunto il carico suicida del tradimento delle promesse elettorali nell’accucciarsi a Salvini (governo Conte 1), non riscattato dagli ondeggiamenti e avvitamenti degli ultimi mesi.
Voi avete il merito di aver osato, con la semplicità di chi ricorda che un programma che unisca gli italiani e restituisca dignità alla politica c’è già, si chiama Costituzione, e bisogna farne la stella polare di ogni azione pubblica. Che solo i valori della Costituzione danno significato all’Italia come Patria, perché solo l’interiorizzazione di quei valori ci rende con-cittadini di una democrazia ancora vitale. Interiorizzazione che significa azione coerente per realizzare quei valori quotidianamente: Calamandrei, uno dei protagonisti dell’Assemblea Costituente, proprio in un discorso ai giovani agli inizi degli anni cinquanta ricordava come senza questa azione quotidiana la Costituzione diventasse lettera morta.
Infine spero che il successo della manifestazione di sabato sia ancora più gigantesco di quello dei Girotondi, perché voi avete deciso di riunirvi il giorno dopo per decidere come continuare. Come dare futuro organizzato all’esplosione di passione civile e fedeltà alla Costituzione repubblicana di queste settimane. COME non SE. Avete già deciso, insomma, di non ripetere l’errore di noi Girotondi, che non dotandoci di strutture organizzative, nell’illusione che i partiti avrebbero ascoltato il messaggio della piazza e si sarebbero rinnovati radicalmente e di conseguenza, siamo rimasti solo un falò, per quanto ciclopico ed entusiasmante, che non ha invertito la deriva partitocratica e le ulteriori degenerazioni di imbarbarimento.
Spero che un gigantesco successo vi offra la chance irripetibile di una gigantesca responsabilità: non lasciar dissipare le splendide energie di democrazia che avete evocato e catalizzato. Perché dirsi il “partito” della Costituzione è quanto di più esigente e radicale si possa affermare, e ritrovarsi con centinaia di migliaia di italiani che partecipando alle manifestazioni dichiarano di volerne fare parte vi obbliga moralmente ad elaborare insieme a loro l’articolazione di questa fedeltà alla Costituzione solennemente sbandierata. Una Costituzione che assumete come vostra identità proprio in quanto denunciate che resta a tutt’oggi disattesa, e spesso anzi lungo oltre settant’anni volutamente tradita dai governi.
C’è stato un momento, dopo il Sessantotto e sulla sua onda, che alcuni principi della Costituzione trovarono applicazione nelle leggi ordinarie. Una su tutte, lo Statuto dei lavoratori, che dava sostanza al primo articolo della Costituzione. O la legge che istituì il divorzio e poi il diritto della donna a decidere se interrompere la sua gravidanza.
Ma da almeno un quarto di secolo viviamo invece nella REAZIONE contro quelle conquiste, quelle prime parziali attuazioni dei valori costituzionali. Lo Statuto dei lavoratori è stato calpestato, cancellato, considerato un “male sociale” anziché una irrinunciabile conquista. Nella scuola e nell’università il linguaggio e troppi meccanismi sono ormai quelli dell’imprenditoria anziché della scuola egualitaria repubblicana delineata dalla Carta. E la Costituzione è stata addirittura sfigurata, inserendovi il diktat liberista del pareggio di bilancio.
Perciò, per non far disperdere e dissipare le energie che avete suscitato dovrete saper tradurre e articolare la fedeltà alla Costituzione in movimenti e obiettivi di lotta. La Costituzione, per essere una bussola, implica saper proporre le leggi per attuarla, nel campo del lavoro, in quello della giustizia eguale per tutti (dove identiche siano garanzie e severità per l’ultimo degli emarginati e il primo dei potenti, il che da decenni viene dell’establishment bollato come “giustizialismo”), in un rilancio del Welfare (quale eguaglianza vi sarà mai tra donne e uomini se gli asili nido gratuiti non sono una ovvia normalità?), in una informazione sottratta tanto alla lottizzazione quanto al potere del denaro, in un ritorno alla sanità pubblica ogni giorno invece impoverita, in una laicità mai realizzata, e via articolando.
