Originalmente pubblicato il 9 aprile 2020 su Brasil De Fato.
Paolo Alentejano è professore del Dipartimento di Geografia della Facoltà de Formazione di insegnanti dell’Università dello Stato di Rio de Janeiro e del Programma post laurea in Sviluppo Territoriale per l’America Latina e i Caraibi dell’Università Statale Paulista–TerritoriAL/Unesp, in collaborazione con la Scuola Nazionale “Florestan Fernandes” del MST. Fa parte del Gruppo de lavoro sulle tematiche agricole dell’Associazione dei geografi brasiliani (sezioni di Rio de Janeiro e Niterói).
In un breve testo del lontano anno 1998, intitolato Riforma agraria per risolvere la crisi urbana (ALENTEJANO, 1998), argomentavo a proposito del caos urbano caratteristico delle nostre grandi metropoli – Rio e San Paolo in particolare – e del contributo che la riforma agraria avrebbe potuto dare alla riorganizzazione territoriale della società brasiliana e alla costruzione di una società più giusta, democratica e rispettosa dell’ambiente. In questi tempi di pandemia e di reclusione è inevitabile ricordare questo testo.
Il centro dell’argomentazione all’epoca era la questione della lotta alla disoccupazione e alla miseria proprie delle nostre metropoli, di fronte «all’incapacità della società urbano-industriale, basata sulle moderne tecnologie dell’informatica e della robotica, di includere l’enorme contingente di lavoratori che ora abitano nelle periferie delle città» (ALENTEJANO, 1998: 2).
Sostenevo inoltre che «un’ampia riforma agraria avrebbe potuto invertire questa situazione, offrendo alloggi, lavoro e cittadinanza a questa massa di sfruttati ed esclusi» (ALENTEJANO, 1998: 2). E definivo questa riforma agraria come la costituzione di comunità rurali in cui si svolgessero allo stesso tempo attività agricole e non agricole, occupando i milioni di ettari sotto il controllo del latifondo: «per trovare una soluzione alla crisi che si vive nelle città brasiliane e per costruire una società più giusta e democratica è necessario ricorrere all’immensa riserva di terre inutilizzate o mal utilizzate dai proprietari terrieri brasiliani (e stranieri) per il massiccio insediamento di lavoratori rurali e urbani, offrendo loro adeguate infrastrutture, sostegno alla produzione agricola e non agricola e condizioni per il libero esercizio della loro cittadinanza. Questo sarebbe l’inizio di un processo di rivoluzione nella nostra organizzazione sociale e territoriale» (ALENTEJANO, 1998: 4).
Credo che l’argomento rimanga pienamente valido, dopotutto, da allora il caos urbano nelle nostre metropoli è solo aumentato, così come la disoccupazione e la miseria (sebbene negli anni 2000 ci sia stato un calo della disoccupazione e della miseria, sono cresciuti di nuovo negli ultimi dieci anni). Rimane inoltre valido in relazione alla persistenza del controllo del latifondo sulle terre brasiliane e al suo basso tasso di sfruttamento, nonostante i cambiamenti nel campo derivanti dall’espansione del settore agroalimentare (allenaza tra latifondo e grande capitale agroindustriale nazionale e transnazionale, con il supporto politico ed economico dello Stato e con il supporto ideologico dei media).
Ma l’attuale crisi generata dalla pandemia del Covid-19 ci consente di andare oltre ciò che ho detto nel 1998 e ampliare questa discussione con le critiche al modello agroalimentare dominante.
Numerosi studi hanno indicato l’insostenibilità dell’attuale sistema agroalimentare basato sulla produzione su larga scala di un piccolo numero di specie vegetali e animali, sotto forma di vaste monocolture e la produzione di animali confinati in “fabbriche proteiche”.
Secondo Altieri e Nicholls (2020: 1-2), le grandi monocolture occupano l’80% degli 1,5 miliardi di ettari dedicati all’agricoltura in tutto il mondo e per tenere sotto controllo i parassiti che si moltiplicano in questi campi con bassa diversità ecologica e alta omogeneità genetica sono utilizzati 2.300 milioni di kg di pesticidi all’anno, con conseguente avvelenamento di 26 milioni di persone da parte di pesticidi in tutto il mondo ogni anno.
