Nel bel libro di don Marco Campedelli che racconta l’amicizia con la grande poetessa dei Navigli prorompe la figura di una donna profondamente innamorata di un Cristo che cammina con lo strascico da sposa. Un amore dolce, primaverile, segno e sogno di una follia che ha saputo superare il trauma del manicomio ed essere fonte di saggezza universale. Un amore per un Dio imperfetto che ama l’uomo imperfetto.
«Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta».
Alda Merini non lo sapeva – non poteva saperlo – che sarebbe venuto il tempo in cui nemmeno la follia avrebbe visto le zolle aprirsi, le magnolie tingersi di rosa e piovere sui grossi frumenti gentili. Un tempo sospeso, dove la primavera è appena udibile dai tristi balconi che cantano canzoni di libertà. Un tempo di morti, tumulati in fretta, per non cadere colpiti sotto il morso contagioso dell’orco invisibile. Un tempo in cui perfino le panchine sono solitarie, persino quelle che cantano – come le panchine della passeggiata della poesia a Merano, che hanno i versi dei poeti intagliati nello schienale di legno – perfino loro se ne stanno congelate al sole in uno scenario spettrale. Un tempo di Navigli solitari, di notti vuote, di attese estenuanti nella Milano che vede nascere e morire, come in un grande manicomio di voci, il sogno immateriale della terra promessa. Alda, fortunatamente, non ha visto la Milano ai tempi del coronavirus. Per lei era bella, Milano, soprattutto la notte:
“E’ bellissimo tornare a Milano, di notte. Si potrebbe lasciarla
per sempre solo per andare in Paradiso. Ma forse
desidererei, anche da lì, la mia casa”.
Alda Merini nacque il 21 marzo del ‘31. Nacque con una voce colma di sillabe in un’Italia dalle voci strozzate. Nacque quando tutte le cose nascono. Nacque il primo giorno di primavera e non a caso Giornata mondiale della poesia.
Forse nessun poeta, come la Merini, ha abitato la poesia. Nessuno, come lei, ha vissuto gli spazi ultraterreni del verso, nessuno ha fatto della poesia un laccio divino, voce nella voce, invasamento, mania, furia sregolata, estasi di vita, possessione amorosa. Follia che corre lungo i corridoi di letti bianchi e di pareti bianche dentro quei lazzaretti (non ancora del tutto estinti) che eravamo soliti chiamare manicomi. Nessuno ha dormito su ghirlande di fiori e baciato l’amore fino a svenire per poi piangere di nostalgia e recitare i salmi dell’imperfezione con la voce di quel Dio, padre dei folli e compagno degli imperfetti.
Nessuno, come la Merini, si è macchiato della terribile colpa di aver rubato poesie. Ce lo ricorda nel suo bel libro Il vangelo secondo Alda Merini (Claudiana editore, pp. 160) Marco Campedelli, prete di frontiera, burattinaio veronese, amico e confidente di Alda Merini, soprannominato da lei “don Chiodo”. Fedele all’amicizia fino alla fine.
Alda era appena quattordicenne quando rubò la poesia. Era maggio e la tempesta della guerra era appena passata. La gente cominciava a tornare alla vita e le librerie avevano il sapore del pane. Alda entrò in una libreria di Milano, adocchiò le “Elegie duinesi” di Rilke, afferrò il libro, lo aprì, cominciò a leggere quei versi meravigliosi ed ebbe un mancamento. Non aveva una lira in tasca, non poteva acquistare quel libro. E così decise di rubarlo: «Lo infila intorno alla vita – ricorda Campedelli – nella cintura della gonna. Rimbocca la maglietta pallida che ha addosso e dandosi come un colpo di reni esce dalla libreria. Adolescente ladra di poesia, Alda Merini si domandò sempre se in quel mattino di maggio avesse incontrato la grazia o il peccato. In quella Milano che aveva fame di pane, rubare poesia sembrava forse un atto di superbia, ma lei, che sente per la poesia la stessa fame del pane, quel giorno sceglie di rubare bellezza per non morire di fame».
Nel 1954 la Merini è già piena zeppa di poesia. Tanto da fare paura. Perfino Pasolini alza bandiera bianca. Sulla rivista “Paragone” scrive: «Di fronte alla spiegazione di questa precocità» di questa mostruosa intuizione di una influenza letteraria perfettamente congeniale, ci dichiariamo disarmati».
