La Bottega del Barbieri, 2 Ottobre 2020
Covid e occupazione stanno stritolando ciò che resta della Palestina
Il COVID-19 ha affossato economia e sanità pubblica in Palestina, già devastata dall’occupazione israeliana della Cisgiordania e dall’embargo a Gaza. I medici (israeliani e palestinesi) e le associazioni umanitarie stanno lanciando l’allarme.
Secondo l’ultimo rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) sulla situazione economica in Palestina, il COVID-19 ha aggravato le terribili condizioni economiche nei territori palestinesi occupati. Già prima della pandemia, la stessa UNCTAD prevedeva un biennio ’20-’21 devastante per l’economia palestinese, con una stima di diminuzione del PIL pro capite tra il 3% e il 4,5%.
In effetti, i tassi di povertà e di disoccupazione sono rimasti elevatissimi (attorno al 30%), il PIL pro capite è diminuito per il terzo anno consecutivo, la Cisgiordania ha registrato il suo tasso di crescita più basso dal 2012 (1,15%), mentre la Striscia di Gaza è praticamente a crescita zero.
A minare l’economia palestinese è anche l’occupazione israeliana, che per il popolo palestinese ha un costo non soltanto umano, politico e territoriale, ma anche monetario. Ricordiamo che è Israele a riscuotere le tasse per conto dell’ANP, alla quale eroga le somme raccolte in modo arbitrario e imprevedibile. Prima della pandemia, l’UNCTAD stimava che ogni anno l’agenzia delle entrate israeliana tratteneva dalle somme dovute al fisco palestinese una somma pari al 3,7% del PIL o al 17,8% del gettito fiscale totale. A questo si aggiunge il considerevole calo del sostegno dei donatori all’ANP, dal 32% del PIL nel 2008 al 3,5% nel 2019; a Gaza ben l’80% della popolazione dipende dà un’assistenza internazionale instabile.
È questo il contesto nel quale vanno inserite le conseguenze economiche delle restrizioni imposte per contenere i contagi da COVID-19. Appena un mese dopo lo scoppio della pandemia, le entrate fiscali raccolte dall’ANP sono scese ai livelli più bassi degli ultimi vent’anni; l’impianto sociale è stato poi ulteriormente indebolito dall’aumento della spesa pubblica – in ambito sanitario, previdenziale e di sostegno alle imprese – reso necessario dalla pandemia.
Varie stime sul costo della pandemia indicano una perdita economica compresa tra il 7% e il 35% del PIL, a seconda delle ipotesi di previsione sulla gravità e la durata della pandemia. Sotto l’occupazione, l’ANP non dispone dello spazio politico e degli strumenti di politica economica necessari per affrontare l’enorme sfida posta dalla pandemia. Non ha accesso a prestiti esteri, non ha una valuta nazionale propria, non ha una politica monetaria indipendente e non ha autonomia fiscale.
“La comunità internazionale dovrebbe raddoppiare con urgenza il sostegno al popolo palestinese per consentirgli di far fronte alle ricadute economiche della pandemia. Non c’è alternativa al sostegno dei donatori per garantire la sopravvivenza dell’economia palestinese”, ha dichiarato il Segretario generale dell’UNCTAD Mukhisa Kituyi.
All’aumentare di casi di COVID-19, i ministeri della Salute a Gaza come a Ramallah hanno riconosciuto che la loro capacità di contenere la diffusione del virus fosse limitata dalla carenza di attrezzature sanitarie, tra cui farmaci e materiale sanitario usa e getta.
Nonostante le premesse, le autorità sanitarie hanno imposto misure di prevenzione drastiche, che hanno ampiamente contribuito a un tasso di infezione molto basso durante i primi tre mesi della crisi. Ma gli sforzi sono stati ostacolati dalle restrizioni pesanti che il sistema sanitario palestinese si trova ad affrontare da anni; la separazione tra Gerusalemme est, Gaza e Cisgiordania e le restrizioni che Israele impone alla libertà di movimento dei pazienti, delle attrezzature mediche e del personale sanitario, ostacolano infatti a livello strutturale il corretto funzionamento del sistema sanitario palestinese.
L’embargo imposto congiuntamente da Israele ed Egitto tredici anni fa lascia Gaza senza materiale sanitario e con un personale medico privo di conoscenze mediche aggiornate. Sono più di novemila i pazienti – un quarto dei quali è malato di cancro – che ogni anno hanno bisogno di cure non disponibili a livello locale e che quindi devono chiedere dei permessi speciali a Israele per lasciare la Striscia di Gaza. La diffusione del COVID-19 non ha fatto altro che peggiorare la situazione. A titolo di esempio, l’autorevole rivista medica The Lancet ricorda che a Gaza vi sono soltanto 87 posti letti di unità di terapia intensiva con ventilatori per quasi 2 milioni di persone.
La sezione israeliana dell’organizzazione Physicians for Human Rights ha chiesto che Israele agisca in modo trasparente e pubblichi le proprie politiche di prevenzione nei territori palestinesi che esso occupa. La Convenzione di Ginevra impone alla potenza occupante di “assicurare, nella piena misura dei suoi mezzi, e di mantenere, con il concorso delle autorità nazionali e locali, gli stabilimenti e i servizi sanitari e ospedalieri, come pure la salute e l’igiene pubbliche nel territorio occupato, specie adottando e applicando le misure profilattiche e preventive necessarie per combattere il propagarsi di malattie contagiose e di epidemie”. Eppure, le restrizioni imposte lasciano migliaia di persone senza accesso a cure adeguate.
Inizialmente sembravano esserci segnali incoraggianti su una collaborazione senza precedenti tra Israele, Autorità nazionale palestinese e Hamas per fronteggiare in maniera coordinata l’avanzare della pandemia. Ma il miraggio è durato poco. Azioni israeliane ritenute illecite – come la confisca di materiale per realizzare un ospedale da campo o l’annuncio di un nuovo piano di annessione dei territori palestinesi occupati – hanno provocato un irrigidimento della leadership palestinese, minando il già delicatissimo equilibrio tra Tel Aviv, Ramallah e Gaza. In un movimento congiunto, cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno avanzato una petizione alla Corte Suprema di Israele affinché vengano prese tutte le misure necessarie per consentire ai palestinesi trattamenti medici in condizioni dignitose. In particolare, è stato chiesto di revocare l’assedio e l’embargo della Striscia di Gaza per consentire il corretto funzionamento del sistema sanitario e di altri servizi essenziali, garantendo la circolazione delle merci necessarie a fini medico-sanitari, contribuire al rifornimento di medicinali e altro materiale mancante nella misura più ampia possibile, e infine collaborare con Hamas e l’Autorità nazionale palestinese per trovare soluzioni per i pazienti che attualmente non possono lasciare la Striscia di Gaza ma devono ricevere cure non disponibili localmente. Le associazioni coinvolte nella petizione sono: Gisha, centro legale per la libertà di movimento dei palestinesi; Adalah, centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele; HaMoked, nata per difendere i diritti dei palestinesi sottoposti all’occupazione; the Association for Civil Rights in Israel; e Physicians for Human Rights Israel.
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Lettera aperta di Francesco Giordano per i fatti del 25 aprile 2018: “Una piccola storia ignobile”
A Milano, io ed altri quattro compagni, siamo stati denunciati per fatti ridicoli e risibili, ma con l’infamante accusa “per finalità di odio etnico e razziale”.
Da circa un anno sono circolati diversi documenti prodotti dai 5 compagni, oggi propongo una mia personale riflessione avendo vissuto tutto il percorso del presidio in Piazza San Babila per contestare la presenza delle bandiere sioniste.
