La Chiesa italiana è scossa per le notizia, uscita in questi giorni con grande clamore sulla stampa nazionale, dell’allontanamento, deciso dalla Santa Sede, di Enzo Bianchi dalla Comunità di Bose. Comunità fondata da lui subito dopo il Concilio Vaticano II. Un caso clamoroso. Cerchiamo di capire di più, per quanto è possibile, in questa intervista con il teologo Riccardo Larini. Riccardo Larini è un intellettuale molto vicino alla Comunità, avendone fatto parte per undici anni ed essendo sempre rimasto in ottimi rapporti con tutti a Bose.
“All’indomani della solennità della Pentecoste, la Comunità di Bose ha accolto la notizia che il suo fondatore, fr. Enzo Bianchi, assieme a fr. Goffredo Boselli e a sr. Antonella Casiraghi hanno dichiarato di accettare, seppure in spirito di sofferta obbedienza, tutte le disposizioni contenute nel Decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020. Fr. Lino Breda l’aveva dichiarato immediatamente, al momento stesso della notifica.
A partire dai prossimi giorni, dunque, per il tempo indicato nelle disposizioni, essi vivranno come fratelli e sorella della Comunità in luoghi distinti da Bose e dalle sue Fraternità.
Ai nostri amici e ospiti che ci hanno accompagnato con la preghiera e l’affetto in questi giorni difficili chiediamo di non cessare di intercedere intensamente per tutti noi monaci e monache di Bose ovunque ci troviamo a vivere.
Pregate per ciascuno di noi, e per la Comunità nel suo insieme, perché possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane, continui a testimoniare quotidianamente l’evangelo in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo”.
Professor Larini, questo è il testo del Comunicato Stampa che la Comunità ecumenica di Bose ha diffuso, il primo giugno, dopo i colloqui con il delegato apostolico. Sappiamo, da un articolo di Avvenire, che questo allontanamento sarà a “tempo indeterminato” per Enzo Bianchi, per gli altri sarà dai tre a cinque anni. Qualche commentatore ha scritto che questo è un “addio” per Enzo Bianchi a Bose. Personalmente non penso affatto che lo sia. Qual è il suo pensiero?
Innanzitutto spero che comprenda che sto parlando di persone che per me sono famiglia, anche se accetto di farlo da “fratello lontano”, che può aiutare a riflettere i propri “genitori” e a rendere la comunicazione attorno al caso meno basata su supposizioni che talvolta sono addirittura maliziose o morbose.
Sicuramente, sia da quanto mi è dato di sapere personalmente, sia da tutto ciò che è stato pubblicato (e non) in questi giorni, mi pare chiaro che un distanziamento tra le parti si fosse ormai reso necessario. Per quanto si sia persone mature e di grande fede, ci sono momenti in cui la convivenza può essere solo deleteria. Perciò è bene che tutti possano respirare.
Il priore ha bisogno di spazio per poter esercitare più liberamente il proprio ministero, ovverosia prendere le decisioni ordinarie riguardo alla vita comunitaria, scegliere i propri collaboratori, accompagnare con i carismi della saldezza e del discernimento, come dice la Regola di Bose, la vita spirituale e monastica dei fratelli e delle sorelle, che sono certo proseguirà secondo il livello di sempre.
Gli altri membri coinvolti (e non solo quelli allontanati temporaneamente), hanno bisogno di spazio per ripensare a come essere pienamente solidali con il corpo comunitario e con i suoi valori, pur non venendo meno alle loro convinzioni, specie a quelle fondate sul Vangelo.
Il fondatore ha bisogno di distanza per trovare un modo diverso di essere un “semplice monaco” che tuttavia non sarà mai del tutto un “fratello come gli altri”. Ed è quest’ultimo, in fondo, il vero nodo interno da risolvere.
