originalmente pubblicato ne La Bottega del Barbieri 16 Aprile 2020
articoli della campagna Abiti Puliti, di Deborah Lucchetti, Emanuele Giordana e Giada Ferraglioni
Chi salverà i lavoratori che producono i nostri vestiti?
di Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti
Un documento del Worker Rights Consortium, redatto in collaborazione con la Clean Clothes Campaign, propone un primo ragionamento sugli impatti che l’attuale pandemia da coronavirus avrà sui lavoratori del settore moda. I Paesi ricchi metteranno a disposizione misure economiche mai viste per fronteggiare la crisi, proteggere le loro imprese e i lavoratori. Ma cosa succederà agli operai del tessile-abbigliamento, addensati in Paesi a basso reddito dove le infrastrutture sociali per tutelare i lavoratori dalle crisi spesso non esistono o sono fragili?
Parliamo di 150 milioni di persone che producono beni per l’America del Nord, l’Europa e il Giappone e altre decine di milioni impiegati nei servizi. Nel solo settore tessile-abbigliamento sono almeno 50 milioni di operai, quasi tutte donne, con stipendi di povertà senza alcuna possibilità di accumulare risparmio.
Il documento prova a identificare i fattori che stanno esacerbando la crisi per quei settori, come la moda, basati su un modello produttivo insostenibile (la fast fashion) e su filiere globali che hanno deliberatamente prodotto una limitazione delle responsabilità dei marchi committenti verso i fornitori, terminali ultimi delle conseguenze della crisi. Il rischio, che in alcuni casi è già una realtà, è che i grandi player del mercato utilizzino la pandemia per giustificare pratiche commerciali piratesche (cancellazione degli ordini in corso o addirittura già in consegna, rifiuto di pagare per merce già prodotta, etc..). Le imprese fornitrici, prive della forza economica necessaria, non potranno difendersi legalmente e, operando con margini bassissimi, non avranno le riserve finanziarie, né l’accesso al credito, per resistere allo shock prodotto dal blocco globale delle vendite.
In molti Paesi produttori i governi non finanziano direttamente le misure legali di protezione sociale per chi perde il lavoro: impongono di farlo ai datori di lavoro. Il problema è, come sempre, l’applicazione di tali obblighi: le imprese, in assenza di continuità produttiva per la cessazione degli ordini per il mercato estero, potranno sottrarsi con facilità alle loro responsabilità. Milioni di lavoratori informali o precari saranno comunque esclusi dai benefit. Inoltre, per i lavoratori che saranno costretti a recarsi in fabbrica si fa scottante il tema della sicurezza: è molto improbabile che siano messe in atto misure e protezioni individuali adeguate a garantire il distanziamento sociale in strutture normalmente sovraffollate.
E’ chiaro che sarà necessario un massiccio intervento pubblico per prevenire la catastrofe economica e sociale. Ed è altrettanto chiaro che i Paesi a basso reddito, con finanze scarse e infrastrutture di protezione sociale deboli o inesistenti, non saranno in grado di fronteggiare le conseguenze strutturali della crisi a medio e lungo termine. Ma i pacchetti finanziari messi in campo dai governi a capitalismo maturo non paiono mettere in conto misure di sostegno a favore di coloro che hanno prodotto in larga parte la ricchezza delle loro multinazionali: i milioni di lavoratori del Sud e dell’Est globale sono i grandi esclusi dai salvataggi in epoca di pandemia.
Per affrontare questa drammatica crisi e dare risposte ai lavoratori più vulnerabili delle catene di fornitura globali, occorre uno sforzo congiunto che veda da una parte i grandi marchi assumere condotte responsabili nella gestione dei rapporti commerciali con i fornitori per consentire loro di onorare gli obblighi verso i dipendenti; dall’altra la necessità di una risposta collettiva da parte di tutti i governi, delle istituzioni finanziarie e degli organismi internazionali affinché sia possibile mantenere un reddito a tutti lavoratori nel mondo oggi sull’orlo del baratro. I marchi, invece di spostare tutto il peso sulla filiera, devono condividere la responsabilità e i costi finanziari della crisi, mettendo al centro delle loro priorità il rispetto degli obblighi verso i fornitori e verso tutti i lavoratori. Queste risorse non saranno comunque sufficienti: perciò è necessario che i piani di salvataggio multimilionari predisposti dalle istituzioni internazionali e dai governi ricchi guardino anche ai destini dei soggetti più vulnerabili dispersi nelle catene globali di fornitura.