Il tentativo di criminalizzare quanti hanno partecipato durante i 15 anni passati è chiaramente politico ed al servizio di quelli che sostengono apertamente il genocidio dei palestinesi.
Buona lettura,
Francesco Giordano
Milan l’è on gran Milan
Milano ha una lunga tradizione di vero antifascismo, non quello attuale, di giustizia, di antirazzismo e conseguentemente di antisionismo.
La lotta partigiana di liberazione dal fascismo e dal nazismo a Milano ha scritto pagine eroiche in tutti i quartieri, in particolare in quelli proletari come Barona, Giambellino, Stadera ecc….ecc…
Questa memoria ha vissuto in maniera forte almeno fino agli anni ’80, poi sicuramente vi è stata una deriva che ha portato una ventata di destra, e ricordo alcuni episodi: il sindaco che va ad omaggiare i fascisti, la deposizione del terrorista nero Servello al Famedio, che è stata una vera prevaricazione che ha violentato la memoria degli antifascisti e dell’antifascismo, gesto voluto da una amministrazione di ‘sinistra’ che ha votato all’unanimità questa viltà storica, inoltre il sostegno che le varie amministrazioni han dato a chi opprime, uccide i palestinesi. Sono numerose ed innumerevoli le dichiarazioni in tal senso, ricordiamo quando l’amministrazione di ‘sinistra’ interruppe un consiglio comunale per portare solidarietà ai sionisti. Mai compiuto un gesto del genere per i palestinesi o i lavoratori sfruttati ed assassinati sui luoghi di lavoro.
Questa è stata Milano, ma questa memoria vive ancora in una larga fascia di giovani proletari, di lavoratori, di studenti.
Essendo una città che ha ambito ad una forte crescita, conseguentemente è stata una città bramata da speculatori edilizi, ma anche in particolare da fascisti e sionisti, che spesso le due cose coincidono.
Ambedue, fascisti e sionisti, grazie alla complicità di amministrazioni di destra quanto quelle di ‘sinistra’, persino di qualche dirigente dell’Anpi, negli anni sono riusciti ad occupare spazi impensabili negli anni ’60, ’70 ed ’80.
Come ben si sa che gli appetiti voraci del sionismo sono enormi e quindi nel 2004…
Una Piccola Storia Ignobile Meneghina
Era l’Aprile del 2004 e molti di noi andavano a ricordare il 25 aprile di 10 anni prima, del 1994. E come pioveva quel giorno…pioveva davvero che dio la mandava, ma eravamo in tanti, tutti antifascisti. Persino un drappello della Lega volle manifestare perché “anche noi siamo antifascisti” disse Bossi (non furono accolti calorosamente, a dire il vero).
Quella sera smise di piovere, spuntò qualche arcobaleno, ma noi eravamo felicemente inzuppati. Questo si ricordava qualche giorno prima del 25 aprile 2004. Non mi pare abbia piovuto quell’anno, ma certo successe qualcosa di ancora più tremendo ed orrendo.
La storia
Nel 2004 l’associazione “Amici di Israele” pubblica un comunicato sul proprio sito in cui dichiara: “decidiamo di sfilare sotto le insegne della Brigata ebraica perché stanchi di partecipare circondati da bandiere palestinesi…e per non farci annoverare tra la massa dei manifestanti antiamericani o antiisraeliani”.
La stessa associazione dichiara che la decisione di sfilare con la Brigata ebraica è solo un passaggio di un percorso che deve portare a “lo sdoganamento del sionismo” (testuale). Si legge: “Crediamo, infatti, importante spiegare agli italiani che il sionismo è un ideale alto, nobile e giusto”.
Per non tralasciare nulla al caso o alle stravaganti interpretazioni ricordiamo le parole del presidente dell’associazione Amici Di Israele Eyal Mizrahi: «Cari Amici Di Israele e simpatizzanti, anche quest’anno l’associazione Amici Di Israele sfilerà al corteo del 25 Aprile a Milano sotto lo striscione della Brigata Ebraica. Il punto di raccolta sarà in Corso Venezia angolo Via Boschetto alle ore 14.00. La partenza del corteo avverrà alle ore 14.30 ma ci riuniremo un po’ prima per poterci organizzare meglio. Vi invitiamo a portare le bandiere israeliane che avete […]».
Ancora una volta e come spesso succede a far chiarezza sono gli stessi sionisti, che rivendicano pubblicamente i loro crimini.
D’altronde non si può non riconoscere la stessa pratica mistificatoria dei fatti propria dello Stato d’Israele: gli aggressori diventano le vittime e gli aggrediti diventano i carnefici.
Questa la verità, che nessun sionista, in borghese oppure in divisa, in borgese oppure con la toga, potrà mai smentire.
Con queste premesse arriviamo ai successivi 25 aprile, dal 2005 in poi, fino ai giorni nostri.
Andiamo verso la conclusione riportando quanto abbiamo sempre dichiarato, pubblicamente, con la nostra voce e le nostre facce: “noi pensiamo che non si possa permettere la presenza di bandiere dello Stato che occupa la Palestina da decenni, che nei confronti dei palestinesi commette quotidianamente crimini contro l’umanità. Crediamo che la Milano Medaglia d’Oro alla Resistenza non meriti tale affronto, questa Milano viene già troppe volte umiliata ogni volta che si permette ai fascisti di girare per le vie del centro con i loro simboli nazisti, ragion per cui dopo il 25 saremo nuovamente in piazza il 29 aprile contro la parata nazifascista indetta a Milano”.
E proseguivamo: “Crediamo che dovrebbe essere l’ANPI in primis a tutelare lo spirito della manifestazione, schierandosi contro la presenza di quelle bandiere che oltraggiano il corteo, accogliendo invece le istanze dei popoli che ancora oggi sono costretti a resistere e a combattere per la propria libertà negata da interessi colonialisti ed imperialisti”.
Infine spunta dalle nebbie la fantomatica Brigata ebraica. Ovvero una banda di sionisti che si recava in Palestina a edificare i famosi kibbutz, ovvero fattorie costruite su terra palestinese, bagnata dal sangue, dal dolore che gli stessi sionisti avevano provocato.
Quindi ancora una bugia, perché la brigata ebraica andò in linea solo nel marzo del ’45 arrivando dopo inglesi, americani, indiani, australiani, brasiliani, marocchini etc… E anche alle manifestazioni del 25 aprile si è fatta vedere solo a partire dal 2004, l’anno in cui l’esercito israeliano di occupazione uccideva 820 palestinesi. Ci voleva proprio il massacro dell’anno scorso a Gaza per capire in una manifestazione che celebra idealmente la lotta di liberazione contro l’occupazione straniera, quella bandiera è fuori posto?
Chi minaccia chi?
Il Presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici con tono più adatto ad un bullo di periferia (Corriere della Sera 28 aprile 2014): «Il prossimo anno saremo tutti a Milano e vediamo se avranno il coraggio di continuare a insultarci. Basta».
Chi minaccia chi? Ovvio che le sue e loro minacce non ci hanno spaventato o impedito di essere tutti gli anni presenti a contestarli.
Andiamo verso la conclusione
Un magistrato sfila nel corteo dei sionisti e con una malandata telecamera filma cosa succede, o cosa pare succedere. La giustizia borghese e sionista nemmeno ci prova a filmare dai lati del corteo per registrare le provocazioni nei nostri confronti. No, gli ordini sono precisi: “Crediamo, infatti, importante spiegare agli italiani che il sionismo è un ideale alto, nobile e giusto”.
Ecco, noi a partire dal 2005 non ci siamo stati e non ci staremo.