Ho letto molti cliché su cosa accade o dovrebbe accadere quando avviene una successione, quasi stessimo parlando di un’azienda o di una società sportiva, o della successione tra due abati di una comunità dalla lunga storia. Ma la realtà è che finché un fondatore di un’esperienza religiosa di qualsiasi genere è in vita non potrà mai avere un ruolo identico a quello di tutti gli altri, per la natura stessa delle esperienze religiose.
Non volendo sottrarmi alla sua domanda, dunque, rispondo che se la distanza sarà accompagnata da un vero processo dialogico, fratel Enzo rimarrà parte dell’esperienza di Bose. Probabilmente vivendo in disparte, ma tornando a essere coinvolto in forme nuove e non invasive nella storia bosina. In assenza di una volontà da parte di tutti di iniziare un processo di tal genere, i cammini del fondatore e di una parte della comunità da un lato e del resto della comunità dall’altro si separeranno definitivamente.
Approfondiamo un poco le “radici” di questo caso. Il provvedimento della Santa Sede è duro. Il tutto è scaturito, cito dal primo comunicato della Comunità, “da serie preoccupazioni pervenute da più parti alla Santa Sede che segnalavano una situazione tesa e problematica nella nostra Comunità per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del Fondatore , la gestione del governo e il clima fraterno”. Questo comunicato “dice e non dice” al tempo stesso. Le chiedo: è possibile, che per dissapori tra il fondatore e il priore attuale, si arrivi ad un provvedimento assai drastico? Possibile che un uomo carismatico come Enzo Bianchi sia incompatibile con la vita comunitaria? A me sorgono molti dubbi…
Sempre con timore e tremore, togliendomi i calzari come Mosè davanti al roveto ardente, devo dire che la risposta alla sua domanda non può essere data da un processo unicamente interno a Bose. Mi spiego. Sta certamente alla comunità tutta (compresi i membri allontanati) ricomporre le proprie lacerazioni e definire cosa voglia essere e dove debba andare, in maniera fondamentalmente autonoma (purché non contraddica il Vangelo, perché in tal caso ogni credente avrebbe un dovere di correzione fraterna nei suoi confronti).
Tuttavia, sia le precisazioni fornite nel secondo comunicato della comunità riguardo alla promessa di restare ” fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane”, sia le molte, troppe voci che sono trapelate riguardo a ulteriori richieste formulate alla comunità dalla Santa Sede, suscitano seri interrogativi riguardo alle ragioni complessive e la portata globale del provvedimento adottato.
Ci sono tantissime persone, direi senza paura di esagerare decine di migliaia, in Italia e in tutto il mondo, che, non per il desiderio malsano di spiare ma per il loro cammino spirituale personale, hanno in qualche modo un bisogno profondo di sapere dove voglia e debba andare Bose, se le diatribe interne riguardino anche questo o siano solo questioni di debolezza umana, se il decreto singolare emesso dal Segretario di Stato chieda o meno cambiamenti giuridici e disciplinari tali alla comunità da stravolgere anche solo parzialmente la propria carica profetica.
C’è tutta una “generazione Bose”, come l’ha definita Massimo Faggioli, che non si compone di persone che sarebbero andate facilmente in altri monasteri e che inoltre si sono riavvicinate alla chiesa e al Vangelo proprio grazie all’unicità della comunità fondata da Bianchi. A loro, credo, la comunità deve risposte, che altrimenti giungeranno loro dal caos mediatico scatenatosi attorno alla vicenda, e saranno risposte distorte.
Proseguiamo nell’analisi. Da quello che si sa non sono state imputate a Padre Enzo nessuna questione dottrinale. Per qualche osservatore, invece, tutta la vicenda assume carattere di una “normalizzazione” dell’esperienza di Bose. Il ché sarebbe in contraddizione con lo spirito fortemente ecumenico del papato di Francesco. Il Papa ha ceduto all’ala conservatrice della Curia romana?
Come giudica il comportamento della Santa Sede?
