«Se cerchiamo di pensare quali siano le relazioni adeguate dell’essere umano con il mondo che lo circonda, emerge la necessità di una corretta concezione del lavoro, perché, se parliamo della relazione dell’essere umano con le cose, si pone l’interrogativo circa il senso e la finalità dell’azione umana sulla realtà. Non parliamo solo del lavoro manuale o del lavoro della terra, bensì di qualsiasi attività che implichi qualche trasformazione dell’esistente» scrive papa Francesco nella Laudato Sì e aggiunge: «Qualsiasi forma di lavoro presuppone un’idea sulla relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sé».
Se l’angosciante estendersi della pandemia ci costringe a bandire dalle nostre relazioni ogni fisicità per un lasso di tempo che il progredire della ricerca scientifica renderà più o meno lungo, nondimeno – con il paradosso “dell’apparizione di un virus invisibile” – siamo costretti a lasciare da parte per sempre la presunzione che la comunità umana sulla Terra, a 14 miliardi dalla formazione dell’Universo, potesse disporre di riprogettare la biosfera e l’evoluzione della specie alla guisa di un manufatto ben congegnato. In effetti, la persistenza del contagio ci richiama a quella “selvatichezza” che conferma ad ogni occasione la complessità, l’autonomia e l’incontrollabilità dei meccanismi con cui muta e si tiene in vita l’ambiente con cui conviviamo.
Negli ultimi cinque anni papa Francesco prima e gli studenti poi hanno con lucidità provato ad ammonirci che una eccessiva capacità trasformativa del lavoro umano e un esorbitante consumo avrebbero esizialmente accelerato il cambiamento climatico. Il conflitto tradizionale fra lavoro e capitale per la giustizia sociale avrebbe dovuto così armonizzarsi con la cura del Pianeta e con la salute del vivente. L’ecatombe di operai e anziani della Val Seriana e nelle case di cura private della Lombardia sta a dimostrare come questo orizzonte sia sbarrato quando il profitto viene prima delle persone e il lavoro è trattato come una merce, che sta in attesa di una riapertura quanto prima. Date queste premesse, toccherà al lavoro presentarsi come protagonista assoluto nella lunga coda che si presenterà sulla via d’uscita da questa drammatica vicenda. Il lavoro sarà quello di tutti, dai migranti che si spezzano la schiena sulla terra dove si trovano i raccolti i cui frutti riempiranno i nostri supermercati fino all’opera dei ricercatori più raffinati che cercheranno di venire a capo della matassa della malattia invisibile.
Ma proprio il senso e la finalità del lavoro andranno ridefiniti prima della ripresa della “normalità”. Oggi è ancor più scossa la visione antropocentrica che ha suggerito una concezione dell’essere umano come homo faber, capace di trasformare la Terra con il proprio lavoro per adattarla e subordinarla alle proprie esigenze, fino a potenziare le proprie capacità produttive con strumenti tecnologici e sistemi organizzativi sempre più complessi, che sono entrati in conflitto con l’equilibrio dell’ecosfera e hanno separato il lavoro dal suo senso relazionale. Il lavoro produttivo (di valore, cioè di merci e denaro) indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge e dai beni che crea o trasforma, ha così contribuito, assieme alla fede nello sviluppo tecnologico, a scindere i suoi destini da quelli dell’ecosfera terrestre al punto da mettere in pericolo le basi stesse della propria esistenza. Riallineare tempo fisico e tempo biologico, tempo produttivo e tempo proprio, spetterà per gran parte a quelli che vedono svanire diritti universali – come la pace e la salute – quando sono messi al lavoro, fonte spesso di moltiplicazione delle solitudini, di precarizzazione, che hanno offuscato la coscienza di un interesse comune, dentro e fuori i luoghi della produzione. Autisti a chiamata su piattaforme digitali, rider che effettuano consegne in bicicletta, persone “affittate” a ore per i servizi più vari, lavoratori reclutati al bisogno su Internet, operai “cottimizzati” a domicilio per svolgere microcompiti remunerati pochi centesimi, lavoratori dell’intelletto che svolgono mansioni specializzate in concorrenza al ribasso sulle tariffe: non appena si alzi il tappeto della retorica dell’impresa appare uno scenario di solitudini e di dissoluzione della dignità del lavoro. Non tutto e ovunque è così, ma il coronavirus ha messo maggiormente in evidenza le zone buie del sistema di produzione e di consumo, diffuso a macchie sparse anche a fianco delle fasce protette e di diritti riconosciuti.
Ci si accorge che le persone non autonome, come bambini, anziani, malati, disabili – ma anche le persone produttive che vedono il lavoro domestico come un’eccedenza da delegare – necessitano di quella forma di assistenza e tutela individuale chiamata “lavoro di cura”: un’attività considerata non produttiva, largamente misconosciuta benché abbia come oggetto i bisogni primari e che viene svolta in misura prevalente da donne in famiglia o affidato a persone estranee in condizione di precarietà e ricattabilità e che hanno lasciato la propria famiglia altrove.