Gli aiuti futuri destinati ai Paesi produttori per far fronte alla crisi Covid-19 dovranno essere condizionati da una parte all’impegno dei loro governi a creare, nel medio periodo, robusti sistemi nazionali di protezione sociale; dall’altra all’impegno delle imprese multinazionali a siglare accordi vincolanti di filiera che riflettano prezzi di acquisto sufficienti a garantire il finanziamento ordinario di tali sistemi di protezione.
L’attuale pandemia svela definitivamente l’estrema insostenibilità di un modello di business basato sullo sfruttamento endemico di milioni di lavoratori che ricevono salari di povertà, su una forte asimmetria di potere tra marchi e fornitori che permette ai primi di addossare tutte le responsabilità alle parti deboli della filiera, su una totale assenza di accountability da parte delle imprese committenti che dovrebbero invece essere obbligate per legge alla dovuta diligenza sui diritti umani per identificare, prevenire, mitigare e riparare i danni derivanti dagli impatti delle loro attività economiche sulle comunità e sui lavoratori.
Una cosa è certa. Questa crisi offre l’opportunità di ripensare il modello di produzione e consumo patologico che ha inasprito l’attuale catastrofe economica perché non si torni al passato. E’ imperativo usare questo tempo drammatico e fecondo per gettare le basi per una industria più equa, sostenibile e resiliente nei fatti, non solo nelle pagine patinate dei rapporti di sostenibilità o dei codici di condotta unilaterali che popolano i siti delle imprese.
Le grandi firme usano il Covid per licenziare i lavoratori del tessile
di Emanuele Giordana
In Myanmar quattro fabbriche si stanno rapidamente riconvertendo nella produzione di mascherine. Inutile dire che alcune sono della filiera del tessile, una delle industrie chiave nel Paese. E’ uno dei nuovi affari connessi al coronavirus.
Affari sacrosanti (se i prezzi delle mascherine non lievitassero come la pasta del pane) ma che hanno puntato i riflettori sugli effetti che il virus ha su uno dei grandi settori dell’economia globale – il tessile/calzaturiero – che ha in Asia, dal Bangladesh al Vietnam, da Sri Lanka all’India la fucina dove le grandi firme fabbricano a prezzi super convenienti camice e scarpe, pret a porter e magliette della salute. In certi casi l’apparente disastro (la mancanza di materia prima, il crollo della domanda, i divieti sulla logistica) si trasforma persino in manna dal cielo.
Molte aziende in Myanmar hanno approfittato della crisi per chiudere temporaneamente e licenziare sollevando scioperi e proteste in sordina a causa del virus. Ma altre han pensato bene di fallire per riaprire sotto altra forma. In questo modo, denunciano i sindacalisti locali, si licenza senza problemi e si riapre usufruendo dei vantaggi per le start-up. Cosa c’è di meglio di una crisi per ristrutturare il profitto?
L’ondata peggiore della crisi passa dunque soprattutto nei Paesi dove si produce su commissione. Dove la relazione tra aziende e sindacato è fragile e dove le garanzie per chi perde il lavoro sono minime o non ci sono. Due rapporti usciti in marzo han cercato di fare il punto: «Abandoned?» del Center for Global Workers’ Rights e «Who will bail out the Workers that make our clothes?» del Worker Rights Consortium. Mettono in luce gli effetti del Covid-19 sulle catene di fornitura. Lontane da casa.
Marchi e distributori scaricano infatti le conseguenze del calo della domanda sui fornitori. «Le imprese di abbigliamento pagano solo alla consegna, con le fabbriche che sostengono i costi generali e di manodopera. E hanno il potere di decidere di non pagare gli ordini, anche se ciò significa di fatto una violazione contrattuale» spiegano alla Campagna abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign.
Al di là dei furbi e di chi si approfitta della situazione, ciò significa che i proprietari delle fabbriche esecutrici non hanno più liquidità per pagare i salari e che in futuro il quadro potrà solo peggiorare.