Silvia Ribeiro, a sua volta, afferma che ci sono tre cause concomitanti e complementari che hanno prodotto la proliferazione delle principali epidemie degli ultimi decenni, come l’influenza aviaria, l’influenza suina e la pandemia del nuovo coronavirus:
«La causa principale è l’allevamento industriale ed estensivo, principalmente di polli, tacchini, maiali e mucche.
A ciò si aggiunge il contesto generale dell’agricoltura industriale, in cui il 75% delle terre agricole dell’intero pianeta viene utilizzato per la creazione di grandi allevamenti di animali, cioè principalmente per la creazione di pascoli. Il terzo è la crescita incontrollata dell’area urbana e delle industrie che la alimentano e che vi sussistono» (RIBEIRO, 2020: 1)
La creazione di agglomerati di migliaia di animali confinati in piccoli spazi è una fonte inesauribile di moltiplicazione di malattie, alcune delle quali circolano tra loro, ma altre finiscono, attraverso mutazioni, per saltare dagli animali agli umani, come sostengono anche Altieri & Nicholls:
«Le grandi proprietà che hanno decine di migliaia di uccelli o migliaia di maiali, in nome di una produzione efficiente di proteine, creano un’opportunità per i virus come l’influenza di mutare e diffondersi. Più di 50 milioni di polli e tacchini negli Stati Uniti sono morti per l’influenza aviaria. Le pratiche in queste operazioni industriali (confinamento, esposizione respiratoria ad alte concentrazioni di ammoniaca, acido solfidrico, ecc. che provengono dai rifiuti) non solo rendono gli animali più sensibili alle infezioni virali, ma possono fornire le condizioni in cui gli agenti patogeni possono evolversi in virus più contagiosi e infettivi» (2020: 2).
D’altra parte, la crescita di questo tipo di allevamento di animali richiede la deforestazione di aree sempre più estese per l’espansione di piantagioni di colture come soia e mais che servono come base per la produzione di alimenti per animali. Queste colture, a loro volta, hanno il loro impatto, poiché sono prodotte con un uso intensivo di derivati di combustibili fossili, pesticidi e acqua. Questo modello agroalimentare rende anche povera la dieta delle persone.
«Un’altra conseguenza sulla salute pubblica dell’intensificazione dell’agricoltura è stata la diminuzione della diversità delle colture nei paesaggi agricoli. Sebbene gli esseri umani possano mangiare oltre 2.500 specie di piante, la dieta della maggior parte delle persone è costituita da tre colture principali, come grano, riso e mais, che forniscono oltre il 50% delle calorie consumate in tutto il mondo» (ALTIERI e NICHOLLS, 2020: 3).
L’espansione di queste grandi monoculture avviene, spesso, introducendo colture agricole e allevamenti in aree non ancora sfruttate, molte volte in foreste abitate tradizionalmente da popolazioni indigene e contadine che finiscono per esserne espulse.
«[Queste espansioni] sono la causa della deforestazione e della distruzione degli habitat naturali in tutto il mondo, un fatto che implica anche l’espulsione delle comunità indigene e contadine che vivono in queste aree. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), in tutto il mondo, l’espansione della frontiera agricola è responsabile del 70% della deforestazione, ma in paesi come il Brasile, questa espansione è responsabile dell’80% della deforestazione» (RIBEIRO, 2020: 1).
L’avanzamento della deforestazione, a sua volta, porta gli animali selvatici che abitavano le foreste a spostarsi in altre aree, comprese le aree urbane, diventando anche vettori per la diffusione di malattie. Secondo Altieri e Nicholls (2020: 3) «un aumento del 4% della deforestazione in Amazzonia ha aumentato l’incidenza della malaria di quasi il 50%».