Chiunque mastichi seriamente un po’ di teologia sa bene che definire Bose una realtà super-progressista o addirittura eretica, oltre a essere un’affermazione lontana dalla verità, è in realtà una costruzione a tavolino molto utile per generare polarizzazioni nella rete e per arruolare il nome di Bianchi e di Bose per fini e lotte di cui non sono mai stati parte. Ovviamente non c’è nessuna questione dottrinale in gioco.
Il monachesimo è sempre stato una realtà profetica, in qualche tensione con le istituzioni ecclesiali. Ed è altrettanto chiaro che, proprio per questo, la gerarchia ecclesiale è sempre tentata nella storia di addomesticare le esperienze monastiche, inquadrandole nel diritto. A mio avviso si tratta di una tensione in qualche modo sana, che non mi scandalizza.
A questo va aggiunto (è stata la tesi del mio Master a Cambridge riguardo a Gesù e il I secolo) che ogni nuova esperienza religiosa passa da una fase in cui è unicamente vissuta da una comunità ristretta, a una in cui, specie al morire della prima generazione, l’istituzionalizzazione è inevitabile, e nascono tensioni attorno all’interpretazione delle origini. Basti pensare al capitolo 21 del Vangelo di Giovanni.
Quando lasciai Bose, 15 anni fa, la comunità non era ancora neppure un’associazione di fedeli laici: dal punto di vista giuridico aveva solo delle configurazioni civilistiche. E disponeva solo di una Regola fatta di indicazioni tratte dai Vangeli, un ufficio liturgico di propria composizione e un minimo molto scarno di strutture interne. Eppure era riconosciuta in tutto il mondo e da tutte le chiese come un fulgido esempio di vita monastica. La legge non è tutto.
È chiaro che la libertà bosina ha sempre suscitato piccole invidie in alcune esperienze tradizionali di vita religiosa, e che comunque fu la comunità stessa, già in quegli anni, a interrogarsi su un possibile inquadramento istituzionale come associazione di laici. Anche perché questo era molto in linea con la difesa della laicità del monachesimo, dell’essere semplici cristiani, consacrati a Dio in Cristo mediante l’unica consacrazione ricevuta da tutti i cristiani nel battesimo.
Riguardo a papa Francesco, distinguerei molto il suo sincero afflato ecumenico dalla sua visione delle questioni interne, anche giuridiche, della chiesa. Ritengo del tutto possibile che egli stesso si sia convinto di dover aiutare la comunità di Bose a prevenire problemi futuri chiedendole cambiamenti e un maggiore inquadramento nel diritto canonico. Del resto mi pare non abbia lesinato interventi di tal genere in altri casi.
Per contro mi sento di essere meno generoso nei confronti del modo in cui la chiesa cattolica più in generale ha trattato la vicenda.
In primo luogo, e non l’ha ancora citato nessuno che io sappia, se Bose è un’associazione di laici di diritto diocesano, trovo per lo meno un fallimento dell’ordinario del luogo il non essere riuscito a mediare in una situazione di cui non poteva non essere a conoscenza. È inutile chiedere più sinodalità, una maggiore applicazione del Vaticano II, se i vescovi sono i primi a non credere nelle loro prerogative. È in gioco una genuina applicazione del Concilio.
La Segreteria di Stato è inoltre intervenuta (perché il decreto è suo, non del papa, anche se egli lo ha approvato) applicando, di fatto, la giurisdizione diretta della Santa Sede su ogni singolo credente cattolico. Peccato però che a Bose ci siano anche non cattolici, membri a pieno diritto della comunità, e il ricorso all’unica prerogativa del papato su cui nessuna chiesa cristiana mai concorderà con quella cattolica per dirimere una questione inerente una comunità ecumenica rappresenti un vulnus eccezionale allo spirito ecumenico di cui per contro ci si continua a dichiarare fedeli servitori.
E la comunicazione vaticana è stata gravemente insufficiente. Di solito si tacciono le parti di provvedimenti che riguardano le persone, e si parla di ciò che riguarda le istituzioni, per questioni di rispetto. Qui si è fatto il contrario, e sullo stesso Osservatore Romano si è lasciato che a parlare del decreto singolare fosse il comunicato della comunità di Bose.
