Salgo una parete a picco sui tremila metri e a pochi centimetri dagli occhi incontro il fiore che da noi si chiama raponzolo di roccia e in tedesco teufelkralle, artiglio del diavolo.
Si abbarbica con un ditale di terriccio in una crepa e fiorisce viola e azzurro in piena estate. È originale delle Dolomiti, non la stella alpina che invece è diffusa in molte aree. Il raponzolo di roccia sta al vertice della mia scala di ammirazione, anche perché si arrocca sugli abissi.
Lassù l’ha seminato il vento.
Sul ghiacciaio della Marmolada, in qualche punto scoperto s’incontra la sassifraga. Ricordo un’ape che la corteggiava. Tra loro due il risultato doveva essere il miele migliore del mondo.
Dove nessun albero, cespuglio può abitare, sulle zolle più alte, più esposte s’incontrano i fiori. Resistono a fulmini e tempeste, a valanghe che sventrano versanti.
Sono sopravvissuti a glaciazioni spostandosi a sud o verso l’alto al di sopra delle enormi pressioni dei ghiacciai. Perché anche i fiori migrano.
Si ha di loro l’immagine della delicatezza, per decorare tavole, offrire un omaggio alle donne, infilarne uno all’occhiello. Si percepisce dei fiori l’apparenza, a loro necessaria per attirare insetti e riprodursi. Sono al contrario la più forte forma vivente.
In primavera sul mio campo si spande una distesa di piccole margherite. Ci cammino sopra, le calpesto e quelle, dopo essersi piegate, si rialzano illese. Nessun’altra tenacia di natura posso paragonare a un fiore. Nessun’altra fibra conserva la perfetta eleganza sotto una sproporzionata compressione.
Pete Seeger chiedeva in una sua canzone del 1961: ”Where have all the flowers gone?”. Dove sono andati tutti i fiori? La risposta era che li avevano colti le ragazze. Le strofe continuano fino alle tombe dei soldati morti, sulle quali rispuntano gli stessi fiori che colsero le ragazze. C’è da imparare dai fiori. C’è da mettersi alla loro altezza.