In un incontro dentro una libreria, una persona mi dice che nelle mie pagine sente la mia voce.
Non è proprio la mia, però so di stare scrivendo la voce di uno che racconta. La scrittura per me è la stesura orale di un ascolto. Le frasi che scrivo le bisbiglio alla velocità o alla lentezza della penna sul foglio di quaderno. E non sono più lunghe della durata di un respiro.
Il punto è la breve pausa che riempie di aria il fiato successivo.
Nelle mie storie c’è la voce di uno che le sta dicendo, standoci dentro, parte della mischia, senza visione panoramica dall’alto sull’insieme. Non sono lo scrittore che muove le fila, né il regista. Nelle storie che scrivo, il narratore è la comparsa di una vicenda più grande che gli sta addosso e intorno. È quello che è successo ai vissuti nel 1900.
Ho un debito letterario di riconoscenza non ai libri che ho letto, ma all’esistenza svolta. È stata la materia dalla quale affiorano i racconti. Materia viene dal latino mater, madre. È materia materna la vita da cui scrivo. Il diritto d’autore spetterebbe a lei, lo incasso a nome suo. Scrivendo, pago a lei la tassa, che non è un prelievo ma una restituzione.
Qui di seguito copio da una pagina scritta di recente sulla cecità di mio padre. È il riassunto di una perdita accettata, la voce è sua.
Non mi manca il colore della tovaglia,
la precisione della forchetta.
Faccio a meno dei libri, dei giornali,
rimedio con la radiolina attaccata all’orecchio.
Mi aiuto con le mani a trovare le scarpe,
i pantaloni, la camicia,
più difficili sono i calzini,
pare che fanno apposta a nascondino.
L’orologio non mi serve più.
Non mi manca la luce del mattino,
è diventata nebbia in cui tastare i volti.
Me lo lasciano fare, la cecità fa ardire.
Non dico preghiere, non accendo ceri,
credo nella consolazione dell’ironia.
Mi piace il fuoco nel camino,
il tè caldo al mattino,
il profumo del pane abbrustolito.
Ho un dispiacere solo:
nelle sere d’estate sul balcone
perdere le stelle.