Senza di che il richiamo alla Costituzione rischia di diventare rituale, quell’omaggio che non costa nulla e non impegna a nulla.
E non potrete neppure eludere il problema cruciale e spinosissimo del “con chi” realizzare questo programma di lotte e di obiettivi. Per fare in modo che tutti i cittadini scesi in piazza possano essere con voi protagonisti, e non solo “mobilitati” una tantum, del movimento che nasce.
Io spero che non avrete paura di affrontare tutte queste gravosissime responsabilità, perché senza affrontarle le meravigliose energie di queste settimane si spegnerebbero in nuova apatia. Del resto in questo compito enorme non sarete soli, tutti i manifestanti di sabato saranno con voi, pronti a condividerle. Avanti, Sardine!
Metafore – Erri de Luca
Di sera accendo il fuoco nel camino, uno dei gesti più antichi della specie umana. Irradia luce, scalda, non ha corpo e non proietta ombra. Mentre lo guardo divorare il legno, passano dei pensieri suscitati dalle sue forme mobili.
Dante nel canto 26 dell’Inferno incontra Ulisse trasformato in fuoco e così scrive: ”Lo maggior corno della fiamma antica”. Dove la metafora corrente vede una lingua di fuoco, lui sceglie di vedere un corno, dal cui interno sta per uscire una voce.
Il fervore poetico insiste poco dopo: ”pur come quella cui vento affatica”. Sa bene che il vento aizza la fiamma, la rinforza, ma vuol vedere invece uno sforzo, una fatica nei guizzi del fuoco sbattuto dal vento.
Queste metafore afferrano l’immaginazione di un lettore, dilagano fino alla visione.
Studiati al liceo, mandati per obbligo a memoria, quei versi sono rimasti conficcati nella percezione. Il fuoco che accendo di sera nel camino è lo stesso che anneriva le caverne della preistoria, veniva rubato agli dèi da Prometeo e scatenava metafore negli occhi di Dante. Quello nella mia cucina non ha corni dai quali escono voci, versi, però ha bisbigli, schiocchi, sputi di scintille, brontolii. Se formano un linguaggio, non lo intendo.
Al mattino ne raccolgo la cenere e la restituisco agli alberi, alla terra.
Metafora è alla lettera un mezzo di trasporto, il verbo greco indica spostare, trasferire. Si è poi allargato al passaggio da un senso letterale a un altro. Quando porto la cenere dal piano del camino fino al piede di un albero, io svolgo la funzione di metafora, mezzo di trasporto.
Molte migliaia di persone decidono di chiamarsi sardine e fare massa critica sulla superficie delle piazze. Affiorano e brulicano come le sardine sul pelo dell’acqua per confondere il tonno che si aggira sotto.
Quelle molte migliaia sono la pubblica metafora di un paese sprovvisto di sinistra. Non si scioglieranno finché non se ne va il tonno.
L’innocenza delle Sardine – Marco Revelli
Alle otto e mezza di sabato va in scena il confronto tra impudenza e innocenza. Davanti a Lilli Gruber, nelle persone di Francesco Borgonovo e Matilde Sparacino: un professionista della disinformazione, vice-direttore di quel giornale che mente fin dal suo titolo “La Verità”, membro esterno onorario della Bestia di Salvini; e una giovane studentessa alla sua prima esperienza di impegno pubblico come promotrice del prossimo flash mob delle sardine fiorentine. Il primo impegnato in un accanito J’accuse contro le piazze resistenti delle “Sardine”, l’altra a sostenere serenamente il suo essere caparbiamente “per” una serie di valori che non sono altro che la nostra Costituzione.
