Ventotto anni: 1992-2020. Le cose sono molto cambiate. E sono certo che Giovanni Falcone – se non fosse stato barbaramente ucciso a Capaci con Francesca, Vito, Rocco, Antonio – ci esorterebbe oggi a trovare un nuovo paradigma nella lotta alle mafie. Perché oggi le mafie hanno il loro più potente e attivo alleato in un’economia selettiva che, su scala mondiale, ha prodotto da un lato abnormi concentrazioni di denaro e di potere, dall’altro ingiustizie e povertà mai viste.
Deserti di diritti e democrazia che rappresentano da sempre il terreno su cui prospera il crimine mafioso. Un nuovo paradigma perché, al di là di indagini e arresti – dello straordinario impegno di magistratura, istituzioni, forze di polizia – il contrasto alle mafie deve ripartire oggi dalla consapevolezza che il crimine organizzato è ormai parte organica di un più ampio sistema d’ingiustizie.
Facendo del rintracciamento del denaro – «follow the money» – uno dei cardini del proprio metodo investigativo, Giovanni aveva prefigurato con sguardo profetico lo sviluppo economico e imprenditoriale del crimine mafioso.
Ci aveva messo in guardia dal rischio che, in un mondo piegato all’idolo e alla logica del profitto, le mafie avrebbero trovato sempre più spazio, nascoste nelle pieghe di un tessuto sociale smagliato, avvantaggiate da una politica incurante del bene comune. Previsione che oggi ha trovato agghiacciante conferma: le mafie non solo sono dovunque, in molte parti d’Europa e del mondo, ma possono agire nell’ombra, quasi indisturbate, usando quei soldi che possiedono in quantità smisurata laddove prima usavano le armi.
La corruzione è diventata ormai, come confermano gli analisti più attenti, la cerniera tra noi e loro, la zona grigia che le rende simili a noi e al tempo stesso ci «mafiosizza», ci rende simili a loro. Ecco allora che ricordare oggi Giovanni Falcone significa ripensare la lotta alle mafie e ripensare anche il concetto di legalità.
Non c’è legalità senza giustizia sociale. Se mancano i diritti sociali fondamentali – il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria – la legalità rischia di diventare un principio che esclude e discrimina.
Uno strumento non di giustizia ma di potere. Mai si è parlato di legalità come in questi ultimi ventottanni, e mai come oggi abbiamo una democrazia debole, malata e diseguale, come la pandemia, impietosamente, sta evidenziando. Prova che, della parola legalità, è stato fatto un abuso retorico, per certi versi «sedativo». Molti dicono «legalità» per mettersi la coscienza in pace, per sentirsi dalla parte giusta. Si esibisce la legalità come una credenziale per poi usarla come
lasciapassare, come foglia di fico anche di misfatti e porcherie.
Giovanni sapeva bene che la legalità è un mezzo e non un fine, perché – come Paolo Borsellino e come tutti i magistrati che hanno servito la democrazia lottando contro i poteri criminali ma anche contro i cosiddetti «poteri forti» – aveva come orizzonte la giustizia, cioè la libertà e la dignità di ogni essere umano.
Ma Giovanni era anche un utopista vero, di quelli che l’utopia non si limitano a sognarla ma la costruiscono giorno dopo giorno. In tal senso va inteso quell’invito alla speranza che oggi più che mai deve scuotere le nostre coscienze: «le mafie non sono invincibili perché, come ogni fatto umano, hanno un inizio e una fine». Se oggi fosse ancora con noi Giovanni direbbe di nuovo quelle parole, ma con una piccola aggiunta: le mafie non sono invincibili perché sono un fatto umano. Ma
per sconfiggerle dobbiamo tornare tutti a essere più giusti e più responsabili. Dunque più umani.