originalmente pubblicato ne La Bottega del Barbieri il
Articoli di Alberto Negri, Tonio Dell’Olio, Michele Giorgio, Amnesty, Oren Ziv, Nada Elia, Mohammad Bakri, Orly Noy, BDS, Antonio Mazzeo, Rachel Corrie, Ilan Pappe, Umberto De Giovannangeli, Samar Hazboun con un documentario su Rachel Corrie, una canzone di Zeinab Shaath, una poesia di Mahmoud Darwish
OSSIGENO PER GAZA
La solidarietà di tutti è necessaria, se possibile.
Questa la richiesta ricevuta da Gaza (dal dottor Baseem Naim, precedente Ministro della salute e ora coordinatore dell’informazione).
Hanno esaurito i loro mezzi per far fronte a quello che è un continuo aumento di casi di Covid Dal 12 nov , l’aumento è stato rapido e da 4 giorni i dati riportano un aumento costante di molti nuovi casi al giorno. Con urgenza oggi il MOH ha comunicato di non avere ossigeno o mezzi per produrlo e nessun test, né fondi per acquistarlo. Se i fondi arrivano, l’OMS coordinerà il passaggio degli elementi più urgenti, ma per farlo devono essere forniti fondi.
Medical aid for Palestine, UK con cui da molti anni collaboriamo per le emergenze mi conferma che possono fare loro la logistica
con la causale
OXYGEN for GAZA
potete donare attraverso noi o direttamente a loro
– NWRG (NewWeapons Research Group) ONLUS
IBAN: IT59Y0501801400000011670924
– Medical Aid for Gaza
IBAN: GB72 CPBK 08022865218196
GRAZIE – FATE GIRARE
GAZA. L’incubo è realtà. Il Covid travolge il sistema sanitario – Nena News
E mentre la pandemia fa sempre più paura nella Striscia, un rapporto dell’Unctad (Onu) spiega come il blocco israeliano sia costato oltre 16 miliardi di dollari ai suoi abitanti, di cui un milione ora vive al di sotto della soglia di povertà
«Entro una settimana non saremo in grado di occuparci dei casi critici causati dal coronavirus». Non lascia spazio alle interpretazioni l’allarme lanciato nei giorni scorsi da Abdelnaser Soboh, responsabile per l’Organizzazione mondiale della sanità dell’emergenza Covid-19 nella Striscia di Gaza. Il rischio tanto temuto a marzo, all’inizio della pandemia, è diventato una drammatica realtà in questo lembo di terra palestinese martoriato negli ultimi anni dalle offensive militari israeliane, penalizzato dalla scarsità di acqua potabile e di energia elettrica e che fa i conti con la precarietà delle infrastrutture civili. Il numero dei contagi è in rapido aumento e la percentuale di tamponi positivi è oltre il 20%. «Molto presto la nostra sanità non sarà in grado di assorbire un tale aumento dei casi e potrebbero esserci malati che non troveranno posto nelle terapia intensiva», avverte da parte sua Abdel Raouf Elmanama, membro della task force pandemica di Gaza.
Fino a qualche settimana fa le conseguenze della pandemia erano state relativamente lievi a Gaza, dove vivono poco più di due milioni di palestinesi: 65 decessi sui circa 15mila contagi. Numeri nettamente più bassi rispetto ad altre zone del mondo. I casi gravi però ora aumentano rapidamente. Settantanove dei 100 respiratori disponibili sono già occupati. L’ospedale «Europeo» di Khan Yunis, il principale centro Covid di Gaza, è saturo e ogni giorno davanti ad esso decine di sospetti positivi fanno code di ore il tampone ed essere assistiti.
Israele ha consentito nei mesi scorsi l’ingresso a Gaza di 60 respiratori e di una decina dispositivi per i tamponi. Il fabbisogno però è più alto. E i palestinesi puntano il dito proprio contro il blocco israeliano che, denunciano, non ha permesso di riorganizzare in modo più efficiente il sistema sanitario della Striscia. Nei giorni scorsi il movimento islamico Hamas – che controlla Gaza dal 2007 – attraverso gli egiziani ha avvertito Israele che la situazione sta per «andare fuori controllo». Stando a fonti ben informate citate dal quotidiano Al Akhbar, i recenti razzi lanciati da Gaza verso il territorio israeliano non sono altro che un segnale di allarme. «Servono subito una decina di macchinari per l’analisi dei tamponi e altri 40 respiratori per coprire le necessità delle prossime settimane. Altrimenti il fallimento del piano di assistenza ai malati sarà inevitabile, con conseguenze drammatiche», ci dice il giornalista Aziz Kahlout di Gaza city.
Il messaggio è giunto dall’altra parte delle linee armistiziali. Il ministro della difesa Benny Gantz ha fatto sapere che Israele è pronto «ad arrivare a una soluzione e a contribuire a migliorare le condizioni di coloro che vivono a Gaza». A patto, ha poi aggiunto, che si raggiunga un’intesa che preveda, tra l’altro, il rilascio di due cittadini israeliani e la restituzione delle salme di due soldati morti in combattimento nel 2014. Hamas ripete che lo scambio dovrà prevedere necessariamente la liberazione di un certo numero di prigionieri politici palestinesi da parte di Israele. Due posizioni che non si sono avvicinate negli ultimi anni e difficilmente lo faranno ora, anche di fronte al Covid, con rischi seri di una escalation militare. Qualche mese fa il capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar (anche lui risultato positivo al coronavirus qualche giorno fa), a proposito del numero insufficiente di respiratori, aveva avvertito che «se Gaza non potrà respirare, allora non respiranno anche gli altri» (gli israeliani).
Ad appesantire il clima è il rapporto presentato dall’Unctad (Onu) nei giorni scorsi che spiega come il blocco israeliano di Gaza sia costato oltre 16 miliardi di dollari ai suoi abitanti – sei volte il valore del prodotto interno lordo di Gaza nel 2018, o il 107% del PIL totale palestinese, compresa la Cisgiordania – e come abbia spinto, tra il 2007 e il 2018, più di un milione di palestinesi al di sotto della soglia di povertà.
Intanto i numeri sempre più elevati del contagio nei Territori palestinesi occupati hanno spinto il premier dell’Autorità Nazionale, Mohammad Shtayyeh, a imporre il lockdown totale in Cisgiordania durante i fine settimana (venerdì e sabato) e il coprifuoco notturno dalle 19 alle 6 del mattino.
Embargo Militare contro Israele
Dossier a cura di BDS Italia con il sostegno di PeaceLink e la collaborazione del Collettivo A Foras Postfazione di Giorgio Beretta
E’ uscito ieri il nuovo dossier sull’apartheid israeliana in Palestina, a cura di BDS Italia. Un dossier che, con il sostegno di Peacelink e la collaborazione del Collettivo AForas, descrive e documenta le continue violazioni di diritti umani e politici di migliaia di Palestinesi nel completo silenzio internazionale, la consistenza della forza militare di Israele e lo stretto legame che intercorre fra la politica, gli armamenti e le complicità che permettono a Israele di godere di totale impunità.
Il popolo palestinese da anni chiede l’embargo militare per Israele, e il sostegno della comunità internazionale alla campagna di Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni per mettere fine alle ingerenze militari e allo stato di apartheid portato avanti da Israele.
Israele, è bene ricordarlo, è l’ottavo maggiore esportatore militare al mondo.
Tra il 2015 e il 2019 le esportazioni del governo e delle società private israeliani si sono attestate a livelli record, pari al 3% del totale delle esportazioni globali di armi.
Ma è anche notoriamente uno dei maggiori investitori nell’ambito delle tecnologie informatiche in campo militare. Per le aziende private avere un rapporto con l’apparato militare e della sicurezza di Israele è un punto di forza. Solo nel 2019, le società tecnologiche israeliane hanno raggiunto un record di 8,3 miliardi di dollari di finanziamenti in conto capitale.
La maggior parte degli investimenti è andata alle società di intelligenza artificiale che hanno raccolto 3,7 miliardi di dollari e alle società di sicurezza informatica (1,88 miliardi di dollari).
Uno stato che basa la sua ricchezza sulla capacità di costruire ed esportare strumenti di guerra, sull’occupazione illegittima di interi territori e sull’oppressione di un popolo, deve essere condannato e fermato dalla comunità internazionale.
Il dossier fa nomi e cognomi delle istituzioni, dei governi, degli enti di ricerca e delle aziende private coinvolte
Oltre a spiegare e dettagliare i vari aspetti dell’ingerenza israeliana, delle operazioni di pulizia etnica ai “test di pratiche e strategie militari” sui palestinesi, nel dossier si fanno nomi e cognomi delle istituzioni, dei governi, degli enti di ricerca e delle aziende private che collaborano ai progetti criminali di Israele.
Si fa il nome anche dell’italiana Alenia Aermacchi (oggi Leonardo) che proprio mentre erano in corso i bombardamenti su Gaza nel 2014 ha fornito due dei trenta cacciabombardieri commissionati dallo stato ebraico.
Ma si ricorda anche la Pizzarotti di Parma, che collabora alla costruzione della rete stradale israeliana, i progetti di collaborazione nell’ambito dei sistemi di sorveglianza sociale e cybersicurezza, e l’Accordo che il nostro MIUR ha firmato con Israele nel 2000, per la collaborazione in ambito scientifico con università e imprese in diversi settori scientifici.
Al volume hanno collaborato diversi accademici, analisti ed attivisti pro palestina come Angelo Baracca, Filippo Bianchetti, Rossana De Simone, Olivia Ferguglia, Ester Garau, Ugo Giannangeli, Flavia Lepre, Antonio Mazzeo, Loretta Mussi, Charlotte Napoli, Raffaele Spiga, Angelo Stefanini
E’ urgente attuare l’embargo militare totale fino a quando Israele non riconoscerà uguali diritti a tutti i cittadini che abitano la Palestina storica, si ritirerà da tutti i territori arabi occupati, consentirà il ritorno dei profughi e libererà i prigionieri politici.