«I virus possono passare da una specie all’altra e sebbene possano provenire da specie selvatiche di uccelli, pipistrelli e altri, è la distruzione degli habitat naturali che li spinge fuori dalle loro aree, dove i ceppi di virus erano controllati all’interno della propria popolazione. Da lì si spostano nelle zone rurali e poi nelle città». (RIBEIRO, 2020: 2)
Città, queste, principalmente le più grandi, dove una parte crescente del cibo viene fornita dalle stesse agro-industrie che, come abbiamo visto sopra, sono fabbriche di malattie. Oltre a produrre alimenti che causano altri gravi problemi di salute:
«Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, il 72% dei decessi in tutto il mondo sono causati da malattie non trasmissibili, molte delle quali direttamente correlate al sistema alimentare agroalimentare, come malattie cardiache, ipertensione, diabete, obesità, cancro all’apparato digerente, malnutrizione» (RIBEIRO, 2020: 2)
Altieri e Nicholls richiamano l’attenzione sul fatto che il sistema alimentare globalizzato indebolisce i paesi in un contesto di mobilità limitata come quella di una pandemia. In una congiuntura simile, l’accesso al cibo è particolarmente critico per le città con oltre 5 milioni di abitanti che «hanno bisogno di importare non meno di 2.000 tonnellate di cibo al giorno, coprendo una media di 1.000 chilometri» (Altieri e Nicholls, 2020: 4).
Pertanto, è urgente e necessario convertire questo modello agroalimentare verso un’agricoltura decentralizzata e agroecologica e ciò è possibile solo con una riforma agraria globale che moltiplichi le piccole unità di produzione di alimenti sani. Come dice il sociologo argentino Miguel Teubal:
«[…] la lotta per la terra e la riforma agraria, tra la fine del XX secolo e il nuovo millennio, non è altro che la lotta contro il modello di agricoltura industriale o agroalimentare guidato da queste transnazionali che dominano le tecnologie di punta, i canali di marketing alimentare, le grandi industrie alimentari, nonché la produzione di semi e prodotti transgenici. Quindi la lotta per la terra è la lotta contro una nuova classe diminante emersa su scala mondiale, che agisce su molteplici aspetti che incidono sulla terra e sul sistema agroalimentare nel suo insieme. Ed è anche una lotta contro la cultura prodotta da questo gruppo di interesse legato al mercato e alla mercantilizzazione della vita stessa» (TEUBAL, 2009: 226/227).
La costruzione di una riforma agraria agroecologica è un punto fondamentale nell’agenda del Movimento dei lavoratori rurali senza terra (MST) e in quella di altri movimenti sociali contadini. Non si tratta solo di cambiare il modello tecnico dominante con il rifiuto dei pesticidi, ma di costruire altre pratiche produttive, altre forme di commercializzazione, altri rapporti di lavoro, altre relazioni società-natura che superino la frattura metabolica stabilita dal capitale.
«L’agroecologia propone di ripristinare i paesaggi che circondano le proprietà rurali, il che arricchisce la matrice ecologica e i suoi servizi, come il controllo naturale dei parassiti, la conservazione del suolo e delle acque, ecc., Ma crea anche “focolai ecologici” che possono aiutare nell’impedire ai patogeni di sfuggire ai loro habitat» (ALTIERI e NICHOLLS, 2020: 4).
Gli autori sostengono inoltre che l’agroecologia sarebbe in grado di produrre localmente «gran parte del cibo necessario alle comunità rurali e urbane, in particolare in un mondo minacciato dai cambiamenti climatici e da altri disturbi, come le pandemie». (Altieri & Nicholls , 2020: 5).
Sottolineano anche l’importanza del ruolo dei consumatori che devono capire che mangiare è un atto politico ed ecologico. Ecco perché devono sostenere lo sviluppo dei mercati locali e regionali regolati dai principi dell’economia solidale.
Questo è il significato delle azioni sviluppate dall’MST, come la moltiplicazione delle fiere di riforma agraria negli Stati e lo svolgimento della Fiera nazionale della riforma agraria, a San Paolo, già alla sua terza edizione. Spazi in cui non solo si vende direttamente la produzione degli insediati, ma si discutono anche la riforma agraria e l’agroecologia. Proprio come avviene negli Armazéns do Campo che hanno aperto a San Paolo, Belo Horizonte, Rio de Janeiro, Recife, Caruaru, Porto Alegre, São Luís… spazi in cui cibo sano si mescola con musica, poesia e politica.