Secondo l’associazione dei produttori del tessile (Bgmea) del Bangladesh, ordini per oltre tre miliardi di dollari sono finora stati cancellati. In Thailandia, le fabbriche di abbigliamento continuano invece a funzionare ma gli ordini stanno rallentando. Si teme – preoccupazione diffusa – che alcune fabbriche possano utilizzare il Covid-19 come scusa per chiudere. E con lo stato di emergenza scioperare è impossibile.
Le due ricerche ricordano infine che in buona parte dei Paesi produttori di abbigliamento, i meccanismi di protezione sociale, come l’assicurazione sanitaria o l’indennità di disoccupazione, non esistono o sono insufficienti. Lo stesso vale per i fondi di garanzia in caso di insolvenza.
Non di meno, dicono ad Abiti Puliti, i due dossier sembrano aver sortito un effetto: dopo la loro pubblicazione un certo numero di marchi ha accettato di adempiere ai propri obblighi contrattuali e di pagare gli ordini che le fabbriche avevano già in produzione: H&M, PVH Corp (che possiede Van Heusen, Tommy Hilfiger, Calvin Klein e altre), Inditex (proprietario di Zara) e Target.
Stiamo parlando di un settore – tra tessile, abbigliamento e calzature – che impiega milioni di persone, l’80% donne secondo l’Ufficio internazionale del lavoro: si va dagli oltre 100 milioni dell’India ai 3,6 del Bangladesh dove il tessile è l’industria trainante dell’export. Per saperne di più c’è un blog (cleanclothes.org/news/2020/live-blog) che aggiorna quotidianamente sugli effetti globali del virus nella filiera del tessile/calzature.
Covid-19: cresce l’insicurezza per i lavoratori e le lavoratrici tessili
La pandemia globale di COVID-19 continua a crescere e diffondersi. In questo momento, oltre un terzo della popolazione mondiale è interessato da una qualche forma di lock down o restrizione dei movimenti per controllare l’espansione del virus. I lavoratori tessili nelle filiere globali, già costretti in situazioni di vita precarie, affrontano una crescente insicurezza man mano che le fabbriche chiudono per il calo degli ordini e le misure governative restrittive per proteggere la salute pubblica.
In particolare i lavoratori sono stati colpiti da ciascuna delle tre ondate di questa pandemia. La prima si è verificata quando la Cina ha identificato il COVID-19 nella sua popolazione: smettendo di esportare le materie prime necessarie per la produzione di abbigliamento, ha costretto molte fabbriche nel sud e nel sud-est asiatico a chiudere temporaneamente e rimandare a casa i lavoratori, spesso senza preavviso e salari. La seconda quando il virus è arrivato in Europa e negli Stati Uniti: le aziende della moda hanno annullato gli ordini in corso senza pagarli e molte hanno smesso di effettuarne altri; le fabbriche di fornitori, che operano con margini ridotti a causa dei prezzi troppo bassi, sono state costrette ancora una volta a chiudere e mandare i lavoratori a casa senza paga. L’ultima ondata riguarda la diffusione del virus proprio nei Paesi produttori: alcuni di essi hanno chiuso gli impianti come misura precauzionale, ancora una volta lasciando a casa gli operai senza stipendio; altri hanno deciso di lasciarli aperti, nonostante il significativo rischio per la salute dei lavoratori nelle fabbriche affollate. Ciò accade anche nel segmento a valle della filiera, dove si addensano situazioni di rischio e vulnerabilità per quei lavoratori che nei magazzini processano gli ordini tuttora in corso per i grandi gruppi multinazionali. Come per esempio gli oltre 500 lavoratori e lavoratrici del polo logistico di Stradella, dove ancora sono smistati gli ordini H&M acquistati online, i quali hanno denunciato le gravi inadempienze in materia di sicurezza ai tempi del coronavirus.
Anton Marcus, Sottosegretario del Free Trade Zones & General Services Employees Union, ha dichiarato: “L’impatto del COVID-19 sui lavoratori dell’abbigliamento in Sri Lanka è stato immenso. I lavoratori, tornati nei loro villaggi senza avere percepito i salari di marzo, stanno attraversando un momento molto difficile non riuscendo a sostenere le loro famiglie. I datori di lavoro stanno sfruttando questa situazione per licenziare e ridurre benefici e stipendi dei dipendenti, dando la responsabilità al ritiro o alla riduzione degli ordini dei loro clienti. In questa situazione i lavoratori a contratto saranno i più colpiti”.