Le cose che questo passaggio d’era ci permette di vedere e il modo in cui vengono interpretate e valutate determineranno il futuro della civiltà in cui viviamo. A differenza di altre apparizioni, queste sono tremendamente reali e sono qui per restare, perché toccano qui e ora la vita e la morte individuale come non mai.
Negli anni ’70, la conquista di un sistema sanitario nazionale universale aveva radicalmente modificato i rapporti tra fabbrica e medicina, tra ricerca e prevenzione, fra territorio e operatori sanitari. Queste connessioni si sono via via allentate man mano che i pubblici poteri hanno optato per la convenienza economica, venendo meno ai compiti loro assegnati dalla Costituzione ai fini della garanzia dei diritti fondamentali della persona umana e del suo pieno sviluppo. Così la salute è lentamente slittata nelle braccia del mercato e ne è nata una percezione limitata alla cura, isolata dalla prevenzione e, di conseguenza, differenziata sulla base di presunte “eccellenze” in competizione sul territorio nazionale.
Il mondo del lavoro è stata la prima vittima di questo “slittamento”. D’altra parte, la tragedia in corso ha messo in luce un atteggiamento di tutti gli operatori, interni al sistema ed esterni (no profit e volontariato) di estrema generosità, disponibilità e competenza che ritengo frutto del substrato valoriale e culturale del sistema sanitario come era stato concepito prima dell’esposizione al profitto. Si è palesato un recupero identitario della vecchia missione di servizio solidaristico verso la forma più acuta di debolezza sociale, quella della malattia. Si sta riscoprendo una medicina umanizzata, perché l’uomo è dotato, oltre che di corpo, anche di psiche e spirito.
Ora bisogna impedire che le cifre della contabilità abbiano il sopravvento sul tragico computo di chi è caduto. E qui, a mio giudizio, di nuovo, come negli anni ‘70, occorre che il lavoro riesca a cambiare il suo registro interno, nonostante un’opinione pubblica sviata da un’informazione ossessionante su numeri senza volto, che non tiene conto delle persone in carne ed ossa nelle industrie, nell’agricoltura, nei servizi con cui si dovrà costruire/ricostruire. Non deve stupire che in questo clima sia passata sotto silenzio la lettera unitaria dei sindacati industriali di Italia, Germania e Spagna inviata a Ursula von der Leyden per andare oltre le misure da lei annunciate e per contribuire a «una Europa forte per i nostri membri e per tutti i lavoratori delle fabbriche, dei laboratori e degli uffici dell’Unione, che lanci un segnale di solidarietà e di coesione». Un atto straordinario, che nella mia esperienza sindacale non era mai accaduto, eppure occultato. In effetti, troppo poche voci riflettono sulla necessità di programmare la produzione magari in senso sovranazionale e di un ritorno ad un welfare universalistico che comprenda anche la necessità di proporre il “senso del limite”. Ci dobbiamo quindi chiedere: come sarà elaborato domani il concetto di utilità pubblica? Sono domande dalla cui risposte potrà dipendere l’indirizzo della possibilità di fondare/rifondare la nostra civiltà e che vanno poste da subito con grande chiarezza. Questo è particolarmente vero per la politica, che dovrebbe essere il mediatore tra ideologie, bisogni e aspirazioni dei cittadini, ma ha invece evitato quel ruolo. Qualunque sia la mediazione ancora lasciata in essa, sembra purtroppo non andare oltre bisogni e alle aspirazioni dei mercati.
Bisogna salvare le vite e il lavoro, convinti che la sicurezza è innovazione e pertanto non può non essere un processo di partecipazione in cui coinvolgere le organizzazioni sindacali per cambiare da subito l’organizzazione e la finalità del lavoro.
La riconversione ecologica delle produzioni industriali e agricole diventa così valore sociale e salvaguardia della convivenza tra umano e naturale. Riportare la produzione al servizio della vita significa far emergere un nuovo protagonismo di tutti gli attori – lavoratori, impresa, sindacato, territorio – all’interno di un quadro di politiche macroeconomiche rispettose di stringenti clausole sociali e ambientali a scala globale e contemporaneamente territoriale in tutti i segmenti delle filiere produttive.
Per concludere accenno a una rivendicazione che potrebbe sembrare estranea al contesto dell’emergenza. La riconversione del sistema capitalista globalizzato non può prescindere dal fatto che l’enorme “dividendo” ottenuto a spese della natura e del lavoro nell’organizzazione della produzione su nuove scale temporali e spaziali andrà restituito alla natura salvaguardando la qualità dell’ambiente e distribuito tra i lavoratori con una riduzione generalizzata, politicamente sostenuta, dell’orario di lavoro a parità di retribuzione. La leva del lavoro si saprà così mobilitare per il clima. la cura della Terra e la giustizia sociale.