A noi il compito di diffondere questo dossier, e di sostenere la campagna BDS e il popolo palestinese.
Il Comitato Nazionale Palestinese BDS risponde alla guerra Trump-Netanyahu contro il movimento BDS.
È abbastanza ironico che l’amministrazione Trump, sollecitata dal regime di apartheid di Israele, continui a permettere e ad accettare come normale la supremazia bianca e l’antisemitismo negli Stati Uniti e nel mondo, diffamando nello stesso tempo come “antisemita” il BDS, un importante movimento per i diritti umani guidato dai palestinesi, e i suoi milioni di sostenitori in tutto il mondo. Il BDS ha costantemente e categoricamente rifiutato qualsiasi forma di razzismo, compreso il razzismo antiebraico, per una questione di principio.
La fanatica alleanza Trump-Netanyahu sta intenzionalmente metendo sullo stesso piano l’opposizione al regime israeliano di occupazione, colonizzazione e apartheid contro i palestinesi e gli appelli per pressioni nonviolente con lo scopo di porre fine a questo regime da un lato, con il razzismo antiebraico dall’altro, al fine di sopprimere la difesa dei diritti dei palestinesi nel quadro del diritto internazionale. Questa revisione fraudolenta della definizione di antisemitismo è stata condannata da dozzine di gruppi ebraici in tutto il mondo e da centinaia di importanti studiosi ebrei e israeliani, comprese autorità mondiali sull’antisemitismo e l’Olocausto.
Sulla base di questa definizione revisionista e fraudolenta, perfino le organizzazioni per i diritti umani che non fanno parte del movimento BDS, ma sostengono la messa al bando delle merci delle colonie, ad esempio, così come il 22% degli ebrei americani di età inferiore ai 40 anni, che sostengono il boicottaggio totale di Israele secondo un recente sondaggio, sarebbero anche etichettati come “antisemiti”.
Il movimento BDS per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza dei palestinesi, sta a fianco di tutti coloro che lottano per un mondo più dignitoso, giusto e bello. Con i nostri numerosi partner, resisteremo a questi tentativi maccartisti di intimidire e costringere i difensori dei diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali ad accettare l’apartheid israeliana e il colonialismo di insediamento come destino.
Fonte: BNC
Traduzione di BDS Italia
Un appello dall’attore e regista Mohammad Bakri
Salve, sono Mohammad Bakri.
Oggi vi rivolgo una richiesta insolita, che normalmente non faccio. Voglio che facciate una donazione, ma non a me. Voglio attirare la vostra attenzione su una delle ONG più coraggiose della nostra cerchia, che sta attualmente avviando una campagna di raccolta fondi. Sto parlando di Zochrot.
Io sono nato nel villaggio di al-Bi’na in Galilea. Nel 1948, alcuni dei suoi abitanti furono costretti a fuggire a causa di un attacco israeliano. Nonostante il villaggio fosse stato occupato senza resistenza e sebbene la guerra fosse finita, Israele non permise ai profughi di al-Bi’na di tornare alle loro case. Lo stesso fece per le centinaia di migliaia di profughi palestinesi sradicati e costretti a lasciare le loro case in quello stesso 1948. Quell’anno, centinaia di città e villaggi palestinesi si spopolarono completamente, per poi essere distrutti negli anni successivi dallo Stato di Israele.
Sostieni Zochrot!
Zochrot, pioniere straordinario, lavora per far conoscere questo disastro palestinese, la Nakba. Informa l’opinione pubblica israeliana sulla Nakba e sul destino dei Palestinesi in questo paese, chiedendo che vengano riconosciute le ingiustizie perpetrate contro il popolo palestinese da parte di Israele. Zochrot si impegna affinché gli Israeliani si assumano la responsabilità della violenta espulsione di oltre 750.000 persone dalla loro terra natale, trasformando loro –e i loro discendenti– in rifugiati, dopo aver demolito le loro case e cancellato le loro comunità. Riconoscere il diritto al ritorno è un passo necessario per un futuro di pace e uguaglianza in questo paese.
Il pubblico di destinazione di Zochrot sono gli Ebrei israeliani. Questo è a dir poco sorprendente. Unico a farlo, la sua attività sfida e intacca le abituali percezioni sioniste e israeliane. Rivela ciò che è nascosto alla vista di Israele, portando alla luce coloro che sono oppressi, evocando ciò che molti preferirebbero negare.
Zochrot è stata la prima associazione ad organizzare, per gli Israeliani, tour educativi nelle comunità palestinesi distrutte. Zochrot ha raccontato la loro storia, la vita prima della Nakba e le circostanze dello sradicamento dei Palestinesi, aprendo gli occhi a migliaia di Israeliani sulle storie che stanno dietro alle molteplici rovine (in)visibili in tutto il paese, spesso non lontano dalle case dei partecipanti al tour. Questo è un tipo di protesta politica profonda che accresce la consapevolezza della realtà.
Zochrot offre varie attività. Ha un ricco sito web trilingue con ampio materiale sulla Nakba, i rifugiati, le comunità distrutte e il diritto al ritorno. Ha pubblicato la mappa della Nakba con i nomi cancellati delle città e dei villaggi palestinesi distrutti ed ha anche lanciato l’app iNakba. Provala. Offre un’esperienza straordinaria. Include ricche informazioni in tre lingue su ogni comunità distrutta, ma può anche essere utilizzata come programma di navigazione, un GPS che ti porta direttamente in ogni comunità palestinese cancellata. È l’unica applicazione al mondo che può portarti in un luogo che non c’è più, in una comunità che vorremmo ricostruire.
Ho avuto l’onore di partecipare personalmente più di una volta alle attività di Zochrot. Come regista e attore, la ONG ha ospitato me e i film che ho interpretato o diretto nel suo 48mm Film Festival Dalla Nakba al Ritorno, un’iniziativa eccezionale per promuovere attraverso il cinema il discorso sulla Nakba e il ritorno.
Plaudo di tutto cuore a Zochrot e al suo attivismo. Vi invito a sostenerlo e a fare la vostra parte nel rafforzare questa voce di verità, per il bene di tutti noi. Anche se affronta questioni difficili –crimini, torti e violazioni dei diritti umani– ciò che Zochrot ci offre è un messaggio di speranza.
Da: Mohammad Bakri <zochrot@zochrot.org>
A cura di AssopacePalestina
Blinken, l’interventista complice della Clinton nei disastri in Libia e Siria – Alberto Negri
Il Washington Post ci informa che il nuovo segretario di stato Antony Blinken,come consigliere della Clinton sostenne con forza l’intervento in Libia e anche quello in Siria. I media italiani lo incensano come “europeista” e si fermano alle apparenze.
Politica estera: il “team da incubo” di Biden
I guai non finiscono con Trump. Il team di Biden con Blinken segretario di stato e Sullivan alla sicurezza nazionale ha questa volta l’opportunità di rimediare i devastanti errori commessi in Siria e Libia dall’ex segretario di stato Hillary Clinton di cui entrambi i nuovi responsabili sono stati consiglieri strategici.
Il “dream team” di Biden rimanda ai peggiori incubi del Mediterraneo. Quando nel 2011 la signora Clinton convinse Obama ad attaccare la Libia di Gheddafi insieme a Francia Gran Bretagna intenzionate a sbalzare il raìs libico, il maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo.
Il Washington Post ci informa che Antony Blinken, come vice della Clinton, sostenne con forza l’intervento in Libia e anche quello in Siria, differenziandosi in questo proprio dalle posizioni assunte allora da Biden. “E’ stato un’interventista convinto”, scrive il quotidiano americano. Forse ha cambiato idea, visto i guai combinati dalla Clinton nel cortile di casa nostra.
Vale la pena ricordare che l’insurrezione popolare di Bengasi del 2011 è stata soltanto in parte spontanea mentre in parte fu organizzata dai francesi che, dopo avere perso la Tunisia di Ben Alì, spinsero verso una rivolta già preparata mesi prima con Musa Kusa, il capo dei servizi gheddafiani che si recato a Parigi a ottobre del 2010 per un mese e in seguito abbandonò Gheddafi per auto-esiliarsi a Londra, dove per altro nel 1980 era stato espulso come mandante di omicidi politici degli avversari del regime. Lo rivendicò persino in un’intervista al Times.
I francesi, come è stato rivelato dai dispacci del dipartimento di stato guidato allora dalla Clinton, furono spinti a bombardare Gheddafi dal piano del raìs libico di creare una moneta africana che avrebbe messo fuori gioco o seriamente minato il franco Cfa gestito da Parigi, che custodisce le riserve valutarie di 13 Paesi africani.
Dopo avere liberato Bengasi, dove furono inventati massacri che non c’erano mai stati come le famose fosse comuni sulla spiaggia, i ribelli ci impiegarono mesi per arrivare a Tripoli. Io ero lì e l’ho visto con i miei occhi: senza i bombardamenti a tappeto della Nato, cui la stessa Italia ha partecipato, non ce l’avrebbero mai fatta. Ci fu allora anche l’intervento di forze speciali britanniche: il nostro console a Bengasi le fece liberare dopo che erano state fatte prigioniere da fazioni filo gheddafiane: a Tobruk infatti la popolazione continuava a ricevere i sussidi del regime. Risultato: questi interventi hanno lasciato che i jihadisti si impadronissero della Cirenaica dividendo in due un Paese che non si è più ricomposto, come del resto era stato scritto sin dal primo giorno. Lo stesso Obama in un’intervista a The Atlantic ha ammesso di avere fatto un errore a intervenire in Libia perché gli occidentali non avevano soluzioni politiche di ricambio al regime, come del resto era avvenuto in Iraq nel 2003. Tanto è vero che poi in Siria Obama evitò l’intervento diretto (ben prima che arrivassero i russi nel 2015).