In alcuni casi questi effetti sono stati esacerbati dalla cattiva gestione della crisi da parte dei governi nazionali. L’India ha improvvisamente annunciato un blocco nazionale, lasciando i lavoratori migranti domestici senza mezzi di sussistenza o accesso ai trasporti per tornare a casa. Alcuni di essi sono stati costretti a camminare per centinaia di chilometri verso le loro città e i loro villaggi. In altri paesi, come la Cambogia e le Filippine, le misure per combattere il virus stanno limitando ulteriormente lo spazio civico, compresa la libertà dei lavoratori di organizzarsi. In Myanmar gli imprenditori hanno usato la pandemia come pretesto per reprimere il sindacato, assicurandosi che i lavoratori sindacalizzati fossero i primi ad essere licenziati dalle imprese in difficoltà finanziaria.
Due recenti report del Worker Rights Consortium, del Penn State Center for Global Workers’ Rights e della Clean Clothes Campaign “ Who will bail out the worker s that make our clothes?” and “Abandoned? The Impact of Covid-19 on Workers and Businesses at the Bottom of Global Supply Chains” mettono in luce le cause all’origine dei catastrofici effetti del Covid-19 nelle catene di fornitura. L’estrema interconnessione e l’asimmetria di potere tipica delle catene di approvvigionamento ha permesso ai marchi e ai distributori di scaricare le conseguenze del calo della domanda sui fornitori. Le imprese di abbigliamento pagano solo alla consegna – con le fabbriche che sostengono i costi generali e di manodopera – e hanno il potere di decidere di non pagare gli ordini, anche se ciò significa, di fatto, una violazionecontrattuale. Ciò significa che i proprietari delle fabbriche di tutto il mondo sono lasciati senza liquidità per pagare i salari dei lavoratori di marzo e ancora peggio sarà per i mesi a venire, quando nessun ordine probabilmente arriverà. Nella stragrande maggioranza dei paesi produttori di abbigliamento, meccanismi di protezione sociale come l’assicurazione sanitaria, l’indennità di disoccupazione o i fondi di garanzia in caso di insolvenza sono assenti o insufficienti, in parte a causa di decenni di pressione al ribasso sui prezzi pagati dalle imprese committenti. Anni di incapacità di intraprendere azioni significative sui salari hanno lasciato i lavoratori senza risparmi e senza rete.
Dalla pubblicazione di questi due documenti, un piccolo numero di marchi ha accettato di adempiere ai propri obblighi contrattuali e di pagare gli ordini che le fabbriche stavano già producendo: H&M, PVH Corp., che possiede Tommy Hilfiger e Calvin Klein, Inditex, proprietario di Zara, e Target.
Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti afferma: “E’ fondamentale che i marchi in questo momento assolvano i loro obblighi contrattuali e paghino gli ordini effettuati e in molti casi già prodotti. In questa drammatica situazione, è urgente garantire a tutti i lavoratori nelle filiere globali risorse sufficienti a soddisfare i bisogni delle loro famiglie e a sopravvivere alla crisi, a partire dalla corresponsione dei salari e dei benefit dovuti per i mesi in corso. Le imprese multinazionali hanno costruito la loro ricchezza sull’utilizzo di milioni di lavoratori sottopagati in paesi dove non sono presenti le infrastrutture di protezione sociale necessarie a tutelare i lavoratori nei momenti di crisi. Questa crisi deve produrre un cambio strutturale del modello di business, a partire dalla introduzione di meccanismi di regolazione delle filiere global e di norme vincolanti per le imprese, a tutti i livelli”
Le istituzioni finanziarie internazionali si stanno già impegnando a mobilitare miliardi di dollari per sostenere le economie dei Paesi produttori. È fondamentale che tale sforzo includa l’impegno di mettere al primo posto le esigenze dei lavoratori, unitamente a meccanismi che garantiscano che tale sostegno li raggiunga direttamente. I sindacati globali hanno formulato raccomandazioni su come queste istituzioni possano garantire una risposta urgente ed equa alla crisi. È della massima importanza che i lavoratori, nelle fabbriche di produzione, nella logistica e fino alla distribuzione, siano al centro delle soluzioni economiche per superare questa crisi e per garantire che le misure per salvaguardare la salute delle persone non acuiscano invece loro miseria e fragilità
Il Coronavirus e l’industria tessile: cosa succede ora ai lavoratori della grande filiera nei Paesi a basso reddito
di Giada Ferraglioni
Savar, periferia di Dacca, Bangladesh. Nell’aprile del 2013 un edificio commerciale di otto piani viene giù. Il crollo passa alla storia come la tragedia del Rana Plaza: 1.129 operai perdono la vita e 2.515 restano feriti, molti dei quali gravemente. La struttura ospitava gli stabilimenti tessili di grandi marchi commerciali occidentali. A sette anni dalla catastrofe che portò alla luce le condizioni di miseria e sfruttamento su cui si basano le produzioni multinazionali, un’altra emergenza torna a colpire i lavoratori della grande filiera tessile. Come salvare dalla crisi da Coronavirus milioni di persone in tutto il mondo?