Per potere dare maggiori risposte alla sua domanda, perciò, credo si debba attendere a questo punto la doverosissima pubblicazione del decreto singolare, in assenza della quale, anche senza volerlo, si continuerà ad alimentare l’umiliazione di persone e di storie che hanno invece reso un servizio enorme alla chiesa a livello mondiale nonché alla cultura del nostro paese.
Quello che è chiaro che tutta la vicenda non può essere, e non sarà, risolta con soli provvedimenti disciplinari. L’esperienza di Bose è un frutto, grande, del Concilio Vaticano II. Per questo, per quello che rappresenta per l’intera “cristianità” (intesa qui intero ecumene), tutta la vicenda non è banale. Tocca il futuro della Chiesa. Le chiedo qual è, allora, la vera posta in gioco?
La posta in gioco è molto più grande di quanto non sia stato percepito nei palazzi vaticani e da una chiesa italiana colpevolmente molto silente fino ad ora, anche se c’è tempo per rimediare a questo almeno in parte.
Certo, da un lato è palese, dalle immediate reazioni anche virulente, che la vicenda Bose rischi di essere strumentalizzata dai tristi giochi di potere scatenati sia da alcuni alti prelati che si oppongono a Francesco e al Vaticano II che da gruppi di interesse di vario genere. Ma delle beghe di palazzo, sinceramente, non voglio occuparmi.
Un dato più importante è che è in gioco una testimonianza cristiana sui generis di cui il mondo ha un enorme bisogno. Bose è un esempio straordinario di come lo studio, la conoscenza, la profondità e l’ardire del pensiero siano compatibili con la fede cristiana, e anzi la rafforzino. È un laboratorio che ha dato chiara prova, nel corso degli anni, di un eccezionale equilibrio, senza mai ricorrere a cliché, senza utilizzare dogmatismi. Per questo ha conquistato la fiducia di cristiani di ogni confessione e di persone dagli orientamenti culturali e religiosi diversissimi. Nella società delle grida in rete e delle polarizzazioni su tutto, abbiamo bisogno del coraggio e dell’arte del pensare come del pane quotidiano. E Bose ne è stata fino ad oggi un esempio straordinario. Senza esperienze come Bose, la chiesa diventerebbe un luogo molto più arido, buio e triste. Per questo la comunità andrebbe accompagnata dalla chiesa con maggior rispetto e attenzione di quanto è accaduto negli ultimi mesi.
Sul dialogo ecumenico, che è il campo a cui ho dedicato gran parte della mia vita, devo per contro usare tutta la necessaria parresia evangelica, sia nei confronti delle chiese che della comunità in cui sono vissuto.
Sono quasi trent’anni che, a fronte di dichiarazioni pubbliche, nei fatti il movimento ecumenico sta regredendo. Chi come me si è formato nella grande stagione del dialogo della carità e degli straordinari dialoghi teologici culminati in eventi epocali, a partire da Balamand ha assistito a un lento e inesorabile declino, al ritorno sempre più insistente di comportamenti (nonché di posizioni teologiche anche ufficiali) nelle chiese che contraddicono pesantemente la ricerca dell’unità tra le chiese e tra i cristiani.
Il ricorso alla giurisdizione diretta del papa per risolvere la questione sorta a Bose è uno di tali gesti. Con esso, in un solo colpo, Bose ha perso gran parte della sua credibilità ecumenica agli occhi di tutte le chiese non cattoliche. E per quanto sia doloroso, non posso esimermi dal dirlo. Ci vorrà molto tempo per ricostruire, e forse non sarà possibile. E la responsabilità di un simile gesto è sia della comunità che della Santa Sede.
Ultima domanda: “Normalizzare Bose” o “Normalizzare Francesco”?
Una sola, semplice risposta: risvegliare tutti a maggiore discernimento e vigilanza, per non distruggere tesori preziosi, anche quelli che si amano sinceramente.