A me ha fatto tornare in mente la celebre favola di Fedro – ricordate? Superior stabat lupus, agnus inferior… non solo per la postura dell’”accusatore” (tre palmi sopra tutti, tono condiscendente, sguardo irridente) ma per il rovesciamento totale del piano di realtà che si andava dipanando nei suoi interventi: il vicedirettore del giornale più schierato d’Italia accusava quelle piazze di essere politicamente compromesse (al servizio degli interessi elettorali di una parte), utilizzando come prova a carico i curricula di due (due!) tra i promotori, uno accusato di collaborare alla rivista bolognese “Energia”, l’altro con la regione Toscana. Dalla sede di uno dei più virulenti centri di diffusione degli insulti e dell’odio contro chiunque pratichi forme di solidarietà, accoglienza, anche semplice umanità – vera e propria macchina di creazione di capri espiatori – accusava le “Sardine” di essere aggressive, intolleranti, violente nei confronti di quel pover uomo di Matteo Salvini, insomma, haters ciechi e sordi alle “ragioni” dei vituperati “populisti sovranisti”. Ed era davvero l’esemplificazione autentica di quella tecnica sperimentata e perversa del populismo di ultima generazione, il più virulento, consistente in quella che chiamerei l’”inversione del rapporto vittimario”: la trasformazione del carnefice in vittima e della vittima in carnefice, dell’odiatore in odiato, del persecutore in perseguitato. La stessa “inversione” che ha fatto delirare Matteo Salvini quando, di fronte alla tempesta di odio scatenata contro la senatrice Liliana Segre e alla protezione resasi necessaria, ha rivendicato le minacce subite da lui stesso, quasi le due persone potessero essere poste sullo stesso piano, anzi, quasi che la sua sofferenza, di pasciuto ministro e poi ex ministro di polizia, fosse maggiore di quella di chi ha visto la propria famiglia sterminata, lei stessa discriminata razzialmente e deportata nell’inferno di Auschwitz… Infine, dalla bolla di retorica di cui si alimenta la destra radicale a cui di diritto s’inscrive, Borgonovo denunciava la vuotezza di contenuti delle piazze piene – come barili di sardine appunto – di persone, indicate come portatrici del nulla.
Dall’altra parte la studentessa ventiduenne di psicologia alla sua prima esperienza, lo guardava imperturbabile (come si guarda un oggetto sconosciuto, o un soprammobile bizzarro) e sciorinava l’elenco dei “valori” positivi della propria proposta, gli stessi del vituperato “Manifesto”: la “passione nell’aiutare gli altri”, l’amore per l’ascolto, la creatività, la non-violenza, la bellezza, anche, perché no?, la “buona educazione” e la sobrietà del linguaggio. Quanto evidentemente a un hater professionista può apparire un “Nulla”. E nel far questo, in quel chiamarsi fuori dal gioco dello scazzo, della replica muscolare, della bagarre mediatica, in quello sguardo tra il perplesso e il persuaso, mostrava un fondo di innocenza che la rendeva in qualche modo invincibile.
Ho detto “innocenza”. E la considero una delle parole chiave che spiegano quanto si è materializzato nelle piazze. Forse “la” parola chiave, che spiega la forza di quel primo appello che ha riempito Piazza Grande di una folla fitta e compatta come non se ne vedeva da tempo. Quella massa variegata e multicolore, strabordante e composta, ha risposto in forma così immediata e (possiamo dirlo? “irriflessa”) alla chiamata perché questa rispondeva a un bisogno profondo, vissuto, fino ad allora inespresso e però potente, sentito. Ma anche perché a chiamare erano figure “innocenti”, nel senso di “non compromesse”, come solo chi appartiene alla generazione nata a ridosso del passaggio di secolo può essere, ragazzi che non portano le (tante) colpe di chi in questo ventennio ha assunto responsabilità politiche. O anche solo ha fatto organicamente parte del gran circo della politica politicante, in tutte le possibili sinistre, o i possibili centri, chiese o sette che fossero, e ne ha subìto, volente o nolente, i compromessi, gli abbandoni di ideali, le burocratizzazioni e le degradazioni funzionariali, i linguaggi gergali e morti, la separazione dai propri reciproci popoli; chi non ha prodotto delusioni in quanti hanno creduto in loro e non ha subito delusioni da parte di coloro in cui ha creduto, non si è ammalato di frustrazione né di settarismo, di arroganza né di risentimento. Quella “chiamata” non poteva che venire da una “generazione vergine” per poter essere ascoltata, e infatti intorno a quel nucleo di chiamanti si è condensato un aggregato vasto di chiamati, trasversale alle generazioni e ai gruppi sociali, con dentro, accanto ai più giovani, anche la generazione di mezzo che era stata la grande assente dallo scenario politico “non populista”, e quelle più anziane, degli assenti per stanchezza e disillusione, smarrimento e solitudine… Così come vi sono confluiti un po’ tutti i frammenti del “prisma del lavoro” andato in frantumi prima che il Novecento finisse, dai giovani precari intellettuali e non solo ai pensionati e alle casalinghe, dai residui operai sindacalizzati alle partite Iva di diverso livello.