Se lo chiedono le Ong. «Quello che successe in Bangladesh fu un caso enorme su cui intervenire», racconta Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna italiana Abiti Puliti (Clean Clothes), che nel maggio del 2013 convinse 220 aziende tessili bengalesi a sottoscrivere l’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici. «Ma era uno. Adesso sta per arrivare un’ondata di richieste di aiuto da ogni parte del mondo. E capire come affrontarla non sarà facile».
La campagna Abiti Puliti è in contatto con tutte le imprese multinazionali (come il marchio H&M) per convincerle a rispettare i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nei vari stabilimenti di produzione, sia nel sud-est asiatico (vero e proprio polmone della produzione), che nel resto del mondo. Ma ora che l’emergenza ha di fatto bloccato gran parte della produzione – o l’ha resa ancora meno sicura e sostenibile di quanto già non fosse -, la campagna è in contatto diretto anche con i lavoratori della filiera attraverso un live blog sul sito internazionale.
Parliamo di 150 milioni di persone che producono beni per l’America del Nord, per l’Europa e per il Giappone, e di altre decine di milioni impiegati nei servizi. Le testimonianze non arrivano solo dal Bangladesh. Arrivano dalla Cambogia, dall’India, dalle Filippine, dal Myanmar, dallo Sri Lanka, dal Pakistan, dalla Malesia, dall’Indonesia. Ma anche da El Salvador in America Latina, o dall’Italia stessa, che, oltre a essere un paese di consumo, è anche attiva sulla produzione: «Ci sono filiere – spiega Deborah – che fanno parte di reti globali di produzione e i quali lavoratori hanno problemi anche nel nostro Paese».
I tre grandi problemi della filiera
Accanto all’emergenza sanitaria alle porte e dei dispositivi di protezione individuale che non esistono (dal distanziamento al rifornimento di mascherine), c’è il problema dei licenziamenti e dell’assistenza sociale. «Ci sono tre questioni enormi – spiega Deborah – La prima, da risolvere nel breve periodo, è quella di non lasciare i lavoratori per strada. Mentre i negozi chiudono e le filiere si congelano, gli accordi presi con i fornitori non vengono onorati. «Se non si pagano gli ordini ai fornitori, immediatamente questi lavoratori rimangono senza stipendi e coperture. Nei Paesi a Basso reddito quasi nessuno ha architetture che prevedono ammortizzatori sociali per imprese e le coperture per i lavoratori. Le imprese chiudono e gli operai si ritrovano a essere mandati casa».
Anche se la pandemia dovesse finire a breve, la certezza che queste fabbriche riaprano non esiste. «Questo è il secondo grande problema: cosa succederà ai lavoratori se gli stabilimenti non riapriranno?», dice Deborah. «La pandemia ha messo a nudo la fragilità di un modello economico basato sulla strozzatura dei costi e sulla non sostenibilità. Ma in questa strozzatura ci sono le persone e le loro vite galleggiano nell’incertezza». Il terzo problema, molto banalmente, sarà capire come si finanzieranno le misure di assistenza richieste dalle Ong, «per fare in modo che non finiscano solo nelle imprese».
La logistica
Il caso del magazzino H&M di Stradella, in provincia di Pavia, dove si sono registrati i primi due casi di contagio da Coronavirus, è un esempio della complessità del fenomeno nell’industria dell’abbigliamento. Lì i lavoratori e le lavoratrici della logistica (altra faccia della filiera tessile) sono impegnate nello smistamento degli ordini dallo store online. «Anche nei magazzini di smistamento dei capi H&M, che potremmo definire prodotti non essenziali, ci sono situazioni di grave rischio», dice ancora Deborah Lucchetti.