Campedelli racconta nel suo libro il travaglio “religioso” di Alda, la tessitura evangelica della poesia, l’attenzione a riconoscere dalla forma delle ali gli angeli che salgono e quelli che scendono sulla scala di Giacobbe, l’ascolto nevrotico di una voce che viene dall’alto, come nella Bibbia quando i profeti ascoltavano la voce che veniva dal sogno. E quella voce era la sua poesia:
“Io ti ho dato uno spazio d’albero
e tu me l’hai restituito ignudo
un legno crocifisso
sopra il quale non posso allargare le braccia
e neanche morire
perché checché ne dicano gli altri
d’amore non muore nessuno
ma si può’ stare talmente male
che poi Dio ci regala il verso”.
Il Gesù della Merini ha qualcosa di folle, sembra un innamorato che vola sui tetti delle città come nei dipinti di Chagall. Salta e corre come un novellus pazzus francescano. Il Cristo poteva essere madre e sposa, così come Francesco d’Assisi a volte soleva farsi chiamare “madre” dagli altri frati. Spiega Campedelli: «C’è un’immagine solenne e commovente che disegna il Gesù meriniano, il quale “trascinava la sua lunga veste che pareva lo strascico di una sposa. Infatti lui era la vera sposa del Cantico”. E la figura del Cristo con lo strascico da sposa avrebbe in effetti potuto trovare spazio nell’immaginario di Pasolini, di Fellini o di Ermanno Olmi. Non c’è niente di grottesco in questa immagine, ma anzi l’intima intuizione del cuore femminile di Cristo».
Alda percepiva il cuore della Maddalena, come fosse suo quel cuore. Era per lei la vittima di un sistema patriarcale che aveva negato la bellezza. Era sua quella voce:
“Chi avrebbe mai detto
che mi avrebbero lapidata?
Ma tanto la mia bellezza
era un vuoto a perdere.
Stesa per terra, sporcata dai loro baci,
io guardo il cielo”.
Solo Gesù, con il suo strascico da sposa, sapeva coprirla d’amore:
“Ma tu, Gesù, mi hai parlato,
e non hai mai visto solo le mie labbra,
ed è strano che il mio labbro
che non ha baciato nessuno
profumava di fiori.
Come mi hai amato, Signore,
come mi hai posseduta con la parola”.
Il Dio della liberazione abitava perfino gli spazi sudici del manicomio in quegli anni tremendi di internamento dove
“le membra intorpidite
si avvoltolavano nei lini
come in un sudario semita”.
Da quella Terra Santa che era il suo inferno, Alda rileggeva il patto messianico con Abramo sul monte Sinai: «Da quel roveto la voce di Dio si espande come un profumo di rose, e porta nei petali i nomi: il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe».
E poteva anche succedere, fra un elettroshock e l’altro, di innamorarsi e di perdersi per un mazzetto di margherite portate da Pierre, «quell’uomo piccolo dal volto senza peccato che mi guardava rapito» così da trasfigurare quel sotterraneo di storia in un cielo azzurro di passione rasente sul mare. Allora si poteva volare:
“Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
enza nessuna carità di suono
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore»
Alda ha vissuto giorni e notti sul davanzale della poesia come se aspettasse il suo innamorato. Perché la poesia, come scriveva il suo amico David Maria Turoldo, è:
rifare
il mondo, dopo
il discorso devastatore
del mercadante.
E bisogna esser sempre pronti a urlare il verso, perché è da quell’urlo che prende a muoversi tutto. Succedeva che Alda telefonasse a Campedelli, nel suore della notte, per dettargli i suoi versi carichi d’amore. Non c’era tempo di aspettare il giorno:
“Se tu non venissi come un vento / portato da uno strano uragano / senza timbro di sacrificio / quasi mandato via dalla città / io ti avrei preparato un orto piccolo piccolo / e forse un Samovar / poi ti avrei portato con me / di fronte alle montagne e lì avremmo mangiato il giorno / come une mela fresca / ma non è stato così / hai sempre alle calcagna / gli orari dei treni / e mi sembra che tu scappi / rincorso da mille vocianti cani».
Ecco perché la poesia si ruba, perché, come i generi di prima necessità, la poesia salva la vita nel tempo del rischio, come è questo nostro tempo di pandemia, schiacciato fra l’essere e il non essere. La poesia trascende, sospira, innalza, vola e naviga sul fiume limaccioso del desiderio e della speranza: «Il mio letto è una zattera che corre verso il divino».
«La Merini – ricorda Campedelli – ha avuto la poesia come un dono misterioso, ma certo anche come un regalo quotidiano.
L’ha imparata dentro le ferite così come nelle mille risurrezioni della vita».
(In dialogo n. 128 giugno 2020)