Ho letto e riletto la nota dei Vescovi italiani fatta circolare la sera di domenica 26 aprile scorso, subito dopo le comunicazioni in TV del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. E continua a suscitarmi sensazioni e sentimenti, tra l’incomprensione e una certa malinconia.
Incomprensione
Come è possibile che si sia passati, in due mesi, dalle espressioni del 24 febbraio allorchè la Presidenza della CEI avvertiva “il dovere di una piena collaborazione con le competenti Autorità dello Stato e delle Regioni per contenere il rischio epidemico”, tanto da dichiarare una “disponibilità” che “al riguardo intende essere massima nella ricezione della disposizioni emanate”, alle dichiarazioni del 26 aprile che considerano “arbitraria” la decisione del Presidente del Consiglio di continuare ad escludere “la possibilità di celebrare la messa con il popolo”, dopo alcune “settimane di negoziato” tra la CEI e il Governo? Fino a dichiarare addirittura la presenza di una situazione che vede “compromesso l’esercizio della libertà di culto”? Espressione che appare abnorme davanti ad una serena constatazione delle diffuse pratiche religiose e cultuali presenti nel Paese.
Certo, nel frattempo, era stata decretata la sospensione delle “cerimonie religiose” che includeva “le Sante messe”: decisione questa accolta con “sofferenza e difficoltà” prima (nota CEI dell’otto marzo), con “rammarico e disorientamento” poi (nota CEI del dieci marzo); accettata comunque “per contribuire alla tutela della salute pubblica”.
E sempre nel frattempo la CEI interloquiva con il Governo perché nella predisposizione della Fase 2 potessero essere previste aperture e possibilità di partecipare al culto “nel pieno rispetto di tutte le norme sanitarie”, mentre decideva e organizzava con sollecitudine nelle varie Diocesi e articolazioni della Chiesa italiana iniziative di sostegno economico e di vicinanza fraterna nel tessuto vivo di povertà nuove e antiche. Quelle aperture, comunque, così come probabilmente proposte al Governo, non sono state disposte. E pur in presenza di legittimi dubbi e perplessità si tratta comunque di cercare di capirne i motivi e di esaminarli, nella consapevolezza che la responsabilità politica della tutela della salute appartiene precipuamente al Governo nazionale e ai Governi regionali, salute considerata dall’art. 32 della Costituzione “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
Si tratta di aperture valutate dal Comitato Scientifico, dal Governo e dal Presidente Conte per niente o poco compatibili con la salute pubblica? Potrebbero costituire un rischio rispetto ad un controllo prevedibilmente più efficace della pandemia? E non urge dare segnali di responsabilità dal sapore profetico perché il diritto alla vita sia considerato e vissuto come primario e non sia subordinato alla logica del rapporto costi/benefici, mentre sono in corso i tentativi di risposta indicati dal Comitato scientifico e regolati dai decreti governativi, tra l’altro in continuo aggiornamento sull’onda di un evento ancora drammatico? E se la corsa a inseguire questa logica diventa sempre più coinvolgente, non dovrebbe la comunità cristiana porsi come riserva di concreta umanità e indicare così le ragioni e le vie di un’altra logica?
E mentre il Presidente Conte e il suo Governo continuano a cercare qualche soluzione per le prossime settimane e i prossimi mesi Papa Francesco la mattina del 28 aprile ha dato una indicazione correttiva: “In questo tempo nel quale si incomincia ad avere disposizione per uscire dalla quarantena preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la Grazia della prudenza e obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni”.
Una certa malinconia
La nota della CEI del 26 aprile sembra essere attraversata da un filo di risentimento prima di tutto nei confronti di quelle Istituzioni, dalle quali non si è stati presi seriamente in considerazione; e si estende poi a “tutti” coloro che non riescono a comprendere il significato e il servizio della Chiesa.
E si ha la sensazione che emerga sotto traccia la richiesta di riconoscimento del valore di un “impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza”; mentre nello stesso tempo si chiede “a tutti” di aver “chiaro” che all’origine di questo impegno c’è “una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. Una chiarezza che rischia però di farsi astratta quando tende ad allontanarsi dalla durezza e dalla ricchezza, pur ambivalente, dei fatti, a partire da quelli accaduti e che accadono in queste settimane. Ad ascoltare alcune testimonianze, semplici ed essenziali, di coloro che vivono sulla frontiera, si avverte come l’eco del “velo del Tempio” che continua però a venire giù: quel velo di separazione tra il sacro e il profano, segno delle tante separazioni e muri che continuiamo a costruire.
Non so dove nascono le testimonianze umanissime di servizio di coloro che dichiarano di non avere una vita di fede, o pur avendola non si nutrono alle sorgenti della vita sacramentale. Probabilmente lo Spirito continua a soffiare dove e come vuole; e certe volte inciampiamo negli stessi fili che utilizziamo nel tentativo di recintarlo. Uno di questi, che sembra agire sotto la superficie, si manifesta attraverso quel riflesso condizionato segnato dalla nostalgia, più o meno consapevole, di una società ierocratica.
Mentre Papa Francesco continua a ricordare, come ha fatto di recente a Bari, che “il Vangelo innalza l’asticella dell’umanità”.
29 aprile 2020