Non sono più il “ceto medio produttivo” di cui parlava a ragione Paul Ginsborg un quarto di secolo fa, quello è stato lavorato al corpo dalla crisi che ha colpito come uno tsunami il ceto medio nel suo complesso, non sono più il “popolo dei Girotondi” e nemmeno il “popolo viola” che tagliò un bel po’ di erba sotto i piedi a Berlusconi. Sono per molti versi “post”: nell’orizzonte dei promotori non c’è più il riferimento assorbente, anche solo in negativo, ai partiti storici della sinistra. Non c’è tout court la “forma partito”. Sono, come chiamarli?, “popolo”. Una moltitudine che si addensa e riconosce in base a un comune sentire, a un segnale d’allarme. Alla sensazione di un pericolo imminente. E insieme di uno stato di cose insopportabile. Si mobilitano secondo una sequenza assai simile a quella del sistema immunitario di un organismo: come sciami di anticorpi in risposta in qualche modo istintiva, o automatica, di fronte ai sintomi avvertibili di una grave malattia. Quello che li unisce, tagliando orizzontalmente e verticalmente l’eterogeneità, è un set, non vastissimo, ma fondante, di valori (che sono poi quelli della nostra Costituzione), ritenuti irrinunciabili perché considerati indispensabili al proprio sentirsi “popolo”.
E, se devo dirla tutta, credo che il loro grande, davvero grande, merito sia proprio quello di aver fatto materializzare, nel luogo pubblico per eccellenza, in piazza, un popolo altro rispetto a quello rivendicato dalla retorica populista. L’anti-salvinismo di questo fenomeno sta nell’aver mostrato al mondo che il Capitano non ha il monopolio del “popolo”. Che l’Italia non è di Matteo Salvini. Che c’è anche un’Altra Italia, grande, coesa, determinata, corporea, fatta di persone in carne e ossa che scoprono di essere, nonostante tutto, una Comunità vivente, operosa e capace di testimoniare i propri valori. Basta questo per decretarne la positività e la grandezza.
So che poi ci sono – ci sono sempre – quelli che arricciano il naso e alzano il dito, per denunciare i limiti. Quelli che ogni volta fanno l’esame del sangue ai nuovi venuti, per verificarne i quarti di nobiltà, di purezza ideologica, di esaustività del programma, di efficacia del progetto. L’hanno fatto con la gigantesca onda globale sollevata da Greta Thunberg. Lo fanno con le “Sardine”: quanta dose di anticapitalismo c’è? Quale opzione organizzativa per la presa del potere? Quale tasso di critica-critica ha la loro visione del mondo? Ho letto post indecenti su Facebook, di pseudo vetero-comunisti che parlano lo stesso linguaggio di Diego Fusaro, e irridono le Sardine con gli stessi già citati argomenti di Francesco Borgonovo, considerando la loro azione un “Nulla”.