Cosa succede veramente il 25 aprile a Milano (come in altre città)
Il 25 aprile in piazza San Babila, come in altre città, si scontrano due progetti politici: il primo che rivendica la cancellazione del popolo palestinese, progetto ideato a partire dalla fine dell’800 ed iniziato negli anni 30 del 900 (il culmine si è avuto nel 1948 con quello che è stata chiamata la Nakba, ovvero la “Catastrofe” per i palestinesi).
L’altro progetto, quello che noi sosteniamo, è quello della resistenza palestinese che si oppone a tutto questo.
“Crediamo, infatti, importante spiegare agli italiani che il sionismo è un ideale alto, nobile e giusto”. Esattamente quello cui ci siamo opposti, ci opponiamo e ci opporremo fino a quando la Palestina non sarà libera.
Francesco Giordano
Post Scriptum: non che mi importi molto, ma la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), le cui sentenze sono vincolanti per tutto il continente europeo, ha legittimato la campagna Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS), definita “interesse generale” l’azione di questi attivisti, e ha ritenuto gravissimo il fatto di aver negato alle persone il diritto di esprimere pacificamente le proprie opinioni politiche.
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La definizione di antisemitismo dell’IHRA mette a tacere la solidarietà – Rowan Gaudet
La recente adozione della controversa definizione di antisemitismo dell’IHRA per mettere a tacere il dibattito politico sulla Palestina mostra quanto sia un’arma pericolosa.
Approvata originariamente dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (International Holocaust Remembrance Alliance – IHRA) nel 2016, la definizione effettiva all’interno della Definizione Pratica di Antisemitismo (Working Definition of Anti-Semitism) dell’IHRA è vaga ma non particolarmente controversa.
La minaccia del linguaggio critico nei confronti di Israele sorge con gli 11 esempi asserviti al modo in cui la definizione dovrebbe essere applicata.
Molti di questi esempi estendono l’antisemitismo alle discussioni su Israele, come negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione.
Qualsiasi dichiarazione considerata delegittimante verso Israele, come definirla un’istituzione razzista, è quindi considerata antisemita per impostazione predefinita.
La definizione pratica di antisemitismo dell’IHRA contiene un paragrafo che consente la critica di Israele.
Nonostante ciò, l’associazione canadese Voci Ebraiche Indipendenti (Independent Jewish Voices Canada) ha documentato più di due dozzine di casi in cui la definizione dell’IHRA viene utilizzata per zittire il Movimento per la Difesa dei Diritti Palestinesi in Europa e Nord America.
Studenti presi di mira
Alla fine del 2019, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che fonde le critiche a Israele con il fanatismo antiebraico, adottando il linguaggio della definizione dell’IHRA.
Poco dopo, il Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti ha iniziato a indagare sull’Università della California a Los Angeles per aver ospitato la conferenza nazionale degli Studenti per la Giustizia in Palestina l’anno precedente.
La denuncia contro l’Università della California, presentata da un’organizzazione sionista riconosciuta, afferma che l’associazione Studenti per la Giustizia in Palestina è un “fronte terroristico” e che la conferenza era un “attacco contro gli studenti ebrei”.
Nel frattempo, nel Regno Unito, la studentessa di giurisprudenza Malaka Shwaikh ha subito attacchi per i commenti che ha fatto su Israele dopo essere stata eletta nel sindacato studentesco dell’Università di Exeter nel febbraio 2017.
I giornali sono stati costretti a rettificare, modificare i titoli e scusarsi per le false affermazioni fatte su Shwaikh.
Shwaikh, che in precedenza aveva contribuito a organizzare una marcia contro l’antisemitismo, ha affermato che “l’obiettivo di questi attacchi è intimidire coloro che difendono i diritti dei palestinesi, al fine di scoraggiare chiunque dall’attivismo pro-palestinese”.
Due anni dopo, un consiglio di Londra ha rifiutato lo spazio per la raccolta fondi dell’associazione “The Big Ride for Palestine” per acquistare attrezzature sportive destinate ai bambini di Gaza. Le richieste di libertà di informazione hanno rivelato che i funzionari temevano che l’evento potesse contravvenire alla definizione dell’IHRA a causa dei riferimenti all’apartheid e alla pulizia etnica presenti sul sito web di The Big Ride for Palestine.
Solidarietà messa a tacere
La Definizione Pratica dell’IHRA è stata usata per colpire la solidarietà degli afroamericani con la Palestina poiché i gruppi sionisti percepiscono la lotta intersezionale come una minaccia strategica.
Nel 2018, Emory Douglas, che ha lavorato come Ministro della Cultura per il Black Panther Party, è stato accusato di fomentare l’odio antisemita per aver mostrato un’immagine raffigurante il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e Hitler con il testo “colpevole di genocidio” durante una conferenza ospitata presso l’Università del Michigan.
Nel frattempo in Germania, il filosofo post-coloniale camerunese Achille Mbembe è stato accusato di antisemitismo per aver tracciato somiglianze tra l’apartheid israeliano e quello sudafricano, mettendo in discussione la “legittimità” di Israele.
La solidarietà ebraica con la Palestina non è stata risparmiata dall’essere diffamata come antisemita.
Dopo la sparatoria di massa in una sinagoga a Pittsburgh e il mortale bombardamento israeliano a Gaza nel 2018, Students for Justice in Palestine and Jewish Voice for Peace hanno pianificato una veglia congiunta presso l’Università della California, nel campus di Berkeley.
Gli organizzatori hanno dovuto affrontare una reazione ostile, tra cui una denuncia presentata al Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti sostenendo, tra le altre cose, che la veglia avrebbe ritratto Israele come una nazione razzista, azione che rientra nella definizione di antisemitismo dell’IHRA.
Di fronte a questa pressione la veglia pubblica fu cancellata e l’evento si tenne privatamente fuori dal campus universitario.
In Germania, la Banca per l’Economia Sociale ha indagato e alla fine ha chiuso il conto di Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East, un gruppo che sostiene il Movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a sostegno dei diritti dei palestinesi.
La banca aveva subito pressioni da parte del governo israeliano e dei suoi sostenitori locali, ritrovandosi nell’elenco dei 10 peggiori episodi antisemiti mondiali del Centro Simon Wiesenthal per il 2018 per aver inizialmente mantenuto il conto deposito di Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East.
Secondo Iris Hefets di Jewish Voice, la banca si è basata sulla definizione dell’IHRA nella sua decisione di chiudere il conto del gruppo, la prima chiusura di un conto appartenente a un’organizzazione ebraica nella Germania del dopoguerra.
Quasi 30 paesi hanno adottato la definizione IHRA, tra cui Francia, Italia, Argentina, Grecia e Canada. Anche molti governi locali l’hanno adottata. La definizione di antisemitismo dell’IHRA è una grave minaccia per il Movimento di Solidarietà Palestinese in tutto il mondo.
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
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La seconda Intifada, 20 anni dopo: migliaia di morti per una lotta fallita – Gideon Levy
Lo Yom Kippur quest’anno segnerà gli anniversari dello scoppio di due degli eventi più violenti nella storia di Israele, eventi che hanno plasmato il suo carattere per anni. Saranno 47 anni dall’inizio della guerra dello Yom Kippur e 20 anni dallo scoppio della Seconda Intifada. Entrambi hanno colto Israele di sorpresa, ma nessuno dei due avrebbe dovuto sorprendere nessuno.