Gli interventi “umanitari” dell’Occidente hanno creato più guai e morti di quelli che avrebbero voluto evitare. La Clinton, insieme a Blinken, è in buona parte responsabili dei disastri della Libia e del Mediterraneo. I testimoni oculari degli incontri tra la Clinton e l’allora ministro degli Esteri Frattini hanno raccontato che il segretario di stato ridacchiava mentre illustrava al nostro rappresentante come avrebbero fatto fuori il raìs di Tripoli. Lo stesso Obama nel suo ultimo libro, La Terra Promessa, cita un paio di volte il nuovo segretario di stato Blinken come uno dei grandi esperti di Medio Oriente della sua amministrazione. Del resto Obama, a parte l’accordo con l’Iran, che lui stesso però non ha attuato come avrebbe dovuto, di politica estera ha sempre capito poco.
E’ disarmante leggere in questo ultimo volume i brani dedicati ai capi stranieri, (Putin, Sarkozy, Merkel, Cameron, Erdogan) che rivelano un leader scadente nella comprensione del mondo, guidato da stereotipi e luoghi comuni. Con Cameron e Sarkozy _ che Obama prende in giro definendolo “un gallo nano” _ ha pure distrutto la Libia di Gheddafi lasciando che la Clinton combinasse disastri in Medio Oriente. In Siria è stata la Clinton, affiancata dai suoi consiglieri, a volere a ogni costo la caduta del regime di Bashar Assad, lasciando che Erdogan appoggiasse i tagliagole jihadisti di tutto il Medio Oriente e anche europei, i famosi foreign fighters che hanno ispirato gli attentati nel continente dei seguaci dell’Isis.
Se oggi Erdogan spadroneggia in Libia, nel Mediterraneo orientale, in Siria e in Azerbaijan, lo dobbiamo anche a questa politica per altro sostenuta all’epoca anche dagli europei. Vedremo cosa faranno adesso gli americani dove in Libia c’è una lotta a coltello per il potere: useranno forse anche qui il Sultano della Nato? E’ possibile, se non probabile. E a proposito di interventi umanitari: come si comporterà l’amministrazione Biden con l’Egitto? Ci lasceranno soli come ha già fatto l’America di Trump a chiedere invano giustizia per Giulio Regeni? Evidentemente sì. Ci sono dittatori e dittatori. Gheddafi era autonomo e lo hanno fatto fuori, Al Sisi dipende dalle monarchie del Golfo, i maggiori clienti di armi degli americani, e può fare quello che vuole. E ora baloccatevi con il “dream team” di Biden e una giustizia che dalle nostre parti non arriverà mai, per noi, per i palestinesi, per i curdi, per i profughi, per tutti coloro che credono, ingenuamente, come lo studente egiziano Zaki, in un mondo diverso.
Il processo di pace è da sempre un vicolo cieco – Ilan Pappe
Vent’anni dopo Camp David, molti guardano con nostalgia agli accordi di Oslo. Ma per lo storico Ilan Pappe da quando il movimento sionista ha messo piede in Palestina un vero processo di pace non ha mai avuto luogo
Il 13 settembre del 1993, Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) siglarono in pompa magna gli Accordi di Oslo. L’accordo era frutto dell’ingegno di un gruppo di israeliani del think tank Mashov, guidato dall’allora ministro degli esteri Yossi Beilin.
Si basava sul presupposto che un insieme di fattori avevano creato le condizioni storiche ideali per trovare una soluzione alla questione palestinese: il successo delle colombe del Partito laburista nelle elezioni israeliane del 1992 da un lato, e la drastica erosione della credibilità internazionale dell’Olp seguita al supporto dato da Yasser Arafat all’invasione del Kuwait di Saddam Hussein dall’altro.
Gli architetti degli accordi pensavano che i palestinesi non fossero in condizione di resistere ai diktat di Israele, all’epoca il massimo che lo stato ebraico era disposto a concedere. Il meglio che i rappresentanti del peace camp israeliano potevano offrire era composto da due zone di apartheid – un pezzo di Cisgiordania e un’enclave nella Striscia di Gaza – che avrebbero goduto dello status di nazione a livello simbolico, mentre nella pratica sarebbero rimaste sotto il controllo israeliano.
Oltretutto, questo accordo avrebbe dichiarato la fine del conflitto. Le richieste ulteriori, come il ritorno dei rifugiati palestinesi o un cambiamento di status della minoranza palestinese all’interno di Israele, erano state espunte dall’agenda di «pace».
Una ricetta per il disastro
Questi diktat erano la versione aggiornata della vecchia idea israeliana che ha dato forma ai «processi di pace» sin dal 1967. Il primo era la cosiddetta «opzione giordana», che avrebbe significato la spartizione – geografica o funzionale – del controllo sui territori occupati tra Israele e la Giordania. Il movimento laburista israeliano appoggiava quest’opzione. La seconda fu l’idea di un’autonomia limitata dei palestinesi in questi territori, che fu al cuore dei negoziati di pace con l’Egitto nei tardi anni Settanta.
Queste idee – l’opzione giordana, l’autonomia palestinese e la formula di Oslo – avevano una cosa in comune: tutte suggerivano di suddividere la Cisgiordania tra Israele e le aree palestinesi, con l’intenzione futura di integrare le parti ebraiche dentro Israele, e contemporaneamente mantenere la Striscia di Gaza come un’enclave connessa alla Cisgiordania da una striscia di terra sotto il controllo israeliano.
Oslo segnò per certi versi uno scarto con i tentativi precedenti. La differenza più importante fu che stavolta l’Olp era a fianco di Israele nella ricetta per il disastro. Bisogna dire, tuttavia, a merito dell’organizzazione, che fino a oggi non ha ancora riconosciuto gli Accordi di Oslo come parte di un processo concluso. La sua partecipazione, e il riconoscimento internazionale che ricevette, fu uno degli aspetti positivi (o almeno potenzialmente positivi) di Oslo. L’aspetto negativo della partecipazione dell’Olp fu che la politica unilaterale di Israele di progressiva annessione e spartizione dei territori aveva a quel punto ricevuto legittimità da un accordo firmato dai leader dell’Olp.
Un’altra differenza fu il coinvolgimento di accademici dalla presunta neutralità e professionalità nella facilitazione degli accordi. La Norway’s Fafo Research Foundation si fece carico degli sforzi di mediazione. Adottò una metodologia che andò a vantaggio degli israeliani e fu disastrosa per i palestinesi. In sostanza, fu un modo per cercare di ottenere il meglio che la parte più forte era disposta a concedere, seguito da un tentativo di forzare la parte più debole ad accettarlo. Non ci fu nessun sostegno per la parte definita come la più debole. L’intero processo diventò un processo di imposizione.
Una pillola amara
Ci eravamo già passati. Nel 1947-48, la Commissione Speciale sulla Palestina delle Nazioni Unite (Unscop) adottò un approccio simile. Il risultato fu catastrofico. I palestinesi, che erano la popolazione indigena e rappresentavano la maggioranza in quelle terre, non ebbero voce in capitolo nella soluzione proposta. Quando la rifiutarono, le Nazioni Unite ignorarono la loro posizione. Il movimento sionista e i suoi alleati imposero la spartizione con la forza.
Quando venne siglato Oslo I, il primo set di accordi più che altro simbolici, la disastrosa mancanza di un contributo palestinese di qualsiasi tipo non fu immediatamente chiara. Questi accordi includevano non solo il mutuo riconoscimento tra Israele e l’Olp, ma anche il ritorno in Palestina di Yasser Arafat e in generale della leadership dell’Olp. Questa parte dell’accordo generò una comprensibile euforia tra i palestinesi, mascherando i reali intenti del summit di Oslo.
Questo contentino pensato per indorare una pillola amara fu presto cancellato dal successivo set di accordi, conosciuto come Accordo di Oslo II, nel 1995. Persino un debole Arafat li trovò difficili da accettare, e il presidente egiziano Hosni Mubarak lo costrinse letteralmente a firmare il patto di fronte alle televisioni di tutto il mondo.
Ancora una volta, come nel 1947, la comunità internazionale trovò una «soluzione» asservita agli scopi e alla visione ideologica di Israele, ignorando completamente i diritti e le aspirazioni dei palestinesi. E ancora una volta il principio alla base della «soluzione» fu quello della spartizione.
Nel 1947, al movimento dei coloni sionisti venne offerto il 56 percento della Palestina, e il movimento stesso andò avanti fino a conquistarne il 78 percento con la forza. L’Accordo di Oslo II offriva a Israele un’ulteriore 12 percento della Palestina storica, consolidando lo status di Israele sul 90 percento del paese e creando due zone di apartheid nelle aree restanti. Nel 1947, la proposta era quella di dividere la Palestina tra Israele e uno stato arabo. La narrativa intessuta da Israele, dalla Fafo e dalla comunità internazionale coinvolta nelle mediazioni di Oslo ruotava attorno al fatto che i palestinesi avevano perso l’opportunità di creare uno stato per via della loro posizione irresponsabile e ostile nel 1947. E così, in maniera didascalica, gli veniva ora offerto uno spazio molto più piccolo e un ruolo di entità politica di serie B – certo non uno stato, nemmeno nella più sfrenata delle immaginazioni.
La geografia del disastro
Oslo II creò una geografia del disastro che permise a Israele di allargarsi verso altre parti della Palestina storica, confinando i palestinesi nelle due zone di apartheid; o, per dirla in altri termini, di dividere la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in aree palestinesi e israeliane. L’Area A era sotto il diretto controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp – che assomigliava a uno stato, senza averne i poteri); l’Area B era governata in maniera congiunta da Israele e dalla Anp (ma in realtà soltanto da Israele); e l’Area C era governata esclusivamente da Israele. Recentemente, e sempre di più, questa zona è stata de facto annessa a Israele.