Dividere lo sguardo su un problema comune, quindi, sembra essere una strategia sbagliata. «Nel mondo globalizzato siamo tutti connessi», sottolinea. «Non possiamo pensare che l’economia europea sia slegata a quella del Sud e dell’Est del mondo. Se va a bagno quella, noi la seguiamo. Dopo questa pandemia niente sarà come prima – conclude Deborah – potrà andare o molto peggio o molto meglio. Sta a noi agire per il meglio».
La risposta congiunta della società civile allo studio della Commissione Europea sul dovere di vigilanza nella catena di fornitura
Nove organizzazioni e reti della società civile – inclusa la Clean Clothes Campaign – accolgono molto positivamente i risultati dello studio della Commissione Europea sui requisiti di due diligence per la catena di fornitura pubblicato a Febbraio 2020.
REPORT: Impegno per la trasparenza: scopri come si comportano i marchi della moda
Nel 2016, una coalizione di sindacati e organizzazioni della società civile impegnate nella difesa dei diritti umani e dei lavoratori ha dato vita all’Impegno per la Trasparenza (Transparency Pledge), un insieme di requisiti minimi per rendere trasparenti le catene di fornitura dei brand e permettere ad attivisti, lavoratori e consumatori di ricostruire la provenienza dei beni prodotti.
Il rapporto “La prossima tendenza della moda: accelerare la trasparenza di filiera nell’industria dell’abbigliamento e calzature” mostra come, da allora, decine di marchi della moda abbiano deciso di aderire a questa iniziativa, divulgando un numero sempre maggiore di informazioni sulle loro filiere.
La trasparenza è ormai largamente riconosciuta come un passo importante per favorire l’identificazione e la gestione degli abusi sui lavoratori nelle catene di approvvigionamento del settore tessile.
“Non è una panacea, ma è fondamentale per un’azienda che si definisce etica e sostenibile“, ha affermato Aruna Kashyap, consulente senior per i diritti delle donne di Human Rights Watch. “Tutti i marchi dovrebbero essere trasparenti: per questo sono necessarie leggi che impongano la trasparenza insieme a pratiche che garantiscano il rispetto dei diritti umani”
La coalizione ha finora contattato 74 aziende1chiedendogli di pubblicare le informazioni richieste dal Transparency Pledge: di queste 22 hanno aderito pienamente2, 31 solo in parte, 21 quasi per nulla3. Alle 22 virtuose, se ne sono aggiunte altre 17 di loro spontanea iniziativa4.
La trasparenza è importante per costringere le aziende ad assumersi le proprie responsabilità. È la garanzia che il marchio è a conoscenza di tutte le fasi di produzione dei suoi beni, consentendo ai lavoratori e agli attivisti da una parte di allertarlo in caso di violazioni, dall’altro di accedere rapidamente a tutti gli strumenti di rivalsa per gli abusi subiti.
Non possiamo però affidarci solo alla buona volontà delle imprese. Più efficaci sarebbero norme nazionali specifiche per imporre alle aziende la due diligence in tema di diritti umani lungo le loro catene di fornitura, obbligandole innanzitutto alla pubblicazione delle informazioni relative alle fabbriche in cui si riforniscono.
Dalla metà del 2018, la stessa coalizione è impegnata con sette Iniziative per il business responsabile (Responsible Business Initiatives – RBIs), per cercare di indirizzare le loro pratiche di business verso modelli etici e promuovere la trasparenza delle filiere tra i loro membri. Ma non essendoci obbligatorietà nella pubblicazione delle fabbriche fornitrici, i comportamenti degli aderenti a questi gruppi variano molto: per questo la coalizione ha chiesto a queste Iniziative di giocare un ruolo determinante, imponendo a chi volesse diventare loro membro, come condizione vincolante per l’adesione, almeno la pubblicazione delle informazioni richieste dall’Impegno per la trasparenza.
“Non è più accettabile che iniziative volte a promuovere un business responsabile e pratiche aziendali più etiche non impongano la trasparenza alle aziende quale requisito minimo di affiliazione” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice delle Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. “L’accesso pubblico alle informazioni minime sulle catene di fornitura previste dall’Impegno per la Trasparenza è vitale per consentire ai lavoratori e agli attivisti di identificare e contrastare gli abusi nelle fabbriche”.