Il 28 settembre 2000 Ariel Sharon visitò il Monte del Tempio nella Città Vecchia di Gerusalemme e la polveriera esplose. Il giorno dopo, un soldato delle forze di difesa israeliane e sette palestinesi furono uccisi. Il giorno seguente, l’uccisione del dodicenne Mohammed al-Dura nella Striscia di Gaza in un fuoco incrociato fu ripresa dalle telecamere. Nei giorni seguenti, un ufficiale della polizia di frontiera israeliana della comunità drusa, Madhat Yusuf, morì dissanguato nella tomba di Giuseppe a Nablus, due riservisti dell’IDF, Yosef Avrahami e Vadim Norzhich, furono assassinati a Ramallah – e il demone della resistenza violenta all’occupazione e la sua violenta repressione fuoriuscì con forza dalla bottiglia.
Sarebbero passati più di quattro anni letali prima che la furiosa rivolta venisse repressa con l’uso di una forza massiccia, e forse solo temporaneamente, solo fino alla successiva rivolta , anche se al momento non se ne vedono segni all’orizzonte.
Per Israele, la Seconda Intifada si trasformò nell’incubo di autobus che esplodono e di attentatori suicidi, anni di incessante orrore e paura per i cittadini del Paese. Per i palestinesi, furono anni di brutale repressione, estesi spargimenti di sangue, assedi, chiusure, serrate, posti di blocco, arresti di massa e anche combattimenti e sacrifici che non li portarono da nessuna parte.
Vent’anni dopo, la loro situazione è peggiore, più disperata di quanto non fosse prima dello scoppio dell’Intifada di Al-Aqsa e più cupa che mai: solo nella Nakba, la catastrofe del 1948, la loro situazione è stata ancora più dura e senza speranza. Ma questo non è un gioco a somma zero. Non è mai un gioco a somma zero: il loro sangue e il nostro sangue sono stati superflui, il loro sangue e il nostro sangue sono stati versati invano. Solo il prezzo che hanno pagato, come sempre, è stato di gran lunga superiore al prezzo pagato dagli israeliani. Secondo i dati del servizio di sicurezza Shin Bet, ci sono stati 138 attacchi suicidi e 1.038 israeliani uccisi dal 28 settembre 2000 all’8 febbraio 2005; 3.189 i palestinesi uccisi, secondo i dati dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Inoltre, 4.100 case palestinesi sono state demolite e circa 6.000 palestinesi arrestati.
Questa settimana sono tornato ad allora, agli articoli, ai rapporti e agli appunti presi, dalla parte palestinese, nei primi giorni di quella che divenne rapidamente l’Intifada di Al-Aqsa. Le prime tre vittime palestinesi le cui storie noi – il fotografo Miki Kratsman ed io –raccontammo , subito alla fine della prima settimana di rivolta, erano bambini. Uno era ferito, uno stava morendo e il terzo era già morto.
Israele lanciò la sua repressione sparando alla testa dei bambini sul Monte del Tempio: Ala Badran, 12 anni, perse un occhio; Mohammed Joda, 13 anni, giaceva moribondo nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Makassed a Gerusalemme est; e Majdi Maslamani, 15 anni, era già morto e sepolto nel cimitero del quartiere di Gerusalemme di Beit Hanina. Circa 10 giorni dopo l’inizio dell’intifada, 14 bambini palestinesi erano già stati uccisi. Questi casi furono a malapena riportati dai media israeliani, che come al solito si occuparono quasi esclusivamente delle vittime ebree, allora ancora poche.
Quando incontrammo il direttore del Makassed Hospital, il dottor Khaled Qurei – fratello di uno degli architetti degli accordi di Oslo, Ahmed Qurei (meglio conosciuto come Abu Ala) – questi aveva già esposto nel suo ufficio 16 barattoli contenenti i proiettili rimossi dai feriti. Uno di loro, Joda, era cerebralmente morto. Suo padre, un camionista, era appena tornato dall’insediamento di Har Homa a Gerusalemme, dove aveva effettuato una colata di cemento, quando suo figlio era stato colpito alla testa sul Monte del Tempio.
“Amico, ti rendi conto che questo è un ragazzo di 13 anni?” Il dottor Wahab Dajani, un medico del reparto di terapia intensiva che aveva già visto tutto, ci urlò contro.
A poche centinaia di metri, nel quartiere di Beit Hanina, era già in corso il lutto per Maslamani. Il padre, Samir, proprietario di un negozio di computer a Gerusalemme est chiamato Japanese Technology Center, riferì che suo figlio era andato al Monte del Tempio il 6 ottobre per protestare contro il blocco imposto ai Territori. Un proiettile lo aveva colpito in testa da distanza ravvicinata.
Ala Badran subì un destino meno brutale: perse solo un occhio. La regina Elisabetta sorrideva da un ritratto all’ingresso del St. John of Jerusalem Eye Hospital nella città orientale, dove nelle prime due settimane dell’intifada 11 bambini furono operati dopo essere stati colpiti. Ala era uno di loro. Sua madre non gli disse fino a pochi giorni dopo l’operazione che aveva perso un occhio in modo permanente.
La visita alla stazione di polizia di Ramallah il 15 ottobre, tre giorni dopo il linciaggio dei due riservisti israeliani, fu molto più tesa. Il capo della stazione, il colonnello Kamal al-Sheikh, ci disse che aveva cercato di proteggere fisicamente i due soldati in uniforme ma che la folla che aveva invaso il luogo lo aveva spinto con la forza contro il muro e aveva portato via i due soldati. Al-Sheikh fu l’ultima persona a vederli vivi. L’incidente fu “il più grande fallimento dell’Autorità Palestinese” e “la più grande umiliazione mia e della polizia di Ramallah”, ci disse . Gli israeliani, scioccati dalle fotografie del sangue e dei corpi gettati fuori dalla finestra del secondo piano, non erano pronti ad ascoltare il suo racconto e la sua pubblicazione suscitò molta rabbia.
Una settimana dopo, visitammo la casa di Jamil Muslith, un fornaio di Beit Jala, fuori Betlemme, la cui casa era stata bombardata dall’IDF. Era ancora scosso dall’evento. Sua moglie Munawar e i nove figli si erano salvati per miracolo. Ma incollate sui muri della città c’erano le fotografie del quattordicenne Mueid Juarish, il cui cranio pochi giorni prima era stato frantumato da un proiettile di un soldato. Beit Jala era allora sotto il coprifuoco e le sue strade erano già ampiamente distrutte. Questa era stata la risposta di Israele alla sparatoria diretta all’adiacente quartiere ebraico di Gilo, costruito da Israele dopo il 1967 oltre la linea verde. Era difficile credere che solo un anno prima un gruppo di bambini di Beit Jala avesse assistito a un concerto della Israel Philharmonic a Gerusalemme, e che un anno prima Leah Rabin avesse inaugurato qui un centro israelo-palestinese per la protezione ambientale.
Il campo profughi di Deheisheh si trova a pochi chilometri a sud di Beit Jala. Mentre a Beit Jala si parlava ancora di pace, a Deheisheh si parlava di guerra. Durante le prime settimane dell’intifada un’ondata di emozioni di rabbia e vendetta attraversò le strade del campo profughi, dove solo pochi anni prima avevamo seguito una vivace campagna elettorale per il Consiglio Legislativo Palestinese. Ora, i residenti andavano alle manifestazioni intrise di sangue vicino alla Tomba di Rachele, che divenne un punto focale di resistenza. In estate facemmo visita a Rami Maali, un ragazzo della vicina Betlemme che vendeva succhi di frutta e il cui braccio era stato rotto senza motivo da un soldato dell’IDF.
Sulle pareti di Deheisheh c’erano Che Guevara e George Habash, fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Tutta l’amarezza accumulatasi nel corso di decenni di esilio e di occupazione esplose all’improvviso in questo campo militante. Qui il sogno del ritorno non era mai stato abbandonato. E forse non lo sarà mai.