Per completare l’annessione sono state necessarie l’aggressione militare e coloniale degli abitanti palestinesi (alcuni dei quali avevano già lasciato le loro abitazioni), la denominazione di vaste aree come campi d’addestramento per l’esercito o per [la salvaguardia dei] «polmoni verdi» ecologici [foreste piantate da Israele per nascondere le rovine dei villaggi palestinesi distrutti, Ndt], dai quali i palestinesi sono interdetti, e infine la modificazione costante del regime fondiario per strappare sempre più terra per nuovi insediamenti o per l’espansione di quelli vecchi.
Per quando Arafat arrivò a Camp David nel 2000, il disegno di Oslo si era ormai completamente dispiegato e, sotto tanti aspetti, aveva già creato dei precedenti irreversibili. La caratteristica principale della cartografia post-Oslo fu la bantustanizzazione [creazione di zone di apartheid; da bantustan, nome delle zone assegnate alle etnie nere in Sudafrica e Namibia all’epoca dell’apartheid, Ndt] della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, l’annessione ufficiale dell’area della grande Gerusalemme, e la separazione fisica della Cisgiordania del nord da quella del sud.
Ci furono anche altre conseguenze, non meno importanti: la scomparsa del diritto al ritorno dall’agenda di «pace» e la continua giudaizzazione della vita palestinese all’interno di Israele (attraverso l’esproprio delle terre, l’accerchiamento di villaggi e città, il mantenimento di insediamenti e città esclusivi per ebrei e l’approvazione di una serie di leggi che istituzionalizzavano l’apartheid nello stato di Israele).
Più avanti, quando mantenere una presenza coloniale nel mezzo della Striscia di Gaza si rivelò troppo costoso, i leader di Israele rividero la mappa e la logica di Oslo per includere un nuovo metodo che ne assicurasse la sostenibilità: imposero il blocco della Striscia di Gaza via terra e via mare per il suo rifiuto a riconoscersi come Area A sotto il dominio dell’Anp.
Dopo Rabin
La geografia del disastro, proprio come nel 1948, è stato il risultato del piano di pace. Sin dal 1995 e dalla firma dell’accordo Oslo II, più di seicento checkpoint hanno privato la popolazione dei territori occupati della loro libertà di movimento tra villaggi e città (e tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania). La vita viene amministrata nella Aree A e B dall’Amministrazione civile, un corpo para-militare che concede permessi solo in cambio di una piena collaborazione con i servizi segreti.
I coloni hanno continuato i loro attacchi da vigilantes ai palestinesi e l’espropriazione delle terre. L’esercito israeliano con le sue unità speciali entra nell’Aree A e nella Striscia di Gaza a suo piacimento, arrestando, ferendo e uccidendo i palestinesi. Anche la punizione collettiva fatta di demolizioni, coprifuoco e chiusure è continuata sotto l’egida degli «accordi di pace».
Poco dopo la firma di Oslo II, nel novembre del 1995, venne assassinato il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Non sapremo mai se avrebbe voluto – o potuto – influenzare gli sviluppi del processo di pace in maniera positiva. I primi ministri che gli sono succeduti fino al 2000, Shimon Peres, Benjamin Natanyahu e Ehud Barak, hanno supportato appieno la trasformazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza in due prigioni giganti, dove gli spostamenti tra dentro e fuori, le attività economiche, la vita quotidiana e la sopravvivenza dipendono dalla buona volontà di Israele – un lusso raro nel migliore dei casi.
La leadership palestinese sotto Yasser Arafat aveva ingoiato questa pillola amara per molte ragioni. Era difficile rinunciare alle apparenze di un potere presidenziale, al senso di indipendenza in alcuni aspetti della vita, e soprattutto alla convinzione ingenua che questo fosse uno stato delle cose temporaneo, e che sarebbe stato rimpiazzato da un accordo finale che avrebbe portato alla sovranità palestinese (vale la pena notare che questa leadership siglò un accordo che non menziona in nessuna parte dei documenti ufficiali la creazione di uno stato palestinese indipendente).
Il miraggio di Camp David
Per un breve momento, nel 1999, sembrò che questo ottimismo fosse giustificato. Il governo di destra di Benjamin Netanyahu aveva ceduto il passo a uno presieduto dal leader laburista Ehud Barak. Retoricamente, Barak dichiarò il suo impegno per procedere con l’accordo e decidere gli ultimi dettagli. Tuttavia, dopo la perdita della maggioranza nel Knesset [il parlamento monocamerale israeliano, Ndt], lui e il presidente Bill Clinton – invischiato all’epoca nello scandalo Monica Lewinsky – spinsero Yasser Arafat in un summit raffazzonato e azzardato nell’estate del 2000.
Il governo israeliano reclutò un gran numero di esperti e preparò montagne di documenti con l’unico scopo di imporre l’interpretazione di Israele ad Arafat per un accordo definitivo. Secondo i loro esperti, la fine del conflitto avrebbe significato l’annessione di Israele di blocchi consistenti di insediamenti, la creazione della capitale palestinese nel villaggio di Abu Dis e di uno stato demilitarizzato, soggetto al controllo economico e alla dominazione militare di Israele. L’accordo finale non includeva nessun riferimento serio al diritto al ritorno, e ovviamente – così come negli Accordi di Oslo – ignorava completamente i palestinesi che vivevano dentro Israele.
Il versante palestinese reclutò l’Adam Smith Institute di London per farsi aiutare nella preparazione di un summit affrettato. Produsse alcuni documenti, che in ogni caso non vennero considerati rilevanti né da Barak né da Clinton. Questi due signori avevano fretta di concludere in un paio di settimane, per il bene della loro sopravvivenza politica interna. Entrambi avevano bisogno di una vittoria veloce di cui potersi vantare (e qui ci sono delle somiglianze con la gestione catastrofica della crisi del Covid-19 da parte di Trump e della pace di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, che l’amministrazione ha rivendicato come un grande trionfo). Dal momento che il tempo era essenziale, impiegarono le due settimane del summit a esercitare una pressione enorme su Arafat per fargli firmare un accordo già chiuso, preparato prima da Israele.
Arafat supplicò i due di dargli qualcosa di concreto da mostrare al suo ritorno a Ramallah. Sperava di poter annunciare almeno uno stop agli insediamenti e/o il riconoscimento del diritto dell’Olp su Gerusalemme, così come una sorta di principio di comprensione dell’importanza del diritto al ritorno per la controparte palestinese. Barak e Clinton ignorarono completamente le sue richieste. Prima del ritorno di Arafat in Palestina, i due leader lo accusarono di essere un guerrafondaio.
La seconda Intifada
Al suo ritorno, Arafat – come lo descrisse in seguito il senatore George Mitchell – fu abbastanza passivo e non pianificò nessuna mossa drastica, come ad esempio una rivolta. I servizi segreti di Israele riportarono ai loro capi politici che Arafat stava facendo tutto il possibile per calmare i membri più militanti di Al-Fatah, e sperava ancora di trovare una soluzione diplomatica.
Quelli intorno ad Arafat si sentirono traditi. C’era un’atmosfera di impotenza, fino alla visita provocatoria ad Haram al-Sharif da parte del leader dell’opposizione, Ariel Sharon. L’esercizio di settarismo di Sharon innescò la miccia di un’ondata di manifestazioni, alle quali l’esercito israeliano rispose con particolare brutalità. L’esercito era reduce da una recente umiliazione per mano del movimento libanese di Hezbollah, che aveva costretto le Forze di difesa di Israele a ritirarsi dal sud del Libano e aveva così eroso il supposto potere di deterrenza di Israele.
I poliziotti palestinesi decisero che non potevano stare a guardare, e la rivolta si fece sempre più militarizzata. Arrivò fin dentro Israele, dove una polizia razzista e dal grilletto facile era ben felice di mostrare a tutti quanto fosse facile uccidere manifestanti palestinesi cittadini dello stato di Israele. Il tentativo di alcuni gruppi palestinesi come Al-Fatah e Hamas di rispondere con attacchi kamikaze gli si ritorse contro dal momento che le operazioni di rappresaglia israeliane – culminate nel 2002 con l’infame Operazione Scudo difensivo – portarono alla distruzione di intere città e villaggi, e a ulteriori espropri di terre da parte di Israele. Un’altra risposta fu la costruzione di un muro di apartheid che separa i palestinesi dagli affari, dai campi e dai centri di vita.
Israele rioccupò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nel 2007, vennero reintrodotte le zone A, B e C della Cisgiordania. Dopo il ritiro di Israele da Gaza, Hamas prese il sopravvento, e il territorio fu messo sotto un assedio che continua ancora oggi.
Dalle ceneri
Molti politici e strateghi israeliani sono certi di aver abbattuto completamente lo spirito palestinese. Precisamente ventisette anni dopo la firma degli Accordi di Oslo, il prato della Casa Bianca ha ospitato una nuova cerimonia per gli Accordi di Abrahm, un accordo di pace e normalizzazione tra Israele due stati arabi, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain.
I media mainstream statunitensi e israeliani ci assicurano che questo è l’ultimo chiodo sulla bara dell’ostinazione palestinese. La ragione è che l’Anp dovrà accettare qualsiasi condizione posta da Israele, dal momento che non troverebbero nessun alleato in caso di rifiuto. Ma la società palestinese è una delle più giovani e istruite del mondo. Il movimento nazionale palestinese è sorto dalle ceneri della Nakba negli anni Cinquanta, e può rinascere ancora. Non importa quanto è potente l’esercito israeliano, e non importa quanti stati arabi sigleranno ancora accordi di pace con Israele: lo stato ebraico continuerà a coesistere con milioni di palestinesi sotto il suo dominio in un regime di apartheid.
Il fallimento di Camp David nel 2000 non fu la fine di un genuino processo di pace. Un simile processo non ha mai avuto luogo, non da quando il movimento sionista ha messo piede in Palestina alla fine del Diciannovesimo secolo; ha rappresentato invece l’ufficializzazione dell’apartheid della repubblica di Israele. Rimane ora da capire per quanto tempo il mondo sarà disposto ad accettare questo stato di cose come legittimo e sostenibile, o se invece deciderà che la de-sionizzazione di Israele, con la creazione di uno stato democratico che include tutta la Palestina storica, è l’unica soluzione equa a questo problema.
