L’installatore della porta nuova per contratto doveva portarsi via la vecchia. L’ho vista in terra spalancata a vuoto, pronta per essere caricata e gettata su un mucchio di rifiuti. Ci ho ripensato.
La tengo per legna da camino, ho detto e l’ho rialzata. Meglio bruciata in cucina a pochi passi da dove è servita a separare il campo dalla casa, il fuori e il dentro.
L’ho fatta a pezzi con la motosega. Il taglio profumava di pino stagionato. Gli incastri dei suoi montanti erano ancora saldi, un lavoro ben fatto di quarant’anni fa.
La sua carcassa in queste sere arde a forte fiamma.
L’ho aperta e chiusa centomila volte. L’ho presa a calci per entrare quand’ero senza chiave.
Vecchia porta di casa, cordiale con gli spifferi e con le formiche, carteggiata e spennellata ogni primavera.
Ho buttato chiave e serratura, una mossa che ora mi dispiace.
Attraverso di lei sono entrati gli amici, la polizia, l’amore con le sue valigie. I ladri no, hanno usato la finestra.
Attraverso di lei sono usciti i corpi dei miei morti, due poeti ubriachi, i baffi di Gian Maria Testa preceduti dalla chitarra.
I suoi battenti hanno pareggiato ingressi e addii.
Al suo legno ho pensato incontrando la frase amorosa: ”Senza di te io sono una maniglia senza porta”.
Ora ho una chiave nuova e molto meno tempo per farci l’abitudine.
Il fuoco della vecchia porta nelle prossime sere me lo ricorderà.