Anche nelle scuole degli insediamenti, l’agroecologia è diventata un riferimento pedagogico per l’educazione rurale, cioè l’educazione pensata per e dalle popolazioni delle campagne, per le loro lotte, la loro cultura, le loro forme di organizzazione sociale. L’agroecologia è stata inserita nei curricula delle escolas do campo come disciplina specifica (ad esempio nello stato di Bahia) o come argomento trasversale (ad esempio nelle scuole rurali itineranti nello stato di Paraná).
Pertanto, il MST ha rinnovato il dibattito sulla riforma agraria in Brasile, articolandolo con l’educazione, la cultura, l’ecologia. Dopo tutto, come ci ricorda Miguel Carter:
«L’attuale dibattito in Brasile sulla riforma agraria tocca temi che vanno al di là della questione della terra e dello sviluppo rurale. Le questioni a portata di mano sollevano problemi più profondi per la società brasiliana. All’alba del XXI secolo, la riforma agraria rimane parte di un dibattito complesso e controverso sul futuro del Brasile: le sue promesse e i suoi bisogni, le sue paure e i suoi sogni» (CARTER, 2010: 71).
Pertanto, è necessario coordinare la lotta dei movimenti sociali rurali con quelli urbani per costruire una riforma agraria che possa e debba far parte di una strategia politica volta a combattere la disuguaglianza, la miseria, la disoccupazione, il caos urbano e la/le pandemia/e, contribuendo a superare l’attuale modello agroalimentare, per costruire un’altra società in cui la vita valga più degli interessi del capitale.
Le nostre grandi metropoli sono spazi ingestibili, segnati da profonde disuguaglianze, con traffico caotico, mancanza di strutture igienico-sanitarie, isole di calore e inquinamento, ambienti più che favorevoli alla diffusione di epidemie e pandemie legate ai più diversi agenti infettivi.
La deconcentrazione spaziale della popolazione brasiliana attraverso una vasta riforma agraria agroecologica consentirebbe di combattere tutti questi problemi allo stesso tempo. Non vi è carenza di terra per questo, dopo tutto ci sono 247,7 milioni di ettari in Brasile sotto il controllo del latifondo, di cui 175,9 milioni di ettari di terra non produttiva. Ci sono ancora 61,4 milioni di ettari nel paese dedicati alla produzione di canna da zucchero, mais e soia, la maggior parte nella logica agroindustriale. D’altro canto, l’area coltivata con alimenti di base (riso, fagioli e manioca) è diminuita di 5 milioni di ettari negli ultimi 30 anni.
Questo scenario deve essere invertito e solo la riforma agraria agroecologica può farlo. Prima che la fame, la miseria e la malattia, generate da questo folle modello agroalimentare dominato dalle grandi società agro-alimentari, siano ulteriormente amplificate.
Riferimenti bibliografici
ALENTEJANO PAULO, Reforma agrária para resolver a crise urbana, AGB em Debate, AGB, 1998.
ALTIERI MIGUEL A. – NICHOLLS, CLARA I. La agroecología en tiempos del COVID-19, Califórnia, 2020 (disponível em https://www.alainet.org/)
CARTER MIGUEL, Desigualdade social, democracia e reforma agrária no Brasil, in CARTER M. (org.) Combatendo a desigualdade social: o MST e a reforma agrária no Brasil, São Paulo, Editora Unesp, 2010.
RIBEIRO, SILVIA, Os latifundiários da pandemia, ETC, México, 2020 (disponível em https://www.alainet.org/)
TEUBAL MIGUEL, La lucha por la tierra en América Latina, in GIARRACA N. – TEUBAL M. (coords.), La tierra es nuestra, tuya y de aquél: las disputas por el territorio en América Latina, Buenos Aires, Antropofagia, 2009.