Così ad esempio ha fatto l’iniziativa americana Fair Labor Association. A novembre ha annunciato l’obbligo per tutti i suoi aderenti di pubblicare le informazioni sulle loro catene di fornitura in linea con lo standard del Transparency Pledge e renderle disponibili in un formato aperto e accessibile entro il 31 marzo 2020. L’organizzazione ha stimato che più di 50 marchi e distributori dovranno adeguarsi a questo obbligo e che da aprile 2020 potrebbero essere soggetti a una speciale revisione in caso di inadempienza.
Il Dutch Agreement on Sustainable Garments and Textiles (AGT) non ha reso l’obbligo di trasparenza un requisito di adesione ma ha chiesto ai suoi membri di fornire le informazioni al suo segretariato che a sua volta le pubblicherà attraverso l’Open Apparel Registry, un database facilmente accessibile che fornisce informazioni sull’affiliazione delle fabbriche ai marchi e alle Iniziative per il business responsabile.
La United Kingdom Ethical Trading Initiative e la Fair Wear Foundation hanno adottato misure incrementali per migliorare la trasparenza dei loro membri. La Sustainable Apparel Coalition, amfori, e la German Partnership on Sustainable Textiles non hanno invece fatto nulla per legare la trasparenza ai requisiti di affiliazione.
“I governi possono giocare un ruolo fondamentale emanando la legislazione necessaria ad imporre alle aziende la due diligence in materia di diritti umani lungo le loro catene globali di fornitura e la trasparenza su dove vengono realizzati i loro prodotti“, ha affermato Bob Jeffcott, analista politico presso il Maquila Solidarity Network. “Tali norme sono fondamentali per creare condizioni di parità tra le imprese e per proteggere i diritti dei lavoratori“.
——-
1 Per maggiori informazioni sulle 74 aziende contattate dalla coalizione e le altre aziende che hanno aderito al Pledge o si sono impegnata a farlo:
https://airtable.com/shrycG3Ylj9wFY2lH/tbljLFp4O3qk0dmVN/viwqDL8ndd3XgcpyK?blocks=bipTM9f7Xn4HdfnXs
2 adidas, ASICS, ASOS, Benetton, C&A, Clarks, Cotton On, Esprit, G-Star RAW, H&M, Hanesbrands, Levi Strauss, Lindex, Mountain Equipment Co-op, New Balance, New Look, Next, Nike, Patagonia, Pentland Brands, PVH Corporation, and VF Corporation.
31 imprese si sono impegnate a pubblicare almeno la lista e l’indirizzo dei loro fornitori ma sono ancora lontane dallo standard previsto dall’Iniziativa per la Trasparenza. Si tratta di: ALDI North, ALDI South, Amazon, Arcadia Group, Bestseller, Coles, Columbia, Debenhams, Disney, Fast Retailing, Gap, Hudson’s Bay Company, Hugo Boss, John Lewis, Kmart Australia, Lidl, Marks and Spencer, Matalan, Mizuno, Morrisons, Primark, Puma, Rip Curl, Sainsbury, Shop Direct, Target Australia, Target USA, Tchibo, Tesco, Under Armour, Woolworths, e Zalando.
3 Di queste:
- 18 aziende non hanno ancora pubblicato alcuna informazione
American Eagle Outfitters, Armani, Canadian Tire, Carrefour, Carter’s, Decathlon, Dicks’ Sporting Goods, Foot Locker, Forever 21, Inditex, KiK, Mango, Ralph Lauren, River Island, Sports Direct, The Children’s Place, Urban Outfitters, e Walmart. - 2 aziende hanno pubblicato solo i nomi delle aziende e i Paesi in cui operano:
Abercrombie & Fitch e Loblaws - 1 azienda si è impegnata a pubblicare i nomi e i Paesi nel 2020:Desigual
4Alchemist, Dare to Be, Eileen Fisher, Fanatics, Fruit of the Loom, HEMA, KappAhl, Kings of Indigo, Kontoor Brands, Kuyichi, Lacoste, Lululemon Athletica, Okimono, Schijvens, Toms, We Fashion e Zeeman. Gildan ha cominciato a pubblicare dei dati ma è ancora lontana dallo standard previsto dall’Iniziativa per la Trasparenza