Otto attivisti per il clima arrestati durante la protesta contro una nuova zona industriale in Cisgiordania – Oren Ziv
Attivisti per la giustizia climatica e i diritti umani si incatenano all’ingresso di una cava israeliana per protestare contro il furto della terra palestinese e la distruzione dell’ecosistema locale.
Dozzine di attivisti per la giustizia climatica e per i diritti umani hanno bloccato domenica mattina l’ingresso a una cava israeliana nella Cisgiordania occupata per protestare contro il progetto di costruzione di una nuova zona industriale nell’area. Secondo i manifestanti, il piano di espansione della HeidelbergCement Quarry, che includerà anche la costruzione di un nuovo cimitero israeliano, distruggerà il corridoio ecologico del centro del Paese ed amplierà l’annessione della Cisgiordania.
Gli attivisti, che fanno parte del gruppo “One Climate”, si sono incatenati all’ingresso della cava e hanno dispiegato un gigantesco cartello con la scritta “Stop the Destruction”, impedendo l’entrata e l’uscita dei camion che trasportano cemento attraverso il Paese. L’azione ha causato un grande ingorgo di camion fuori dalla cava, con un autista che ha stimato che la protesta ha causato oltre 100.000 NIS di perdita per l’azienda.
Nel frattempo, altri attivisti hanno distribuito volantini ai passanti, compresi i camionisti palestinesi che si sono schierati in solidarietà con i manifestanti. Dopo tre ore di protesta, gli agenti di polizia giunti sul posto hanno chiesto ai lavoratori della cava di tagliare le catene dei manifestanti. Otto sono stati arrestati.
Il progetto per espandere la cava di HeidelbergCement e costruire una zona industriale collegherebbe gli insediamenti israeliani di Elkana e Oranit (situati a est della cava) con la città israeliana di Rosh HaAyin (a ovest della cava e all’interno della linea verde ), creando così una contiguità territoriale tra Israele e la Cisgiordania. La cava esistente – che è di proprietà e gestita da Hanson, una filiale israeliana della società tedesca HeidelbergCement, il secondo più grande produttore di cemento al mondo – è costruita su terreni appartenenti ai villaggi palestinesi di Deir Balut e al-Zawiya, espropriati dall’esercito israeliano negli anni ’80.
Poiché la cava si trova sul lato “israeliano” del muro di separazione, di fronte a un checkpoint dell’IDF sulla Route 5, gli attivisti palestinesi della Cisgiordania non hanno potuto prendere parte alla protesta.
“Siamo qui per fermare i responsabili dell’occupazione e della crisi climatica. Siamo qui per chiedere giustizia climatica per tutti coloro che vivono in questa terra, uomini e animali, palestinesi e israeliani, donne e uomini, dI ogni gruppo, dI ogni identità “, ha detto Ya’ara Peretz, uno dei leader dell’azione.
Il piano di ampliamento della cava è in attesa di approvazione da parte della commissione urbanistica del governo militare nei territori occupati, sotto l’egida del ministro della Difesa Benny Gantz.
I manifestanti hanno denunciato che il furto di risorse naturali dal territorio occupato e il loro trasferimento in territorio israeliano viola il diritto internazionale. “Queste colline appartengono anche ai villaggi che si trovano ad est del muro di separazione”, ha detto Peretz. “Secondo il diritto internazionale, le risorse qui appartengono ai palestinesi, non a Israele. Quello che stiamo vedendo qui è un doppio furto. Furto della natura e dell’ambiente e furto della [terra] palestinese “. ha detto Peretz.
“Siamo qui per fermare la distruzione, per stabilire il collegamento tra occupazione, annessione e clima”, ha detto Mor Gilboa, uno dei leader di One Climate, che si è incatenato all’ingresso della cava. “Il piano per espandere la cava non viene portato avanti solo per ragioni economiche, ma anche per creare contiguità dall’insediamento di Elkana a Rosh HaAyin”, ha detto.
I manifestanti hanno aggiunto che le colline su cui si trova la cava fanno parte di un corridoio ecologico nel centro del paese che si estende dalla Cisgiordania alla pianura costiera e ospita molti animali tra cui cervi, iene, sciacalli e cinghiali selvatici . Diverse organizzazioni ambientaliste israeliane, inclusa la Società per la protezione della natura in Israele, si oppongono al piano.
Oren Ziv è fotoreporter, uno dei membri fondatori del collettivo fotografico Activestills e scrittrice per Local Call. Dal 2003, ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati con un’enfasi sulle comunità di attivisti e le loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e gli insediamenti, alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, lotte contro il razzismo e la discriminazione e la lotta per liberare gli animali.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org
Israele fornirà per 5 anni i sistemi di sicurezza alla missione dell’ONU in Mali – Antonio Mazzeo
Saranno i grandi gruppi industriali-militari israeliani a fornire i sistemi di sicurezza e d’intelligence per la “difesa” delle installazioni militari della missione delle Nazioni Unite di stabiliIizzazione politica del Mali. Secondo un rapporto pubblicato dal sito specializzato Africa Intelligence, IAI – Israel Aerospace Industries, attraverso la controllata Advanced Technology Systems con sede in Belgio, ha firmato un contratto con l’ONU per assicurare la protezione esterna delle numerose basi utilizzate dalle forze di polizia e dai reparti militari assegnati alla missione internazionale MINUSMA (Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali). La durata prevista del contratto è di cinque anni.
IAI è il principale gruppo industriale aerospaziale e missilistico israeliano. Con più di 15.000 dipendenti e un fatturato annuo superiore ai 3.300 milioni di dollari, IAI ha il suo quartier generale nella città di Lod, a una quindicina di km. a sud-est di Tel Aviv. Specie nell’ultima decade le Israel Aerospace Industries hanno consolidato partnership strategiche con il colosso aerospaziale europeo Airbus e con le statunitensi Boeing, Lockheed Martin, General Dynamics e Raytheon. Tra le componenti belliche prodotte compaiono soprattutto i recentissimi sistemi di difesa aerea “Iron Dome” e i sistemi anti-missile a corto e medio raggio “David’s Sling”, “Arrow-2” e “Arrow-3”, ma soprattutto i velivoli aerei a pilotaggio remoto “Heron”, in grado di sorvolare i teatri operativi per lunghi periodi di tempo ad altitudini medie. Con funzioni di sorveglianza, monitoraggio, rilevamento e assistenza alle operazioni di combattimento, gli “Heron” sono stati utilizzati dalle forze armate israeliane nelle operazioni d’attacco a Gaza, Libiano e Siria. Alcuni velivoli sono stati acquistati anche dalle forze aeree di Australia, Canada, Francia, India, Germania e Turchia; le agenzie europee Frontex ed EMSA a cui è affidato il controllo e la “sicurezza” della frontiere esterne UE, si sono affidate ai droni di IAI per le operazioni di “contenimento” dei flussi migratori nel Mediterraneo.
Gli “Heron” israeliani sono pure ben conosciuti in Mali: dall’1 novembre 2016 sono utilizzati infatti dall’esercito tedesco per il supporto aereo alla missione MINUSMA. Sino ad oggi questi droni hanno svolto nel martoriato paese africano più di 1.200 interventi con oltre 11.500 ore di volo. Qualche mese fa le forze armate della Germania hanno rinnovato sino al giugno 2021 (con un’opzione per un altro anno ancora) il contratto di servizio per i sistemi a pilotaggio remoto; il contractor è Airbus Defence and Space, rappresentante in Europa del gruppo IAI.
Sempre secondo Africa Intelligence, il contratto per la protezione delle installazioni militari in Mali è stato preceduto nel mese di giugno da un accordo delle Nazioni Unite con altre due importanti aziende militari israeliane, Elbit Systems e MER Group, per la fornitura di sofisticati sistemi di individuazione ed identificazione delle “minacce”, video-camere, apparecchiature di telerilevamento e droni, più relativi servizi di manutenzione e formazione del personale MINUSMA.
Elbit Systems, interamente in mano alla finanza privata, è una delle maggiori aziende internazionali produttrici di centri di telecomunicazione, sistemi di comando e controllo, tecnologie di sorveglianza e per le guerre elettroniche e cyber. Uno dei “gioielli” di morte più noto è il drone-spia e killer “Hermes”, utilizzato dall’esercito israeliano durante il conflitto in Libano nel 2006 e contro obiettivi civili palestinesi a Gaza e Cisgiordania tra il 2008 e il 2014. MER Group è invece un’affermata azienda produttrice di sistemi d’intelligence con sede a Holon e filiali e uffici di rappresentanza in mezzo mondo (ben quindici nel continente africano).
La missione MINUSMA ha preso il via a seguito della Risoluzione n. 2100 del 25 aprile 2013 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per sostenere il processo politico di transizione e aiutare la stabilizzazione del Mali. Con la successiva Risoluzione n. 2164 del 25 giugno 2014, le Nazioni Unite hanno ampliato i compiti della missione internazionale alla ricostruzione e stabilizzazione della sicurezza e alla protezione dei civili; al sostegno del dialogo politico e della riconciliazione nazionale; all’assistenza al ristabilimento dell’autorità statale e alla “promozione e protezione dei diritti umani nel paese”.
Alla forza MINUSMA contribuiscono con proprie unità militari e di polizia 57 Paesi, schierati nelle principali città del Mali tra cui Kidal, Gao, Tomboctu, Mopti e la capitale Bamako. Alla data del 20 ottobre 2020 erano schierati nel paese africano 1.421 civili, 25 “esperti”, 1.695 poliziotti, 443 ufficiali, 12.956 membri di forze armate e 176 “volontari UN”, più 7 velivoli aerei (con e sena pilota) e 24 elicotteri. I paesi che più stanno contribuendo a MINUSMA in termini di personale sono il Bangladesh 1.601; la Guinea (1.512); il Ciad (1.456); il Burkina Faso: (1.255); l’ Egitto (1.208); il Togo (1.206); il Senegal (999); il Niger (867); la Costa d’Avorio (816); la Germania (429). L’Italia, invece, assegna annualmente alla missione internazionale sette ufficiali dell’Esercito, impiegati quale personale di staff nel Quartier Generale militare a Bamako.
