da “La Bottega del Barbieri”
A volte ritornano… le tangenti Lockheed
Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran 50 caccia-bombardieri Lockheed Martin F-35-II, per una cifra che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di dollari (8421514000,00 euro). L’operazione ha bisogno dell’approvazione del Congresso e, indirettamente, di Israele che per bocca del suo premier Netanyahu, amico e complice del presidente uscente che farà i bagagli a fine gennaio, ha chiesto soltanto di far in modo che venisse mantenuto, come da accordi ormai consolidati dalla legislazione Usa, la superiorità militare del suo paese su tutte le altre nazioni arabe e del Vicino Oriente.
E per mantenere questa superiorità serviranno nuove armi. Un funzionario della difesa israeliana ha atteso soltanto la conferma ufficiosa della sconfitta di Trump per dire al “Jerusalem Post” che non appena sarà possibile Tel Aviv vuole negoziare un nuovo pacchetto multimiliardario di assistenza militare da mettere in coda a quello stilato con Barak Obama e che scade nel 2027. Sicuramente dovrà tenere in considerazione la corsa degli arabi al F-35 e l’enorme quantità di armi acquistate dall’Arabia saudita negli ultimi anni. Sono stati che Israele considera alleati nella guerra all’Iran ma di cui si fida poco soprattutto per quanto riguarda la stabilità dei loro regimi. Stati clientelari per gli Usa che vi hanno basi militari importanti e che con i loro petro/gas-dollari continuano ad arricchire l’industria bellica americana. Spesso contro la volontà di una parte dell’establishment Usa, apparentemente incapace di contrastare la Casa bianca. Nel giugno di quest’anno l’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (ossia il ministero degli esteri) fu licenziato su due piedi da Trump. Il presidente lo aveva scoraggiato dall’indagare sulla massiccia vendita di armi all’Arabia saudita portata avanti nonostante l’opposizione di una parte del Congresso. Il Regno era nel mirino dei parlamentari per il suo ruolo criminale nella guerra in Yemen; per l’assassinio del giornalista del “Washington Post” Jamal Khashoggi; e anche per i finanziamenti diretti o indiretti a organizzazioni islamiste collegate al terrorismo internazionale antioccidentale.
Nuovi armamenti sofisticati e suk dell’usato sicuro
È presto per capire cosa Joe Biden, sostenitore senza incertezze d’Israele, cambierà nella confusa politica Usa nei confronti di quella regione. È probabile un ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran e forse ci sarà qualche passo per fermare l’idea – la “Abraham Peace” perorata da Trump e dal suo entourage di ebrei americani vicini a Netanyahu e alle sue idee estremiste – di mettere fine al conflitto arabo-israeliano, abbandonando completamente il popolo palestinese a un destino incomprensibile. Non è detto, però, che il Congresso bloccherà la vendita degli F-35 agli Emirati: non ha mai vietato una vendita già decisa al livello governativo. Di sicuro, se come probabile andrà avanti, favorirà una rinnovata corsa a nuovi più sofisticati armamenti da parte di tutti i giocatori, grandi e minuscoli, della regione. E con l’arrivo delle nuove armi, si movimenterà il solito grande suk dell’usato che come più di una volta in passato potrebbe portare armi “superate” ma più che efficienti nelle mani dei nemici degli Usa e dell’intero mondo occidentale.
Un filo di acciaio imbastisce l’industria bellica con la politica americana
Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barak Obama, responsabile quanto meno della devastazione della Libia e, in qualche modo, anche della Siria, mantenendo le sue promesse pre-elettorali non ha avviato nuovi conflitti ma questo non significa che non abbia mantenuto quello stretto rapporto che da anni lega il mondo degli armamenti alla politica americana. E non solo americana. Oltre mezzo secolo dopo il famoso discorso-ammonimento d’addio dell’allora presidente Usa Dwight D. Eisenhower, i timori del generale passato alla politica sono diventati una realtà che influisce su tutti gli inquilini della sala ovale. E su chi aspira ad abitarci.
«Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».
Ike didn’t like weapons?
Pochi allora vollero attribuire molta importanza a quelle parole di Eisenhower – il generale che aveva portato alla vittoria l’alleanza contro il nazifascismo – pronunciate il 17 gennaio 1961 nel momento in cui stava lasciando la Casa bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsider alla politica come l’attore Ronald Reagan, di ben altro spessore grazie a una squadra di consiglieri più capaci. Ike, così era chiamato da tutti, era l’uomo più popolare degli Stati Uniti. Sei anni prima, il 17 giugno 1945, mia madre volle portarmi – avevo sei anni – dalla nostra casa nel Bronx fino a Manhattan per essere con i quattro milioni di americani che accolsero al suo ritorno negli Usa l’eroe della guerra. Indossavo orgoglioso una giacca “modello Ike” – di moda perché era stato adottato dal generale e da molte truppe – che la mamma aveva tagliato e cucito con le sue mani.
Per Eisenhower, furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come erano diventati gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.
«Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione…
Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse e il nostro stile di vita sono coinvolti; la struttura portante della nostra società.
Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici e obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme».