“Prima di questa Intifada eravamo oppressi”, ci disse uno degli uomini armati. “Ora i nostri spiriti sono stati risollevati. Pensavano di poter infrangere il nostro sogno. Di cancellare i palestinesi dalla storia. Ma l’Intifada ha ripristinato il nostro sogno. Sarà difficile tornare a quello che c’era prima. [Yasser] Arafat e [Ehud] Barak non potranno più tenere colloqui. Di cosa parleranno? Oslo è finita. ”
E poi iniziarono gli omicidi mirati. Lo studente e attivista della Jihad islamica Anwar Himran uscì dall’università di Nablus dopo aver sostenuto un esame, libri in mano, sua moglie a fianco, e si mise ad aspettare un taxi. Venti colpi di un cecchino dell’IDF lo colpirono da una distanza di 300 metri, dall’alto del monte Gerizim. Un buon numero di passanti rimasero uccisi nel corso degli omicidi. A dicembre, un totale di 250 palestinesi erano già stati uccisi in tali incidenti e in altre circostanze.
Tre mesi prima dello scoppio dell’Intifada, avevamo pubblicato una fotografia della vetrina del negozio “Oslo Shirts” a Nablus. Il proprietario, Saad al-Haruf, che dopo anni di esilio parlava tedesco, ci aveva avvertito allora della rivolta incombente. Alla fine di dicembre fu assassinato, quando qualcuno, fingendosi un conoscente, lo chiamò a tarda notte e gli chiese di andarlo a salvare nella sua macchina.
Il campo profughi di Al-Fawar, a sud di Hebron, era sotto assedio quando uno dei suoi residenti, Samar al-Hodor, 18 anni, fu colpito e ucciso dai soldati poche ore prima del suo matrimonio. Erano passate solo due settimane dall’inizio dell’Intifada. Al-Hodor fu sepolto con l’abito che i suoi genitori gli avevano comprato per il matrimonio . Da allora l’assedio imposto al campo durò ancora per mesi. Le strade in Cisgiordania furono gradualmente bloccate.
“Avete diviso la Palestina, ora ogni villaggio è uno stato indipendente”, ci disse nel campo un impiegato dell’Agenzia di Sviluppo delle Nazioni Unite.
Poche settimane dopo, un tassista, Ismail al-Talabani, 50 anni, fu ucciso vicino all’insediamento di Netzarim nella Striscia di Gaza, semplicemente perché aveva osato guidare vicino a un convoglio di auto di coloni di passaggio. Sabarin Balut è nata in un taxi in Cisgiordania mentre i suoi genitori imploravano i soldati di farli arrivare in ospedale. Scese dal taxi ancora collegata a sua madre dal cordone ombelicale, mentre i soldati ridevano.
Nel marzo 2001 pubblicammo le fotografie di 66 bambini palestinesi che erano stati uccisi dall’inizio dello scoppio della Seconda Intifada. All’epoca, Obai Daraj, un bambino di 8 anni che stava giocando in casa quando un proiettile vagante era entrato nella sua stanza, era l’ultima vittima. Successivamente venne raggiunto da molte altre giovani vittime, sia israeliane che, principalmente, palestinesi. Poche settimane prima, il 6 febbraio, Ariel Sharon, la cui visita al Monte del Tempio aveva innescato tutto, era stato eletto Primo Ministro di Israele.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina-org
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Edward Said: intellettuale americano, patriota palestinese, demolitore di dogmi – Khaled Beydoun
Edward Said, morto 17 anni fa oggi, è stato chiamato in molti modi. Un critico letterario ed un esule, una voce inflessibile a favore dell’autodeterminazione palestinese, un educatore, un apripista, un “normalizzatore” e persino “un profeta della violenza politica”, quella che sta avvenendo negli Stati Uniti oggi, diciassette anni dopo il suo ultimo respiro.
Durante una vita durata quasi sessantotto anni e testimone di correnti e mutamenti geopolitici, Said si è distinto come uno degli intellettuali pubblici più incisivi al mondo. Palestinese di nascita e americano per scelta, Said assunse questo ruolo agli inizi degli anni ’80 in seguito alla pubblicazione di “Orientalismo”, un testo che smantellava le false rappresentazioni europee dell’Islam nei suoi annali letterari.
Questo momento converse con le conseguenze della crisi degli ostaggi iraniani e l’ascesa della Repubblica Islamica dell’Iran, che ri-orientò l’intero Islam come “nemico dell’Occidente”. E a sua volta, spinse Said e il suo lavoro al centro della scena pubblica.
Lì, seduto davanti alle telecamere e accanto a intellettuali contemporanei e avversari, è dove Said crebbe. Discutendo e analizzando le turbolenze politiche del giorno nei corridoi del potere a lungo monopolizzati dagli uomini bianchi, è dove Said – un esule che incarnava il termine fino al midollo- rivelò la sua vera identità: un intellettuale pubblico di prim’ordine, ferocemente fedele alle idee e solo alle idee. Non vincolato a governi o organizzazioni, a entità professionali o partiti politici che potessero interrompere la sua fedeltà alla verità.
Said mise in parallelo la sua vita di intellettuale con un inflessibile impegno per la causa palestinese. Alla fine degli anni ’70, mentre era un professore alle prime armi alla Columbia University di New York, militò come membro del Consiglio Nazionale Palestinese (PNC), un’anomalia considerato il suo rifiuto di arruolarsi in organizzazioni e legarsi ad ideologie. Rimase membro del Consiglio fino al 1991, due anni prima che Yasser Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) firmassero gli Accordi di Oslo, una misura che denunciò con enfasi e che notoriamente definì la “Versailles palestinese”; non perché non credesse nella pace o nel dialogo, ma perché pensava che Arafat, firmando, aveva ceduto su tutte le richieste palestinesi non ottenendo in cambio nulla di rilevante per i palestinesi.
Sul fronte interno, Said è stata una voce fondamentale per l’American Arab Anti-Discrimination Committee (ADC), la più grande organizzazione per i diritti civili arabo-americani, fornendo una base per analizzare le repressioni delle libertà civili verso gli arabi e i musulmani, repressioni che crebbero negli anni ’90 e aumentarono in modo orribile dopo l’11 settembre.
Nel maggio 2001, diversi mesi prima degli attacchi terroristici dell’11 settembre, Said sostenne un dibattito con il famoso Christopher Hitchens, attestato su posizioni a lui opposte sulla questione della Palestina. Durante la prima parte del dibattito, Said parlò del suo incontro casuale con il pianista e direttore d’orchestra israeliano Daniel Barenboim in un hotel di Londra nel 1994. Nella hall di quell’hotel, uno studioso palestinese che si preparava a tenere una serie di conferenze per la BBC aveva incrociato un musicista israeliano che si preparava per il suo concerto.
Là, in quella hall di un hotel di Londra, in un incontro da cui ci si aspettava che una “testa calda” palestinese e un cittadino israeliano proseguissero l’uno accanto all’altro o addirittura si scontrassero, è dove sbocciò “una grande amicizia”.
I due uomini trascorsero il fine settimana insieme a Londra, alle prese con le loro differenze, grazie all’amore condiviso per la musica. E cinque anni dopo, Said organizzò un concerto per Barenboim alla Bir Zeit University in Cisgiordania. Fu una delle prime volte che un musicista israeliano si esibì nei Territori Palestinesi.