(Articolo pubblicato in Africa ExPress il 26 novembre 2020)
Facciamo come Hallel – Tonio Dell’Olio
Nella giornata di riflessione sulla violenza sulle donne mi piace accendere una luce sulla “nonviolenza delle donne”. Ci sono gesti di coraggio e prese di posizione determinate, che solo le donne riescono a compiere. Nei giorni scorsi è stata scarcerata dopo 56 giorni di detenzione in un programma di rieducazione Hallel Rabin, una ragazza di 19 anni che per motivi di coscienza si è rifiutata al servizio militare in Israele. Col suo gesto chiede che il suo Paese metta fine alle violenze quotidiane perpetrate ai danni delle popolazioni palestinesi e riconosca il diritto al servizio alternativo a quello militare per le obiettrici e gli obiettori di coscienza. Nella lettera di motivazioni inviata a suo tempo alle autorità israeliane scrive tra l’altro: “L’uccisione, la violenza e la distruzione sono diventate così comuni che il cuore si indurisce e lo ignora. (…) Il male è diventato per noi parte della famiglia, lo difendiamo e lo giustifichiamo o chiudiamo gli occhi di fronte ad esso ed evitiamo la responsabilità. (…) Non sono preparata a mantenere e alimentare una realtà violenta. Non sono preparata a far parte di un esercito soggetto alla politica di un governo che va contro i miei valori (…)”. Digitate il nome di questa ragazza in YouTube e troverete qualche video che vale una meditazione sul significato di sicurezza, difesa, rispetto e, soprattutto, nonviolenza. Hallel è cresciuta nel Kibbutz di Harduf e i suoi genitori sono fieri di lei. Anche noi.
I cineasti boicottano il pinkwashing israeliano del TLVFest – Tamara Nassar
Più di una dozzina di registi hanno sostenuto l’appello palestinese volto a boicottare il TLVFest, il Festival Internazionale del Film LGBTQ di Tel Aviv sostenuto dal governo.
Sei dei registi si sono anche uniti a 170 altri artisti da tutto il mondo che hanno firmato un impegno lanciato all’inizio di quest’anno per boicottare il festival.
Il TLVFest, che si terrà nel mese corrente, quest’anno ha rafforzato il suo abbraccio al governo israeliano di estrema destra, in particolare al ministero degli affari strategici.
Il ministero è l’agenzia principale nello sforzo globale di Israele per diffamare e sabotare il movimento per i diritti dei palestinesi nel mondo.
Il TLVFest è una pietra angolare della strategia di propaganda israeliana nota come pinkwashing.
Questo schiera la presunta apertura di Israele verso le questioni LGBTQ per deviare le critiche dai suoi abusi dei diritti umani e dai crimini di guerra contro i palestinesi.
Il pinkwashing mira anche a presentare falsamente Tel Aviv come un luogo sicuro per i palestinesi che cercano relazioni omosessuali, mentre esagerano o mentono sui pericoli che essi devono affrontare nella loro stessa società.
La strategia è tipicamente rivolta al pubblico liberale occidentale.
Sponsorizzazione del Ministero
Il multimilionario Ministero degli Affari Strategici è uno dei principali sponsor del Festival.
Gestito da ufficiali delle agenzie di spionaggio israeliane, intraprende una guerra globale contro il BDS – il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni.
Quando i primi registi hanno iniziato a ritirarsi, il TLVFest ha cercato di nascondere la sua partnership con il Ministero oscurando il suo logo sul sito web del Festival.
“Ha prima sostituito la versione inglese del logo del ministero con una versione ebraica, poi l’ha rimossa del tutto solo per sostituirla di nuovo con un logo senza marchio”, ha detto la Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI).
Ma il sostegno del Ministero al festival è ancora in corso, nonostante gli sforzi per nasconderlo.
Il ministero, ad esempio, sta ancora caricando video teaser del festival sul suo canale YouTube.
Partnership
Diversi governi europei stanno sponsorizzando il Festival.
Le ambasciate europee solitamente partecipano anche all’altro grande evento di pinkwashing di Israele, l’annuale Pride Parade di Tel Aviv.
TLVFest collabora anche con Creative Community for Peace, un gruppo di facciata dell’organizzazione di lobby israeliana di estrema destra StandWithUs.
Il suo scopo è minare l’appello della società civile palestinese al BDS, soprattutto tra coloro che si identificano come LGBTQ.
In un’e-mail vista da The Electronic Intifada, Creative Community for Peace ringrazia i registi rimasti nel Festival.
Il direttore del gruppo, Ari Ingel, sostiene che il movimento BDS “sta diffondendo bugie su di noi”.
“Posso assicurarvi che non siamo allineati con nessuna di quelle organizzazioni citate”, ha aggiunto Ingel, senza nominare le organizzazioni a cui si riferiva.
“Siamo più che felici di chattare e rispondere a qualsiasi domanda voi possiate avere”, ha detto Ingel agli artisti.
Tuttavia, questo atteggiamento amichevole non viene mostrato agli artisti che si sono ritirati dal Festival.
Gli organizzatori del TLVFest si sono rifiutati di onorare le richieste di sette registi che hanno chiesto il ritiro dei loro film.
L’email di Ingel menziona che un film che il festival sta proiettando è The Polygraph, realizzato da Samira Saraya, una cittadina palestinese di Israele.
Non è la prima volta che Saraya partecipa al TLVFest e ad altri festival cinematografici israeliani.
Così Saraya ha descritto se stessa: “una palestinese-israeliana che vive in un luogo che nega la mia esistenza, e una donna lesbica araba in una società conservatrice e omofobica”.
Saraya contribuisce alla falsa narrativa israeliana secondo cui la società palestinese è intollerante nei confronti delle relazioni omosessuali o LGBT, mentre la società israeliana non lo è.
Al di fuori della presunta Tel Aviv liberale, gran parte della società ebraica israeliana considera l’omosessualità un tabù. Essa è condannata anche da rabbini israeliani di alto livello.
Anche la comunità LGBTQ di Israele è stata bersaglio di attacchi violenti.
Nel 2014, i riservisti della famigerata unità militare di sorveglianza 8200 di Israele hanno ammesso di aver utilizzato i dati privati più intimi dei palestinesi, comprese le informazioni sulle loro attività sessuali, per ricattarli e farli diventare informatori di conoscenti e familiari ricercati da Israele.
È anche degno di nota il fatto che la stragrande maggioranza dei palestinesi e degli arabi che intrattengono relazioni omosessuali non si identifichi secondo il binario euro-americano omosessuale-eterosessuale, come ha ampiamente scritto il professore della Columbia University Joseph Massad.
Inoltre, i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso non sono illegali secondo la legge palestinese.
Trad: Lorenzo Poli “siamo realisti, esigiamo l’impossibile” – Invictapalestina.org
Morire di Covid o di fame: il terribile dilemma nell’inferno di Gaza – Umberto De Giovannangeli
Morire di Covid o morire di fame. E’ l’inferno di Gaza. Una prigione a cielo aperto, isolata dal mondo per l’assedio israeliano che dura da oltre tredici anni. E ora anche una prigione “infetta”. La Striscia di Gaza ha subito un numero record di nuovi casi di coronavirus ogni giorno, e il ministero della Salute di Gaza del governo di Hamas, ha dichiarato che sabato ci sono stati 891 nuovi casi nell’ultimo giorno.
Il numero di casi è salito a 5.036, con 332 in ospedale e 78 in gravi condizioni, e i decessi sono saliti a 62, la maggior parte negli ultimi due mesi. Il ministero non pubblica i dati sul numero di pazienti che utilizzano i ventilatori, ma secondo stime non ufficiali, tra il 40 e il 50 per cento dei ventilatori è utilizzato.
“Stiamo raggiungendo una situazione critica e non c’è dubbio che la Striscia avrà bisogno di un intervento esterno sul fronte medico e umanitario”, ha detto ad Haaretz un membro del sistema sanitario di Gaza. La fonte ha aggiunto che gli operatori sanitari e i politici non erano d’accordo su questioni chiave, mentre le autorità erano in ritardo nell’imporre un blocco. Nel frattempo, la stragrande maggioranza dei residenti di Gaza viveva con un reddito di poche decine di shekel al giorno, quindi un isolamento significherebbe una fame diffusa. “Immaginate che un padre di sette o otto figli non possa permettersi nemmeno le maschere per i suoi figli, e le maschere costino uno shekel a testa”, dice.
Senza speranza
Il Centro Al Mezan per i diritti umani di Gaza ha riferito che migliaia di lavoratori giornalieri della Striscia hanno perso il lavoro negli ultimi mesi a causa del peggioramento dell’economia, e che l’80 per cento delle famiglie riceve aiuti per poter sfamare i propri figli. I funzionari della sicurezza di Gaza stanno cercando di imporre restrizioni per impedire gli incontri, soprattutto la sera. Cercano anche di assicurare che le persone indossino le maschere nei grandi centri commerciali, ma durante il giorno la maggior parte dei cittadini di Gaza non indossa maschere.
Inferno in terra
La situazione nella Striscia è molto grave, sia a causa dell’embargo imposto da Israele fin dal 2007, sia per i conflitti combattuti negli ultimi anni tra le forze israeliane e i gruppi palestinesi. La chiusura della centrale elettrica sta peggiorando ulteriormente le cose, soprattutto in un momento in cui questi territori stavano già soffrendo frequenti e diffusi blackout. Mohammed Thabet, uno dei portavoce della compagnia di distribuzione dell’elettricità di Gaza, ha detto all’Associated Press che “molti servizi rischiano il collasso, se la crisi non verrà risolta», mentre il ministro della Salute della Striscia ha parlato di «pericolose conseguenze per i pazienti che si trovano nei reparti di terapia intensiva”. Oggi le uniche linee che forniscono elettricità nella Striscia sono quelle che partono da Israele. Il 97% di tutta l’acqua di Gaza non è adatta al consumo umano, secondo l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), il che pone un interrogativo estremamente urgente: come potrebbero gli ospedali di Gaza affrontare l’epidemia di Coronavirus quando, in alcuni casi, l’acqua pulita non è nemmeno disponibile allo Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza? Anche nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri ed il personale sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima qualità di quest’ultima. Il gel disinfettante per le mani è sempre stato quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di settimane.
Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva, l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero ad una mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.
Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione.
Bambini, le prime vittime
In un documentato report, Save the Children, chiede a Israele di interrompere subito il blocco di Gaza, dove quasi la metà della popolazione non ha lavoro e l’80% sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari, e chiede alle autorità palestinesi e israeliane di fornire i servizi di base indispensabili agli abitanti dell’area. I 13 anni di isolamento hanno ridotto progressivamente la disponibilità di energia elettrica per le case che ora si limita a due ore al giorno o è totalmente assente per troppe persone. La mancanza di energia elettrica sta penalizzando un’infrastruttura già paralizzata dal blocco e dal conflitto, costringendo a frequenti e lunghe sospensioni del trattamento delle acque reflue che hanno causato l’inquinamento e la contaminazione di più del 96% delle falde acquifere, non sono più utilizzabili dall’uomo, e del 60% del mare di fronte a Gaza. Ogni giorno si riversano infatti nel mare 108 milioni di litri di acque reflue non trattate, l’equivalente del contenuto di 40 piscine olimpioniche. “I bambini di Gaza sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di Gaza hanno già sofferto 13 anni di blocco e di minacce continue a causa del conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività,” rimarca Jennifer Moorehead, Direttore di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati.
La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità. “Qui è diverso dagli altri paesi che hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità,” dice agli operatori di Save the Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza.
Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età. Il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all’uccisione di persone. I sintomi rilevati durante lo studio includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti. La conseguenza più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (Dpts), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell’individuo a eventi traumatici o violenti. Si tratta di sintomi frequenti in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico.
Fuga nella morte
Le guerre, l’assedio israeliano e lo scisma politico hanno apparentemente normalizzato la morte, dice Samah Jaber, direttore dell’unità di salute mentale del Ministero della Salute palestinese. La morte è diventata così naturale agli occhi di molti che ora vale più della vita stessa, che ha perso ogni valore, ha detto Jaber in un rapporto di Al Jazeera del 9 luglio sull’ondata di suicidi che sta investendo Gaza, e che riguarda soprattutto i giovani.
Nelle ultime settimane, diverse persone che in passato avevano tentato il suicidio hanno raccontato ai giornalisti le loro motivazioni: difficoltà economiche causate dalla perdita di un reddito regolare, l’accumulo di debiti, pegni e persino l’arresto per essere rimasto indietro con i pagamenti bancari.
La Banca Mondiale prevede che il 64% delle famiglie di Gaza vivrà al di sotto della soglia di povertà (rispetto al 53% prima della pandemia). Anche la disoccupazione (42 per cento nell’enclave alla fine del 2019) dovrebbe aumentare. Tra i giovani, ha già da tempo superato il 50 per cento.
Alcune delle organizzazioni non governative che lavorano nel settore sanitario a Gaza hanno scelto di non essere coinvolte nella recente discussione sui suicidi, per non dare l’impressione che ci sia stato un aumento significativo del loro numero. Il suicidio è ancora considerato tabù e socialmente vergognoso nella società musulmana palestinese.
Diversi siti di notizie hanno pubblicato le statistiche dei suicidi e dei tentativi di suicidio nella Striscia di Gaza negli ultimi anni. Secondo Al-Araby Al-Jadeed, nel 2015, su 553 tentativi di suicidio, 10 si sono conclusi con la morte; nel 2016, sono stati 16 su 626 tentativi. Le cifre per il 2017 sono state 566 e 23; per il 2018, 504 e 20; e nel 2019 ci sono stati 133 tentativi, di cui 22 “riusciti”. Come già notato, nei primi sette mesi di quest’anno, 12 palestinesi della Striscia si sono suicidati, e l’87 per cento di loro aveva meno di 30 anni. Poco più della metà dei tentativi di suicidio sono stati compiuti da donne, ma tra le persone che si sono suicidate, gli uomini sono la maggioranza.
Questa è la “normalità” a Gaza. Una tragedia che si consuma nel silenzio della comunità internazionale. Un silenzio assordante. Colpevole. Un silenzio di morte.
(ha collaborato Hosama Hamdan)
“Un’estetica provocatoria”: il marchio di moda palestinese che rifiuta gli stereotipi – Samar Hazboun
Il termine “moda” evoca solitamente immagini di stoffe srotolate su tavoli da taglio, matassine di filato, aghi, fili e, naturalmente, modelle. Ma in un mondo in cui l’accessibilità e gli spostamenti sono determinati da una forza occupante, il fashion design assume una nuova forma.
Un nuovo collettivo di moda palestinese chiamato tRASHY cerca di sfidare questi limiti trasformando gli atteggiamenti culturali, sia all’interno della società palestinese che nel modo in cui l’Occidente interagisce con le comunità di lingua araba. I suoi fondatori, quattro palestinesi sulla ventina sparsi in tutto il Medio Oriente, vogliono capovolgere la narrazione, a cominciare dal modo in cui il marchio viene scritto.
Dalla sua fondazione, avvenuta tre anni fa, tRASHY è diventato molto di più di un marchio di moda; è un microcosmo delle molte sfide che i giovani palestinesi devono affrontare in Palestina e nel mondo, e una piattaforma per coloro che per generazioni sono stati svantaggiati politicamente, economicamente e socialmente.
Nell’estate del 2017, il membro fondatore e regista Shukri Lawrence iniziò a disegnare t-shirt che mescolavano caratteri arabi con loghi internazionali, “per mostrare all’Occidente qualcosa che è abituato a vedere, ma non dalla Palestina”, dice. Sei mesi dopo, i suoi amici di liceo Reem Kawasmi e Luai Al-Shuaibi si unirono a lui e il gruppo ampliò i propri prodotti includendo abiti, gioielli e altro ancora.
Avevo intenzione di incontrare Lawrence a Gerusalemme Est, dove vive, e intervistarlo di persona. Ma era ad Amman a prepararsi per una sfilata di moda quando a marzo è scoppiato il coronavirus e da allora non è più potuto tornare.
Siamo quindi ricorsi a Zoom, una pratica a cui Lawrence era abituato anche prima della pandemia. Le piattaforme di chat online sono diventate l ‘”ufficio” del team, ha spiegato, poiché questo è l’unico modo in cui possono riunirsi. Come molti palestinesi, i membri del team vivono in luoghi differenti e hanno documenti diversi che determinano dove possono viaggiare. Sebbene Kawasmi e Al-Shuaibi risiedano a Gerusalemme est, il quarto membro, Omar Braika, vive ad Amman. Internet è il luogo in cui possono sfuggire agli ostacoli imposti da Israeele come la barriera di separazione, i posti di blocco e i controlli di sicurezza arbitrari.
In un periodo di blocchi e restrizioni di viaggio, è anche il modo in cui qualcuno come me, un fotografo di Betlemme, ha potuto documentare la loro storia. Cercare di scattare foto su un supporto virtuale è stata per me una nuova sfida: una buona narrazione visiva spesso richiede la creazione di un rapporto di fiducia di un senso di intimità. Ma questa modalità mi ha anche permesso di capire meglio gli ostacoli che la squadra deve affrontare regolarmente. Progettare capi di abbigliamento è un lavoro fisico che richiede di toccare, drappeggiare e tagliare il tessuto; solo artisti determinati e fantasiosi possono svolgere un tale compito comunicando solo digitalmente.
Oltre alle restrizioni di movimento, il team deve affrontare difficoltà nel processo di produzione, spiega Lawrence. Non tutti i tessuti sono prontamente disponibili in Palestina, e i sarti con cui lavorano hanno sede principalmente nella Cisgiordania occupata. Per raggiungerli, i progettisti devono attraversare i posti di blocco.
L’estetica visiva di tRASHY è per lo più ispirata a immagini apparse in Palestina, e talvolta in tutta la più ampia regione di lingua araba, con l’introduzione di Internet negli anni ’90. Molte di queste immagini kitsch vengono trovate in ambienti sha’bi, “folk” o online. TRASHY le incorpora nelle sue creazioni utilizzando la satira, un modo di rompere gli stereotipi, spiega Lawrence.
“Quello che chiamiamo kitsch, o lowbrow, o sha’bi , è di solito solo un’altra parola per definire i poveri o la classe operaia”, spiega lo stilista palestinese Omar Jospeh Nasser, specializzato in tessuti storici rurali della Palestina. Alcuni marchi feticizzano la povertà con il pretesto fuorviante di anti-moda, aggiunge. “Non credo che questo sia lo scopo di TRASHY.”
“L’anti-moda è l’inflessione della moda; rifiuta consapevolmente gli ideali di bellezza e di lusso fissati dalla moda e abbraccia ciò che la moda non proporrebbe mai : gli abiti dei poveri e dei diseredati “, continua Nasser. “L’estetica provocatoria di tRASHY è decisamente palestinese, anche tradizionalmente; non capovolge ciò che qualcuno pensa sia bello. Sappiamo di essere belli. ”
Secondo Lawrence, “TRASHY è un’esperienza. Ogni collezione e sfilata di moda ha un messaggio “. Il marchio mira ad affrontare argomenti come i diritti delle donne, i diritti delle minoranze e il genere. Recentemente, tRASHY ha donato i proventi del proprio lavoro a Rainbow Street, un’organizzazione LGBTQ con sede in Giordania, per aiutare gli arabi queer in Medio Oriente durante la pandemia COVID-19.