Corruzione e finanziamenti nel traffico di armi
I rischi insiti nella politica degli armamenti Usa sono stati documentati e denunciati nel 2018 da uno studio approfondito di due ricercatori – A. Trevor Thrall e Caroline Dorminey – del Cato Institute: Risky Business: The Role of Arms Sales in U.S. Foreign Policy. Tra i pericoli illustrati e ampiamente documentati, le situazioni di guerra in cui le armi americane vendute a “paesi amici” finiscono nelle mani di nemici degli Usa e vengono usate contro le truppe americane. Il caso recente più clamoroso riguarda l’Iraq dove interi arsenali hanno armato gruppi di islamisti in lotta contro le forze occidentali in quel paese.
Tangenti Lockheed Martin nei decenni
Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. Per restare nella regione che ci interessa, Netanyahu e alcune personalità israeliane del mondo militare e civile sono sotto inchiesta per tangenti che sarebbero state pagate per un affare miliardario di sommergibili tedeschi. Qualcuno si chiederà se l’affare degli F-35 e le massicce vendite di armi all’Arabia saudita in questi ultimi anni sono servite a rafforzare economicamente le campagne elettorali del presidente uscente o di altri politici impegnati nelle lunghe costose campagne per presidenza, congresso e senato. Ipotesi basate su fatti avvenuti in passato. Gli stessi costruttori degli F-35 furono incriminati negli anni Settanta quando il Congresso americano accertò che la corruzione era un sistema diffuso da parte della Lockheed Corporation e della più piccola Northrop. Nel 1976 il “New York Magazine” scrisse che il senatore Church, capo della commissione d’inchiesta, «ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici paesi, e che in almeno sei paesi ha provocato gravi crisi di governo». L’Italia fu una di questi. Mario Tanassi, ministro della difesa, fu silurato per aver intascato una tangente di 50000 dollari su circa 2 milioni di dollari, destinati dalla Lockheed alla corruzione in Italia. Furono condannati anche il generale dell’aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio Lefebvre e Antonio Lefebvre, e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani.
Nuovi armamenti e suk dell’usato sicuro
Torniamo in Vicino Oriente e dintorni. Non soltanto perché è il più grande mercato di armi di ogni tipo ma perché è il perfetto testing-ground, il terreno su cui le armi nuove possono essere sperimentate prima di finire sulla linea di produzione e poi sul mercato. Usa, Russia, Francia e Israele sono qui in prima linea. In tutti i sensi. Secondo una delle più recenti ricerche del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nella regione in guerra – dalla Siria, allo Yemen, dall’Iraq alla Palestina e poi al più distante Sud Sudan – le commesse sono aumentate del 61 per cento dal 2015 al 2019. Gli Usa sono in cima alla lista dei venditori lì e nel mondo: hanno ben 96 paesi-clienti. La Russia, ex superpotenza, ha perso una fetta importante del mercato dopo che l’India con un leader nazionalista di destra ha stretto rapporti con Israele dove ha trovato non soltanto una politica simile ma anche una delle più grandi, moderne e immorali delle industrie belliche pronte a vendere senza fare troppe domande. Nel maggio 2019 Amnesty International ha sottolineato che le armi israeliane vengono vendute a nazioni notoriamente colpevoli di violazioni dei diritti umani delle proprie popolazioni come Myanmar, Filippine, Sud Sudan e Sri Lanka. Negli ultimi mesi, bombe a grappolo israeliane, vietate dalle convenzioni internazionali, hanno seminato morte e feriti nella regione del Nagorno-Karabakh contesa tra Azerbaijan e Armenia. Grazie a testimonianze raccolte da giornalisti e analisi delle immagini dei bombardamenti nella capitale dell’autoproclamata repubblica dell‘Artsakh, Stepanakert, gli esperti di Amnesty hanno potuto confermare l’uso di bombe a grappolo di tipo M095 Dpicm, di fabbricazione israeliana. «Vecchi stock», hanno risposto da Tel Aviv per difendersi dalle critiche in uno scacchiere in cui le sue alleanze sono confuse. La guerra è guerra: la logica del potente apparato militare-industriale israeliano è strettamente controllato e gestito ai massimi livelli del governo.
Ma, ancora più importante della disponibilità a non fare domande o giudicare chi deve comprare, Israele offre (anche rispondendo a richieste specifiche quando possibile) di provare le armi nei conflitti dietro casa, da Gaza al Libano, alla Siria. Ci sono segnalazioni di richieste precise da parte di paesi acquirenti (gli Usa tra questi) perché certe armi sofisticate (come i droni e i loro armamenti ormai entrati in prima linea nelle moderne guerre) vengano usate in combattimento e approvate prima di finire sul mercato. La distruzione senza senso di abitazioni e altri edifici nella striscia di Gaza è spesso servita a questo scopo. E c’è chi – in Israele e fuori – vorrebbe assistere ad almeno uno scontro limitato con il meglio armato Hezbollah in Libano per mettere alla prova nuove generazioni di ordigni contro i bunker in profondità.
Nel 2017 le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record di 9 miliardi di dollari. Questo non include il reddito delle società paramilitari che operano nel settore dell’informatica e della sicurezza. Un settore accusato di aver collaborato con regimi noti per i loro bassi voti nel rispetto dei diritti dei loro cittadini. E di spiare anche paesi amici.
Articolo ripreso da ogzero.org