Quella sera, il 29 gennaio 1999, cinquecento persone “si pigiarono” nella Sala Kamal Nasir dell’Università. E per due ore, l’ombra opprimente dei popoli in guerra e gli striduli pericoli che essa faceva risuonare, furono soffocati dalla maestosità della musica.
Questo venne orchestrato da Edward Said. Un autore intellettuale il cui incessante impegno per i principi, in particolare l’umanesimo e la sua ferma opposizione ai dogmi religiosi e secolari, lo spinse a formare legami iconoclastici con menti volubili come Hitchens; impegnarsi in pacati scambi con orientalisti come Bernard Lewis; e perseguire amicizie trasformative con musicisti israeliani come Barenboim.
Esule sotto ogni aspetto, Said ha sfidato i comodi approdi del dogma politico a favore della errante libertà della complessità. Si rifiutò di lasciarsi vincolare da una qualsiasi delle sue molte identità e si ribellò furiosamente a tutti i singoli confini intellettuali.
Lo fece rimanendo fermamente legato ai principi e alle questioni che formavano il nucleo delle sue preoccupazioni intellettuali: l’autodeterminazione palestinese, la scoperta dell’Islam oltre il suo vincolo orientalista e l’umanesimo che legava i due.
Troppo spesso un dogma che monopolizza il cuore sembra rivendicare una ristretta trama di rettitudine morale, apparendo a volte fissato nel punire coloro che osano andare oltre. La destra fa esattamente lo stesso anche se, ovviamente, con molto più peso politico e risorse dietro di sé: l’isteria attorno a termini come “teoria critica” è progettata per intimidire, non per persuadere.
Contro questo tetro paesaggio di posizioni trincerate e fortificate come i Campi delle Fiandre, Said, un intellettuale americano palestinese che ha sfidato i sistemi binari e gli estremi di tutti gli ordini, conta ancora oggi.
In effetti, l’ironia dei recenti commenti che appiccicano a Said l’etichetta di “profeta violento” dei recenti movimenti, rivela l’ignoranza su chi sia stato e su quale sia stato il suo lavoro. Said non solo rifiuterebbe l’anti-intellettualismo che stende una mano arrogante contro il libero scambio e la libertà accademica, ma si ribellerebbe e combatterebbe per preservare queste idee.
Oggi, con poche eccezioni, gli esperti di sinistra e di destra sono impegnati in un continuo scambio vizioso e insulso di attacchi personali. Gli attacchi divampano attraverso un divario politico sempre più ampio, quasi mai incontrandosi nel mezzo per discutere.
Fare quello che ha fatto Said oggi sarebbe “programmare ” un “nemico”, per usare il particolare linguaggio da attivismo politico. È difficile immaginare qualcosa come i dibattiti tra Said e Hitchens, (che alla fine divenne un sostenitore della guerra illegale in Iraq), sulla Guerra al Terrore e sullo “scontro di civiltà” che la supporta. E la scissione intellettuale manichea prevalente in troppe arene abortirebbe la possibilità che il palestinese Said faciliti la performance musicale dell’israeliano Barenboim in Cisgiordania e le molte conversazioni che seguirono. Avrebbe fatto pressioni contro di essa e avrebbe messo in dubbio la stessa amicizia come sleale o sovversiva.
Nel processo, questa divisione avrebbe privato un popolo oppresso di quell’inafferrabile libertà ispirata dalla musica. Questo potrebbe sembrare banale ed eccentrico se paragonato ai veri mali che gli attivisti stanno combattendo oggi. Ma la musica, la cultura, l’impegno intellettuale hanno un modo di trasformare la realtà che trascende e contraddice anche gli ostacoli materiali più duri. La musica si libra e vaga oltre i confini tracciati dall’uomo lungo territori contesi, oltre i confini ideologici disegnati ancora più profondamente nelle menti; permette di stabilire connessioni e alleanze dove anche lo scambio polemico più ispirato non può forgiarne nessuno.
Niente di tutto questo vuole suggerire che Said non sosterrebbe oggi negli Stati Uniti la lotta di “Black Lives Matter”. Naturalmente, lo farebbe, e lo farebbe in termini forti. Ma ricostruire Edward Said come un totem di violenza anti-intellettuale, vuol dire commettere lo stesso atto di revisionismo storico che lui disarmò così magistralmente con la sua penna. E ancor di più, con il suo percorso di vita personale.
Said ha vagato in modo indipendente al di sopra degli scismi sempre più diffusi del dogma che, nel 2020, acquieta le sinfonie del libero scambio e inghiotte coloro che osano attraversare quella distesa di mezzo, quella che l’acuta pensatrice americana Sarah Kendzior ha definito l’intellettuale “paese cavalcavia” in cui le sfumature sono trascurate e alla complessità viene data carne, ossa e voce.
Come la musica, Said – l’esule che trovava stabilità solo nei santuari dei principi e nelle pubbliche piazze dell’impegno e dello scambio intellettuale – vagava ribelle di fronte al patriottismo sciovinista che ci intrappola oggi. Raramente la sua voce è mancata così dolorosamente.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org
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Di cosa sei orgoglioso quando pensi allo Stato di Israele? – Gideon Levy
…finché le vittime del sionismo e dell’occupazione continueranno a tagliare alberi nei campi per noi, non c’è motivo di orgoglio.
Un gruppo di operai palestinesi si appoggiò sugli alberi abbattuti che furono trascinati come cadaveri da un trattore, e segarono i tronchi in piccoli ceppi. La prima luce stava sorgendo sui campi a nord di Tel Aviv. A poche centinaia di metri da lì, un quartiere residenziale dormiva ancora; il rumore delle motoseghe e il fumo non avevano penetrato le spesse finestre delle eleganti ville.
I lavoratori con i loro abiti logori e stracciati lavoravano senza alcun tipo di equipaggiamento protettivo. Avevano lasciato le loro case in Cisgiordania nel mezzo della notte e sono passati attraverso gli umilianti checkpoint per tagliare gli alberi lungo l’autostrada Ayalon, dove si sta costruendo una nuova corsia per decongestionare la viabilità. Chi viaggia in autostrada non ha ricambiato nemmeno uno sguardo ai lavoratori che renderanno il loro viaggio più facile in futuro. Questo è l’ordine naturale delle cose: i palestinesi come taglialegna per gli israeliani.
Hanno lavorato così sotto il sole cocente tutto il giorno. L’appaltatore israeliano sedeva all’ombra e controllava da lontano. Lo spettacolo ricordava l’ambientazione schiavista negli Stati Uniti o l’apartheid in Sud Africa; il quartiere di lusso sullo sfondo, l’appaltatore israeliano, i lavoratori palestinesi, i salari da fame, il ritorno nel ghetto la sera; in una moltitudine bianca, un gruppo di neri fa la raccolta.
Ore dopo, a Washington furono firmati gli accordi tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Non bisogna sottovalutare il loro valore o la loro importanza, né lesinare i complimenti al primo ministro per averli raggiunti. Hanno promosso l’accettazione di Israele nella regione, dopo anni in cui Israele ha voltato le spalle e puntato le armi nella loro direzione. Ma nulla di ciò che è stato firmato a Washington cambierà la realtà del campo di alberi abbattuti a nord di Tel Aviv. La tirannia, lo sfruttamento e l’esproprio rimarranno tali.
Gli accordi sono stati firmati alla vigilia di Rosh Hashanah, il capodanno ebraico. Questo è un ottimo momento per chiedere: Di cosa vai fiero quando pensi allo Stato di Israele? Di tutto quello che ci hanno detto durante la nostra infanzia e inculcato durante l’adolescenza, cosa rimane di cui essere orgogliosi?