Ho letto altri commenti ben più ragionati, e anche in buona parte condivisibili, di chi pur rendendo onore al merito e apprezzando quelle piazze – penso a un interessante articolo di Marco Bersani intitolato Il bivio delle Sardine – non resiste tuttavia alla tentazione di far un po’ di bucce: la caratteristica, tipica di quella specie ittica, di “nuotare senza mai avere alcun contatto con il fondale marino”, l’assenza in quelle piazze delle componenti sociali più disagiate, delle aree della sofferenza materiale in cui pesca il nazional-socialismo salviniano (“quel fondale marino che dovranno ad un certo punto attraversare, se davvero vogliono dare una risposta, non tanto al Capitano del Papeete, quanto a tutte le persone che hanno fatto cortocircuito nel rancore, e che, invece di rivendicare diritti e libertà, reclamano ordine e disciplina” (Idem). Può darsi che sia vero. Che le piazze delle sardine siano posizionate sulla parte medio-alta della piramide sociale, quantomeno in quella meglio scolarizzata. O forse no: anche nel post-proletariato urbano resiste una memoria civile e civica che la falce della crisi non ha estinto e che lo sciame ittico può risvegliare. Come che sia, comunque questo è un gioco a cui non mi piace giocare. Non mi iscrivo al partito di quelli del “bravi si, ma”… E nemmeno a quello di chi incalza chiedendo strutturazione, organizzazione, trasformazione in soggetto politico subito, qui e ora, per durare, contare, decidere! Non so se le Sardine dureranno. Se prenderanno nello spazio politico italiano il posto che anni fa occupò Grillo con le sue piazze del V-Day o se passata la marea si dissolveranno come a volte accade agli sciami. E anche in questo caso non lo considererei un fallimento. Il risultato che le piazze di questi giorni producono non è “esterno”, è “interno”, ha a che fare con coscienza e sentimenti delle persone che vi partecipano. Con la modificazione del loro “sentire”. Il senso di presenza, come Comunità, di chi è stato in una di quelle piazze, ognuno se lo porterà dentro per i mesi e forse gli anni prossimi. E sarà un pezzo di identità collettiva sottratto all’imbarbarimento populista e a questo consapevolmente contrapposto. Vi pare poco?
Sardine o bandiera rossa? Di sicuro antifasciste e antirazziste – Guido Viale
Chi ha paura delle sardine? Chiunque abbia partecipato a una delle loro mobilitazioni ha percepito una grande voglia di partecipazione (che fa seguito ad altre mobilitazioni: molte di lavoratori, ma soprattutto quelle di Fridays for future e Nonunadimeno), il rifiuto dei discorsi d’odio (ma anche delle prese in giro) che hanno dominato la scena politica e mediatica negli ultimi anni, la presenza di giovani e anziani, lavoratori e studenti, donne e uomini. E anche di destra e sinistra?
O di né di destra né di sinistra? Certo di molte persone che non hanno votato, non sanno per chi votare, ma che vorrebbero tornare a contare. Sicuramente antifasciste e antirazziste.
Per questo quelli di Casa Pound e, attraverso Casa Pound, Salvini, sentendosene assediati, hanno cercato di “sporcare” la manifestazione romana minacciando una loro presenza grazie all’ingenuità di uno dei suoi promotori. E qualche risultato – qualcuno che si è ritirato – probabilmente l’hanno ottenuto. E senza equipararle a Casa Pound, hanno concorso allo stesso effetto adesioni come quelle della fidanzata di Berlusconi o delle “madamine” siTav (già, che fine hanno fatto?) che di Salvini si erano servite, servendolo a loro volta, per riempire la loro piazza.
Ma il piatto forte per “fare l’esame del sangue” alle sardine e prenderne le distanze è la favola di una macchinazione di Prodi e del Pd per recuperare spazi perduti: che sembra trovare conferma in diverse prese di posizione, presenti e passate, di alcuni promotori: specie di Mattia Santori, che ha partecipato al comizio elettorale di Bonaccini e che in passato si è schierato per il sì al referendum costituzionale di Renzi e per il boicottaggio di quello contro le trivelle. Tutto vero; e di casi simili se ne troveranno altri cento.
Ma si può identificare sentimenti e aspettative di piazze finalmente piene come queste con le idee di qualcuno dei loro promotori, che pochi conoscevano prima e molti non conoscono nemmeno ora? Per molti la “prova definitiva” è che lì non si vogliono le bandiere di partito né si può cantare Bandiera rossa. Proprio come nei cortei di Fridays for Future e di Nonunadimeno.
Tutte queste mobilitazioni, proprio perché l’orientamento partitico dei e delle partecipanti è sconosciuto, e in molti casi indeterminato, o parecchio disorientato, sono un terreno di confronto e – perché no? – di scontro tra idee e prospettive diverse, e in alcuni casi anche opposte, in competizione per un’egemonia non scontata; idee e prospettive che devono anche ridefinirsi e riqualificarsi alla luce dei problemi e delle incomprensioni che emergono nel contatto con persone che non si incontrano più da tempo, o che mai si sarebbero incontrate altrimenti.
