Sul “Manifesto per la verità” – di Gian Marco Martignoni

ovvero «Donne, guerre, migranti e altre notizie manipolate»: Gian Marco Martignoni riflette sul libro di Giuliana Sgrena

Ormai in qualsiasi sala d’aspetto, in metropolitana o nelle carrozze ferroviarie, per non parlare delle riunioni sindacali, si conta sul palmo della mano chi ancora sente il bisogno di leggere un quotidiano. Il Rapporto sulla situazione sociale del paese 2018, a cura del Censis, evidenzia come la maggioranza degli italiani si documenta prevalentemente su Internet (46,1 per cento ) mentre stante il crollo della vendita dei quotidiani solo il 37,4 è rimasto affezionato alla loro lettura. Al punto che Il Corriere della sera e La Repubblica hanno dimezzato in un decennio le loro vendite, che sono scese nel primo caso a 220.969 copie vendute quotidianamente e nel secondo addirittura a 175.106, pur se la domenica per un euro di sovrapprezzo è allegato un glorioso settimanale come L’Espresso. Sono dati preoccupanti, che incidono sugli orientamenti dell’opinione pubblica e quindi sullo scarto che interviene nella popolazione fra la percezione e la realtà effettiva dei fatti, come poi rilevano le statistiche a livello internazionale, che ci collocano in posizioni invereconde.

Su queste tematiche e più in generale sullo scadimento della professionalità dei giornalisti, «diventati passivi compilatori di materiali non verificati», è illuminante il capitolo conclusivo dell’ultimo libro di Giuliana Sgrena «Manifesto per la verità» (Il Saggiatore, pagine 260 per euro 15). Ma la Sgrena, che è stata inviata del quotidiano il manifesto in molteplici teatri di guerra, in quanto fedele alla missione del giornalismo “unilateral”, allarga il suo campo d’inchiesta con una serie di approfondimenti oltre i confini nazionali nella consapevolezza che all’epoca della post-verità si è pervenuti a una manipolazione del consenso sempre più sofisticata e perversa. D’altronde a Falluja in Iraq, dove documentò insieme a RaiNews24 l’utilizzo delle armi al fosforo bianco, e poi all’hotel Palestine a Baghdad, ha potuto verificare l’organizzazione di una campagna di disinformazione di massa (attraverso l’individuazione di un nemico, il dittatore Saddam Hussein, da gettare in pasto all’opinione pubblica mondiale) e il rapporto cameratesco instaurato dai giornalisti embedded con i battaglioni militari delle loro nazioni di provenienza, relativamente all’addestramento sui compiti da svolgere «diligentemente» sul campo. Allo stesso modo nella vicenda libica l’uscita di scena di Gheddafi è stata il frutto di una montatura tv avvenuta negli studi televisivi dell’emittente Al Jazeera a Doha. Così in Siria: quando l’Opac ha smentito l’uso delle armi chimiche da parte dell’esercito siriano, la mancata defenestrazione del presidente Bashir Assad si è tramutata inevitabilmente nella distruzione, per palesi interessi geopolitici imperialistici, di quel Paese e nella tragedia biblica di un intero popolo.

Ora invece la guerra informativa – in particolare dopo l’istituzione del trattato di Schengen – ha per obiettivo i migranti, contro i quali sono stati eretti «sia muri fisici, ben tredici in Europa, che muri mentali». Proliferano i dati falsi sull’immigrazione e si moltiplicano gli stereotipi anche via social nei confronti degli stranieri, con gravi responsabilità da parte del mondo dell’informazione.

Infine, a partire dal caso Asia Argento, vittima della gogna mediatica per aver denunciato le molestie subite da Harvey Weinstein, i primi tre dolorosi e scioccanti capitoli del libro affrontano la cultura dominante dello stupro, con una accurata denuncia su come i femminicidi vengono raccontati nel mondo e soprattutto nel nostro Paese, ove l’ondata reazionaria è guidata dal fronte antiabortista. Non casualmente l’irruzione sulla scena mondiale del movimento femminile MeToo ha fra i suoi principali obiettivi quell’affermazione della verità che dovrebbe contraddistinguere un giornalismo di qualità. Un giornalismo che se vuole sopravvivere dignitosamente deve – riprendendo le parole di un lungimirante George Orwell – avere «il diritto di dire alla gente ciò che non vuole ascoltare».

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