Gli israeliani amano lamentarsi del loro paese, ma ne sono ancora molto orgogliosi. Il loro orgoglio, che molto rapidamente si trasforma in arroganza, è particolarmente marcato quando visitano altri paesi: Gli americani sono ingenui, i tedeschi sono inquadrati, gli italiani sono stupidi, i cinesi sono strani, gli scandinavi sono fessi, gli arabi sono arretrati e gli africani primitivi. Israele è il massimo. Non si può fare a meno di incontrare la condiscendenza, soprattutto tra i giovani, in ogni escursione in Sud America e in ogni Casa Chabad [1] in Asia. Ci partoriscono in casa e ci nutrono a scuola e nell’esercito. Siamo i migliori. Non c’è nessuno come noi. È uno dei maggiori ostacoli al raggiungimento della pace nella regione.
La realtà avrebbe dovuto far vergognare ogni israeliano del proprio paese, a causa dell’occupazione, ma non è tutto. La violenza di strada, l’emarginazione, l’aggressione, l’ignoranza, il razzismo, l’ultra-nazionalismo, la maleducazione, l’indigenza, il sistema sanitario al collasso, l’esercito eroico principalmente contro i deboli e costruito sul marciume morale, la mancanza di considerazione per gli altri in tutti gli aspetti della vita, e ora la gestione vergognosa della pandemia. Ma meraviglia delle meraviglie, gli israeliani sono ancora convinti di essere i migliori. La nazione start-up. Start-up di cosa, esattamente? Irrigazione a goccia?
La miracolosa fondazione dello Stato, che fu un evento straordinario e senza precedenti, anche se basato su una totale e profonda ingiustizia, giustificava davvero l’altissimo orgoglio nazionale. Nella parte anteriore dell’autobus che trasportava la delegazione giovanile di cui facevo parte alla fine degli anni ’60, sventolavamo orgogliosamente la bandiera israeliana. Oggi, in molti di quei paesi dobbiamo nascondere tutto ciò che ci identifica come israeliani, per la vergogna.
Possiamo e dobbiamo essere orgogliosi del nostro Primo Ministro, che è stato al fianco del presidente degli Stati Uniti e di due ministri degli esteri arabi nel prato sud della Casa Bianca. Ma finché le vittime del sionismo e dell’occupazione continueranno a tagliare alberi nei campi per noi, non c’è motivo di orgoglio.
Note:
[1] Casa Chabad – Wikipedia
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
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VENT’ANNI DOPO LA SECONDA INTIFADA, LA VITTORIA ISRAELIANA È QUASI COMPLETA – AMIRA HASS
(tradotto da Beniamino Benjio Rocchetto)
La seconda intifada è scoppiata perché Israele ha sfruttato i negoziati con i palestinesi per portare avanti il suo progetto di furto della terra. L’ipocrisia imperava, parlare di pace pur continuando a conquistare la terra palestinese a beneficio degli israeliani. L’ipocrisia imperava, ma gli israeliani non se ne accorsero.
La rabbia e il disgusto per la sottomissione israeliana, accumulati in anni di delusione e moderazione dopo gli Accordi di Oslo, esplose il 29 settembre 2000 (il giorno dopo la provocazione di Ariel Sharon, con l’approvazione dell’allora primo ministro Ehud Barak). Ma la seconda intifada non fu un’intifada nel senso comune del termine: tranne che per i primi giorni, non fu un evento collettivo e la maggior parte della popolazione non vi partecipò, a differenza della rivolta scoppiata nel 1987. La caratteristica popolare-collettiva che si è conservata in essa era il Sumud (fermezza) mostrato da tutti i palestinesi di fronte alle repressive e punitive misure israeliane e alla politica di logoramento economico.
Le Forze di “Difesa” Israeliane (IDF), la polizia di frontiera e la polizia, che hanno usato mezzi letali per reprimere le proteste fin dal primo giorno, sono riuscite a scoraggiare i potenziali manifestanti. Yasser Arafat e il suo seguito erano preoccupati per le critiche che si potevano sentire in quelle manifestazioni, dirette all’Autorità Palestinese e a Fatah. Diedero il via libera a Fatah e alle forze di sicurezza per usare le armi nei punti di attrito con l’esercito israeliano e così, ancora una volta, con il pretesto della resistenza, hanno preso il controllo delle manifestazioni. Calcolando anche che questa militarizzazione avrebbe rafforzato la posizione negoziale palestinese. Credevano ancora di poter fermare l’avanzata coloniale israeliana nei territori del 1967.
L’efficiente macchina propagandistica dell’Unità del Portavoce dell’IDF e dei portavoce del governo è riuscita a costruire la menzogna che le battaglie sul campo fossero combattute tra eserciti uguali e che “iniziarono” i palestinesi. Allora, come adesso, la maggioranza israeliana prestava poca attenzione alle vittime palestinesi e non considerava il furto delle loro terre come un’aggressione istituzionale. Allo stesso tempo, il numero di palestinesi disarmati uccisi da Israele ha continuato a crescere. Ad ogni morte, l’appello palestinese alla vendetta diventava più forte. Con e senza il via libera dei vertici, palestinesi armati hanno sparato ai civili israeliani (anche loro armati, come lo sono molti dei coloni) in Cisgiordania e Gaza.
Hamas si è unito tardivamente e ha dimostrato, se il successo è misurato nel numero di cadaveri israeliani, essere stato più efficace di Fatah. Israele ha cancellato la linea verde, quindi perché non si dovrebbero riprendere ad attaccare gli israeliani all’interno di Israele? Le ali armate di Hamas e Fatah hanno gareggiato tra loro e hanno perso nella competizione con l’IDF sul numero delle vittime. Gli attentati suicidi hanno creato un equilibrio di terrore con gli israeliani ma non hanno fermato i bulldozer dell’Amministrazione Civile.
Ci sono quattro fallimenti in tutto. La prima Intifada, con la sua promettente richiesta di uno Stato sovrano entro i confini del 4 giugno 1967, fallì. I colloqui di Madrid e Oslo, iniziati in seguito, non hanno diminuito il furto sistematico della terra palestinese. Anche la tattica diplomatica e di accettazione di Mahmoud Abbas alle Nazioni Unite è fallita: le condanne dei paesi occidentali non costituiscono una politica, hanno l’unico scopo di tutelarsi. Con l’eccezione di pochi successi isolati, anche le battaglie popolari e legali contro il furto di terra fallirono. E nemmeno l’uso delle armi, che molti palestinesi considerano l’apice della lotta e della resistenza, anche se solo pochi scelgono di farlo, ha fermato il processo. L’uso delle armi è un’espressione di rabbia e desiderio di vendetta. Non ha alcun valore strategico.
Vent’anni dopo, la vittoria israeliana è quasi completa: la ben pianificata rapina a mano armata di terra palestinese va avanti ogni giorno senza ostacoli. Il modello che Israele ha creato a Gaza viene copiato in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) diventando qualcosa di simile a “Ghetti” che, finché non mostrano segni di rabbia e ribellione, non sono di alcun interesse per gli israeliani, il sovrano supremo.
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Israeliani e palestinesi. Per uno Stato unico una soluzione c’è – Vera Pegna
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 32 del 19/09/2020
L’indignazione. Le scelte politiche principali della mia vita sono state motivate dall’indignazione, a volte suscitata e a volte scatenata dall’uso improprio e, non di rado, fraudolento delle parole.
Se la storia del territorio chiamato Palestina, antecedente il 1948 e la proclamazione dello Stato d’Israele, ci fosse raccontata con un linguaggio schietto e scevro d’inganni, l’immagine che avremmo della narrazione dei successivi 72 anni illustrerebbe alla perfezione il detto di Confucio: «l’uso di termini falsi e di descrizioni ambigue può portare a delle calamità».