Questa è la grande occasione che le sardine offrono: smettere di parlarsi tra quelle e quelli che già si frequentano o incontrano spesso e sanno tutto uno dell’altra; avere un pubblico con cui mettere alla prova la propria capacità di farsi capire e di capire gli altri, quelli che non si sa più, o non si sa ancora, che cosa pensino.
C’è chi si chiede perché sardine e Fridays for Future o Nonunadimeno non si colleghino, riunendo le reciproche istanze in un movimento più generale attraverso i rispettivi comitati promotori. Perché no? Ma gran parte degli studenti e delle studentesse che partecipano ai cortei di Fridays for Future o Nonunadimeno sono gli stessi e le stesse che vanno alle mobilitazioni delle sardine. E’ a quel livello che deve avvenire un vero incontro, con iniziative condivise nelle scuole, nelle Università, nei quartieri. Coinvolgere tutti nella lotta contro la crisi climatica e ambientale (e come evitare di farlo una volta che si conosca la realtà della catastrofe che incombe?) spazzerebbe ogni possibilità di schierarsi (e meno che mai mobilitarsi) per le Grandi opere, a partire dal Tav, pietra di paragone di tutta la politica nazionale.
Mancano i lavoratori? No, le mobilitazioni delle sardine ne sono piene. Il problema è ritrovarli nelle fabbriche e nelle aziende dove lavorano, nei quartieri dove vivono, nei bar che frequentano; e per questo bisogna andarli a cercare. A capo” delle sardine ci sono troppi “fighetti”? A me non piacciono i confronti tra l’oggi e i movimenti di 50 anni fa: è un modo per far divorare i vivi dai morti.
Ma è indubbio che questa critica ricalca quelle ripetute a iosa allora da chi si riteneva l’autentico rappresentante della classe operaia. Tranne ricredersi di lì a poco; perché ciò che avrebbe poi permesso agli operai delle fabbriche di allora di farsi per qualche anno protagonisti della storia d’Italia con le loro lotte era stato smosso dalle mobilitazioni antiautoritarie degli studenti: un clima di libertà, di spirito antigerarchico ed egualitario, di ricerca di una strada nuova per cambiare se stessi e il mondo di cui tutte le donne e gli uomini coinvolti nelle lotte di allora avrebbero poi saputo beneficiare.
LA MOBILITAZIONE È GENEROSA, MA LA MALATTIA DELL’ITALIA DI OGGI NON È SALVINI. LA SUA FRASEOLOGIA XENOFOBA È INVECE IL SINTOMO DELL’INGIUSTIZIA SOCIALE – Barbara Spinelli
Le sardine non sono contro l’establishment, né italiano né tantomeno europeo. Sono gentili, non urlano, e riempiono le piazze con quella che esse stesse chiamano “energia pura”. Ingenerano un entusiasmo generale e trasversale perché secondo alcuni potrebbero scompigliare le ambizioni della Lega di Salvini nelle prossime elezioni regionali e soprattutto in Emilia Romagna dove il nuovo movimento è nato. Pur essendo gentili hanno un avversario – i populisti – cui si rivolgono nel loro Manifesto del 21 novembre con sorda durezza.
Fingono di ignorare che tutto l’establishment, in Italia e anche ai vertici dell’Unione europea, ha scelto come avversari i populisti, non importa se di destra o sinistra (negli anni ’60 e ‘70 si chiamavano “opposti estremismi”). Se un partito anti-sistema o anche molto critico del sistema vince alle elezioni è subito definito populista e scomunicato.
I maggiori applausi alle sardine, finora, vengono da un establishment centrista che sempre meno sa e vuole gestire la natura aleatoria del suffragio universale. Che dall’inizio della crisi nel 2007-2008 usa l’accusa di populismo per non mettere in questione le politiche che lo hanno scatenato.
Le sardine non conoscono le bassezze della disperazione, della rivolta contro disuguaglianze sociali e povertà. Si sentono di sinistra perché si preoccupano del clima, ma i precursori in questo campo sono Grillo e 5Stelle. Di sé dicono, con un linguaggio che ricorda quello degli scout: “Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto”. Dunque non conoscono difficoltà nella vita.
