A Carmen Yañez “Pelusa”, Marcia Scantlebury e Ana Schilling.
Le donne della mia generazione
aprirono i loro petali ribelli
non di rose, camelie, orchidee o altre piante
di salottini tristi, di casette borghesi,
di usanze stantie,
ma di erbe pellegrine al vento
Perché le donne della mia generazione fiorirono
per strada, in fabbrica
divennero filatrici di sogni,
e dentro il sindacato organizzarono l’amore
secondo i loro saggi criteri.
«Cioè» dissero le donne della mia generazione
«a ciascuno secondo i suoi bisogni
e la sua capacità di risposta.»
Come nella lotta colpo su colpo,
nell’amore bacio su bacio.
E nelle aule argentine, cilene e uruguaiane
seppero quel che dovevano sapere
per il sapere glorioso
delle donne della mia generazione.
Minigonne in fiore negli anni settanta,
le donne della mia generazione
non nascosero neanche le ombre delle loro gambe
che furono di Tania.
Erotizzando col più grande calibro
la dura strada dell’appuntamento con la morte.
Perché le donne della mia generazione
bevvero di gusto il vino dei vivi,
accorsero a ogni chiamata,
tennero acceso il fuoco
e furono dignità nella sconfitta.
Nelle caserme le chiamarono puttane
senza offenderle
perché venivano da un bosco di sinonimi allegri:
minas, grelas, parcantas, cabritas, minones,
gurisas, garotas, jevas, zipotas,
viejas, chavalas, senoritas.
Finché loro stesse non scrissero
la parola Compagna
su ogni schiena
e sui muri di ogni albergo.
Perché le donne della mia generazione ci marchiarono addosso
col fuoco eterno delle loro unghie
la verità universale dei loro diritti.
Conobbero il carcere e i pestaggi,
Vissero in mille patrie e in nessuna,
Piansero i loro morti e i miei come fossero i loro,
Dettero calore al freddo, categoria al tempo e desideri alla stanchezza,
All’acqua dettero sapore e conservarono il fuoco
della loro invincibile memoria.
Le donne della mia generazione partorirono figli eterni,
li allattarono cantando Summertime,
fumarono marijuana nel riposo,
ballarono il meglio del vino
e bevvero le musiche più pure.
Perché le donne della mia generazione
ci insegnarono che la vita
non si offre a sorsi, compagni,
ma tutta d’un colpo e fino in fondo alle sue conseguenze.
Furono studentesse, minatrici, sindacaliste, operaie,
artigiane, attrici, guerrigliere,
persino madri e compagne
nei momenti liberi dalla Resistenza.
Perché le donne della mia generazione
rispettarono solo il limite dell’orizzonte
e mai e poi mai una frontiera.
Internazionaliste dell’affetto, brigatiste dell’amore,
miliziane della carezza, commissarie del dire ti amo.
Fra una battaglia e l’altra
le donne della mia generazione dettero tutto
e dissero che era appena sufficiente.
Le dichiararono vedove a Córdoba e a Tlatelolco.
Le vestirono di nero a Puerto Montt e a San Paolo.
E a Santiago, Buenos Aires e Montevideo
furono le uniche stelle
della lunga notte clandestina.
I loro capelli bianchi non sono capelli bianchi
ma un modo d’essere
per il compito che le attende.
Le rughe che spuntano sui loro visi
dicono: ho riso e pianto e tornerei a farlo.
Le donne della mia generazione
hanno preso qualche chilo di ragioni
che non se ne vanno,
si muovono un po’ più lente,
stanche di aspettarci alla meta.
Scrivono messaggi che incendiano la memoria.
Ricordano aromi proscritti e poi li cantano.
Ogni giorno inventano parole
e con quelle ci spingono,
Nominano le cose e ci arredano il mondo.
Scrivono verità sulla sabbia e le offrono al mare.
Ci convocano e ci danno alla luce sulla tavola apparecchiata.
Dicono pane, lavoro, giustizia, libertà,
e la prudenza dell’uomo si trasforma in vergogna.
Le donne della mia generazione sono come barricate:
riparano e incoraggiano, danno fiducia
e addolciscono il filo dell’ira.
Le donne della mia generazione
sono come un pugno chiuso
che protegge con violenza la tenerezza del mondo.
Le donne della mia generazione non gridano
perché hanno sconfitto il silenzio.
Se qualcosa ci segna, sono loro.
L’identità del secolo sono loro.
Loro, la fede restituita, il coraggio nascosto di un volantino,
il bacio segreto, il ritorno a tutti i diritti.
Un tango nella serena solitudine di un aeroporto,
una poesia di Gelman scritta su un tovagliolo,
Benedetti condiviso nel pianeta di un ombrello,
i nomi degli amici
conservati con spighe di lavanda.
Le lettere per cui baci il postino,
le mani che sorreggono il ritratto dei miei morti,
i semplici elementi dei giorni
che sgomentano il tiranno,
la complessa architettura dei sogni dei tuoi nipoti.
Sono tutto e sostengono tutto,
perché tutto arriva coi loro passi
e ci raggiunge e ci sorprende.
Non c’è solitudine dove guardano loro
né oblio finché cantano.
Intellettuali dell’istinto, istinto della ragione.
Prova di forza per il forte
e amorevole vitamina per il debole.
Ecco come sono, le uniche, irripetibili, indispensabili, sofferte, picchiate,
Donne negate ma invitte della mia generazione.
Luis Sepulveda, 1949-2020