Sì, perché la storia degli ultimi 72 anni ha sconvolto la Palestina, privato il suo popolo in modo violento della propria terra e dei propri diritti, lo ha smembrato e isolato: ai palestinesi d’Israele vengono per legge negati i diritti riconosciuti ai loro concittadini ebrei, a quelli della Cisgiordania viene imposto l’apartheid, a quelli di Gaza un assedio brutale, ai profughi accampati nei Paesi circostanti viene negato il ritorno alla propria terra.
A tanto si è potuti arrivare grazie alle strategie della menzogna usate dalla politica contemporanea e al complice consenso assicurato a ogni mossa israeliana da governi e partiti occidentali e non solo, privi di principi morali e di senso di responsabilità collettiva; tale consenso complice, ampiamente diffuso dai media, ha generato indifferenza per la sorte dei palestinesi e per la loro stessa esistenza.
Eppure la tragedia del popolo palestinese iniziò in Europa, alla fine dell’Ottocento, con la convergenza degli interessi geopolitici occidentali e la nascita del sionismo politico. Dopo i secoli di massacri perpetrati dai governi europei nei confronti degli ebrei, i dirigenti sionisti erano convinti che l’unico modo per mettervi fine era la creazione di uno Stato tutto loro; tuttavia, per ottenere l’appoggio indispensabile delle potenze di allora al progetto di formare uno Stato ebraico in Palestina ci voleva un popolo nel cui nome avanzare tale richiesta. Rifacendosi alla Bibbia, i dirigenti sionisti annunciarono che il “popolo eletto” di Dio – ovvero tutti gli ebrei del mondo – costituivano un popolo anche in senso moderno e politico e che avevano quindi diritto alla loro terra, la Palestina; e siccome doveva essere «ebraica quanto l’Inghilterra è inglese» (Theodore Herzl) fu coniato lo slogan una terra senza popolo per un popolo senza terra; slogan che dimostra come una menzogna iniziale possa tramutarsi in una realtà a rovescio: oggi esiste Israele Stato ebraico, e il popolo senza terra sono i palestinesi.
Invece, che la Palestina non solo avesse un popolo, ma che fosse un centro di scambi vivaci, io l’ho sempre saputo perché negli anni ‘40 e ‘50 vivevo con la mia famiglia ad Alessandria d’Egitto e mio nonno ci andava spesso per affari. La scelta del linguaggio ha delle ricadute incalcolabili. Nel 1967 Israele occupa la Cisgiordania e Gaza – per Israele e i suoi sostenitori si tratta non di territori occupati ma di territori contesi –, annette Gerusalemme Est e le Alture del Golan siriano, moltiplica le colonie d’insediamento nella Cisgiordania e poi decide di annetterle insieme a buona parte della valle del Giordano, decretando che non si tratta di annessione, bensì di affermazione di sovranità. I governi occidentali emettono una flebile protesta e lasciano fare, incuranti della loro responsabilità nell’infittire la coltre di mistificazioni che avvolge la tesi israeliana della propria sovranità sulla terra di Giudea e Samaria (nome biblico della Cisgiordania); sovranità da cui discende il diritto di conquistarla con la forza, di liberarsi dei palestinesi terrorizzandoli, espellendoli, uccidendoli per costituirvi lo stato degli ebrei e solo degli ebrei.
Lo scorso gennaio Trump e Netanyahu annunciano il “Deal of the Century”, accordo infame il cui unico merito consiste nell’aver dato il colpo di grazia alla soluzione due popoli due Stati, l’ennesimo inganno che lasciava al popolo palestinese un territorio frammentato, privo di un aeroporto, dipendente da Israele per i servizi pubblici essenziali, che di uno Stato era una caricatura miserrima.
Quale sarà allora l’assetto futuro della Palestina storica? Ebbene, se la diplomazia tace, la realtà sul terreno indica la via: oggi Israele, i territori occupati e Gaza formano de facto uno Stato unico, governato dal punto di vista politico, militare e amministrativo da un’unica autorità, quella israeliana. Nel 1939, quando la Palestina era sotto mandato britannico e l’immigrazione dei coloni europei accelerava, il governo di Londra pubblicò un Libro Bianco nel quale raccomandava la costituzione di uno Stato unico a maggioranza araba; trent’anni dopo, nel 1972, durante un incontro fra Lelio Basso e Yasser Arafat cui ebbi il privilegio di partecipare, Arafat spiegò che, secondo il programma dell’OLP, l’unica via d’uscita era la costituzione di uno stato unico, laico e democratico, per palestinesi e israeliani; e precisò, non, per ebrei e arabi dove la parola ebreo serve ad inglobare tutti gli ebrei del mondo e la parola arabi serve a negare l’esistenza della nazione palestinese, bensì di un unico Stato per i due popoli, quello israeliano e quello palestinese, con la garanzia del diritto al ritorno dei profughi; è ciò che raccomanda la relazione su Israele del marzo 2017 della United Nations Economic and Social Commission for Western Asia ed è ciò che sostengono numerose organizzazioni democratiche nonché molti noti intellettuali sia arabi che occidentali.
Ma c’è di più, molto di più, a dimostrazione che lo Stato unico è la via da percorrere non solo perché esiste nei fatti, non solo perché renderebbe giustizia al popolo palestinese, non solo perché riporterebbe la legalità in quella regione martoriata dalle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.
La mappa del mio ritorno. Memoria palestinese è il titolo del libro autobiografico di Salman Abu Sitta – geografo e storico palestinese – scritto al termine di una ricerca minuziosa durata quattro decenni e pubblicata in un monumentale Atlante della Palestina. Vi sono identificati 40.000 villaggi, siti storici, edifici, proprietà terriere appartenenti a palestinesi, con i nomi dei rispettivi titolari e i luoghi dove questi vivono oggi da rifugiati; la stragrande maggioranza di essi vive sul suolo palestinese, o comunque entro un raggio di 100 chilometri dalla casa abbandonata al momento dell’espulsione. Per Abu Sitta «non si tratta di un elenco di ciò che i palestinesi hanno perso, ma dell’affermazione di ciò che continua a definire loro stessi e le generazioni future. Il legame collettivo con la loro terra costituisce la fonte della loro legittimità nazionale».
L’autore ha esteso le sue ricerche alla distribuzione abitativa degli israeliani ebrei (ad esclusione dei cosiddetti arabi d’Israele, cioè i palestinesi con cittadinanza israeliana): l’80 per cento di essi vive in solo il 17 per cento del territorio di Israele, mentre 272 villaggi contano pochissimi ebrei e 249 villaggi sono abitati esclusivamente da palestinesi. Insomma, la realtà demografica sul terreno dimostra che il ritorno dei profughi è praticabile senza grossi spostamenti della popolazione israeliana e, fatto di non poco conto, l’intera operazione verrebbe a costare una percentuale irrisoria di quanto lo Stato d’Israele spende annualmente per la sua sicurezza.
Certo, so bene che i silenzi, le resistenze, gli ostacoli, i rifiuti, un ‘opposizione anche violenta alla proposta di uno Stato unico per palestinesi e israeliani sono infiniti: è un fatto scontato, ma non ne inficiano la validità, anche se la sua costituzione richiede ovviamente uno sguardo lungo nel tempo. Però so altrettanto bene quanto sia indispensabile e urgente parlarne e documentarne la fattibilità; non fosse che per contrastare l’opera di disinformazione operata dalle strategie della menzogna. Perciò ringrazio Adista di aver accolto queste mie righe.