Nelle crisi dell’ultimo decennio si ritagliano una loro zona di conforto. Non hanno niente di particolare da dire sulle questioni che oggi contano: le miserie del lavoro precario o del non lavoro; il disastro dell’Ilva o di Alitalia; la manomissione del territorio attraverso grandi opere inutili che tolgono risorse alla sua manutenzione; le politiche di austerità che l’Unione Europea continua a difendere a denti stretti, nonostante il prezzo pagato da ceti medi e classi popolari (la questione del Fondo salva Stati non è tecnica ma concreta e politica: nella prossima crisi finanziaria si ripeterà l’umiliante catastrofe greca?).
Non criticano neanche il rinnovo dell’accordo con Tripoli, che dai tempi di Gentiloni e Minniti rispedisce nei Lager libici i migranti in fuga. Questo non vuol dire che le sinistre radicali dispongano di ricette migliori: la capacità di mobilitazione di queste ultime è poca cosa rispetto a quella delle sardine. Ma non vuol dire nemmeno che il movimento appena nato, così come viene presentato non da tutti ma da molti suoi esponenti, abbia in mano una ricetta veramente comprensibile.
Nel raccontare se stesse le sardine mescolano condizioni umane e concetti banali, trasformandoli non si sa perché in virtù superiori (la normalità, la famiglia, lo sport, il divertente, il bello, etc. Manca solo l’Anima). Meno banale è il rifiuto della violenza e tutt’altro che banale l’appello all’ascolto. Su quest’ultimo c’è tuttavia da dubitare: pochi paragrafi dopo, nel Manifesto, proclamano che il diritto all’ascolto spetta a tutti ma non ai populisti di Salvini (circa il 30 per cento degli italiani): “Grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare”. Non ho mai sentito un antifascista (immagino che l’allusione a padri e nonni si riferisca all’antifascismo) dire che esistono categorie di avversari o perfino nemici politici privati di tale diritto.
Proclami simili sono non solo insensati ma forse anche nefasti. Lo vedremo alle prossime scadenze elettorali, locali o nazionali che siano. Può darsi che il movimento segnali il salutare risveglio di chi si è allontanato dalla politica e riscopre l’importanza del voto. Può darsi che riempia un vuoto creatosi a sinistra, anche se non è chiaro con cosa verrà riempito. Ma può anche darsi che il loro Manifesto esasperi la rabbia, la frustrazione, l’umiliazione di chi si è rifugiato nella Lega pur di essere per una volta ascoltato. Una buona parte dei voti per il Brexit nel 2016, o per Trump, o per il partito di Kaczynski in Polonia, ha origine in questa rabbia dei non più ascoltati, dei cancellati.
La malattia dell’Italia non è oggi Salvini, come ha scritto giustamente su questo giornale Tomaso Montanari. Salvini e la sua fraseologia xenofoba sono i sintomi di un male che si chiama ingiustizia sociale, disuguaglianza, furore dei declassati: il leader della Lega cavalca questi mali offrendo gli immigrati come capri espiatori e finte battaglie contro il Meccanismo europeo di stabilità, contestato solo dopo che la Lega, per mesi imbambolata e disattenta, è uscita dal governo.
Sono rare e poco udibili le sardine che parlano delle radici dei mali italiani, che si interrogano sulle città già passate a destra in Emilia Romagna. Chi soffre questi mali, fidandosi di Salvini senza ancora vederne l’impostura, non ha comunque diritto all’ascolto. Come riconquistare la loro fiducia, se neanche li ascolti. Questo significa che l’impostura può continuare.
Dicono: “Benvenuti in mare aperto”. Speriamo che sarà aperto sul serio. Che dal vuoto di programmi, idee, parole nascano gli anticorpi che tanti invocano. Fino a ora, il nuovo movimento dà il benvenuto, ma non ancora in mare aperto. Cosa vede nei fondali marini, oltre il disegno ittico della propria pura energia? In genere, le sardine stanno amichevolmente strette quando sono inscatolate. Per il momento è la scatola che li protegge più che le profondità del mare.