“Per noi è molto importante rappresentare tutti questi gruppi, non solo come palestinesi, ma come popolo del Medio Oriente”, osserva Al-Shuaibi, studente del terzo anno di diritto internazionale e criminologia presso l’Università ebraica di Gerusalemme, dove è anche assistente didattico. “Vogliamo sfidare gli stereotipi secondo i quali siamo accusati di essere motivati da ideologie radicali e mostrare chi siamo e quanto siamo diversi”.
Questo viaggio ha incoraggiato il team ad abbracciare le proprie identità individuali e le prospettive sociopolitiche, spiega Kawasmi. È proprio questa aspirazione all’autoespressione, insieme all’attenzione per le questioni di giustizia sociale, che ha unito il gruppo.
Quando si parla di Palestina, anche l’arte e la moda diventano politiche. Con la costante cancellazione da parte del comune di Gerusalemme dell’identità visiva della città – attraverso azioni come la giudaizzazione dei nomi delle strade, la demolizione di case, la costruzione di moderne strutture capitaliste (come il Mamilla Mall) al posto di siti storici e di un programma scolastico che ignora la narrativa palestinese – molte organizzazioni artistiche palestinesi della città si sentono obbligate a sostenere soprattutto quegli artisti che lavorano per resistere a questa cancellazione.
Di conseguenza, tuttavia, ci sono pochi spazi per l’espressione artistica che cerca di spingersi oltre questo tema. “L’arte palestinese spesso si isola e si fissa sul nostro rapporto con il sionismo / colonialismo occidentale, e ignora la moltitudine di ingiustizie intersezionali e di oppressione presenti anche nella nostra società e nel mondo in generale”, spiega Nassar, l’esperto di moda. “La maggior parte dell’espressione creativa palestinese è sicura, romantica, priva di autocritica e rimane legata alla narrativa riduttiva di ‘loro’ e ‘noi’. Se siamo davvero seri riguardo al nostro rifiuto del colonialismo, dell’occupazione, e ingiustizia, dobbiamo andare oltre questa dicotomia. L’occupazione non può e non deve diventare una comodità: un soggetto sicuro e una fonte infinita di ispirazione “.
Con poche istituzioni disponibili a supportare la visione e il lavoro di tRASHY, il team ha dovuto “far accadere le cose da soli”, afferma Kawasmi. Ancora una volta, il collettivo si è rivolto a Internet per raccogliere sostegno e diffondere i propri progetti.
Kawasmi non è ottimista, tuttavia, e non crede che nella sua vita avverrà un cambiamento significativo. Ma mantiene la speranza che ogni punto e ogni nuovo disegno possa creare una nuova possibilità.
L’Alta Corte conferma: tre mesi di lavori socialmente utili per l’omicidio di un palestinese – Michele Giorgio
AGGIORNAMENTO
L’Alta Corte di Giustizia israeliana nei giorni scorsi ha respinto la una petizione che chiedeva la revoca del patteggiamento. Durante le indagini il militare ha confessato di aver aperto il fuoco, da lontano, su entrambi ritenendoli dei «terroristi» intenzionati a lanciare pietre contro auto israeliane. Invece i due palestinesi erano coinvolti in un banale incidente stradale. I giudici hanno accolto la tesi della «buona fede» del militare, convinto di trovarsi di fronte al «pericolo di un attacco terroristico» e hanno confermato la «pena».
Pubblichiamo l’articolo scritto il mese scorso su questa vicenda da Michele Giorgio per il quotidiano Il Manifesto
«Ahmad aveva 22 anni quando è stato ucciso da quel soldato israeliano. Era il primo dei miei figli. Dopo la sua nascita abbiamo aspettato qualche anno prima di allargare la famiglia. Per questo gli altri miei figli lo consideravano un secondo padre». Wafaa Manasrah, la mamma di Ahmad Manasrah, ha la voce rotta dall’emozione mentre parla di quel figlio che, ci ripete, gli aveva portato solo gioia e mai un dispiacere. «Si mostrava quasi sempre felice, era socievole, a scuola non aveva mai avuto difficoltà nello studio e nei rapporti con i compagni di classe. E si era iscritto all’università, alla facoltà di economia e commercio, perché voleva diventare un esperto di marketing…invece è stato ucciso, così, senza motivo. Mi hanno strappato mio figlio senza motivo», aggiunge schiarendosi la voce.
La vita di Ahmad Manasrah è terminata il 20 marzo del 2019, poco dopo le 21, mentre tra risate e battute scherzose, con tre amici il giovane rientrava in auto a Wadi Fukin. Indossava l’abito buono perché nel pomeriggio a Betlemme aveva partecipato alla festa di nozze di una coppia di amici. Nei pressi di un posto di blocco dell’esercito israeliano a sud del villaggio di Al Khader, non lontano dall’insediamento coloniale di Efrat, è stato colpito – al petto e alle braccia – da tre dei sei proiettili sparati da un soldato. Del suo caso si parlò parecchio l’anno scorso. Ed è ritornato di attualità nei giorni scorsi perché il militare coinvolto, di cui non è nota l’identità, dopo essersi dichiarato «addolorato» per l’accaduto, ha patteggiato la pena con la procura militare: sarà condannato per «omicidio colposo» causato da «negligenza» ma riceverà una pena detentiva di appena tre mesi, sospesa, che sconterà svolgendo lavori utili in una caserma.
Il procuratore non ha preso in considerazione il ferimento grave, causato dagli spari dello stesso soldato, ad un altro palestinese, Alaa Raayada, 38 anni e padre di due bambine. L’Alta Corte di giustizia, su ricorso di Shlomo Lecker, avvocato della famiglia Manasrah, ha congelato per ora l’accordo. Non è detto che questa azione preluda all’annullamento dell’accordo. «Il giudice Noam Sohlberg ha accolto la richiesta della famiglia di riesaminare il patteggiamento ma non è possibile fare previsione sulle sue decisioni, potrebbe pronunciarsi contro l’accordo proposto dalla procura militare o prendere la direzione opposta. Meglio non illudersi, quando di mezzo c’è l’operato di soldati in servizio, ottenere giustizia per i palestinesi è una impresa eccezionale», ci dice Roy Yellin, di B’Tselem, ong israeliana per la difesa dei diritti umani nei Territori occupati che sta seguendo la vicenda. Wafaa Manasrah non riesce a farsene una ragione: «Per gli israeliani la vita dei palestinesi non vale nulla, la vita di mio figlio vale tre mesi di lavori per la comunità».
Quanto accaduto la sera del 20 marzo dello scorso anno, non è un fatto insolito nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione. Tutto ebbe inizio con un banale alterco tra due automobilisti. Alaa Raayada accostò a destra la sua auto, con a bordo la moglie e le figlie. Voleva dirne quattro a un altro automobilista palestinese dalla guida un po’ scorretta. A 50 metri di distanza c’era il posto di blocco israeliano. L’altro automobilista invece non si fermò e proseguì il suo tragitto. Quando Alaa fece per tornare al volante, da una torre di sorveglianza del posto di blocco israeliano partirono alcuni colpi di arma automatica. Uno lo raggiunse all’addome. Tra le grida di dolore dell’uomo, la moglie chiese soccorso ai quattro giovani sull’auto dietro di loro. I ragazzi chiamarono un’ambulanza. Poi di fronte all’abbondante sanguinamento del ferito decisero di portarlo subito all’ospedale.
Ahmad Manasra restò con la moglie e le bambine di Raayada. Voleva mettere in moto l’auto e portarle a casa. Dal posto di blocco spararono ancora, tre colpi. Ahmad fu centrato in pieno petto. Inutile il tentativo di rianimarlo effettuato dai sanitari giunti con l’ambulanza chiamata in precedenza. Il giovane arrivò morto all’ospedale di Beit Jala. «Qualcuno ci avvisò che Ahmad aveva avuto un problema, senza darci particolari», ricorda la mamma «quando mio marito ed io arrivammo all’ospedale c’erano tante persone davanti all’ingresso, ero confusa non sapevo che pensare. Poi qualcuno disse ‘lasciateli passare, c’è la mamma dello shahid’ (martire) mi si gelò il sangue addosso, capii che Ahmad era morto. La fitta di dolore che provai in quel momento resterà incisa nel mio cuore per sempre».
Il soldato coinvolto, durante le indagini, ha dichiarato di aver sparato perché credeva che «quei palestinesi stessero lanciando sassi contro automobili di cittadini israeliani» e di aver esploso in aria in precedenza colpi di avvertimento. Il portavoce dell’esercito ha aggiunto che quel giorno «era stato diffuso l’allerta su un possibile attacco terroristico». Per i palestinesi si tratta di motivazioni volte a giustificare in qualche modo l’uccisione di Ahmad ed evitare al militare una condanna vera. Ricordano il caso di Elor Azaria, un soldato israeliano che a Hebron nel 2016 uccise a sangue freddo un accoltellatore palestinese a terra gravemente ferito e non in condizione di nuocere. Condannato a 18 mesi di detenzione, Azaria fu graziato dopo aver scontato metà della pena.
Questi patteggiamenti però sono rari, sottolinea B’Tselem. In quasi tutti i casi in cui i soldati uccidono palestinesi senza ragioni, le indagini si chiudono senza un rinvio a giudizio. Solo occasionalmente la procura incrimina i militari e, aggiunge l’ong, poi propone dei patteggiamenti con pene irrisorie. Di fronte a ciò B’Tselem qualche anno fa ha deciso di non seguire più queste indagini militari perché, ha spiegato, il suo operato oltre a non produrre risultati utili per le famiglie delle vittime palestinesi offriva indirettamente una sorta di copertura alle uccisioni.
Per lo Stato ebraico, l’Olocausto è uno strumento da manipolare – Orly Noy
Qualcosa di straordinario è accaduto nella stessa settimana in cui un comitato governativo israeliano interno ha approvato la nomina di Effi Eitam, un ex generale delle Forze di Difesa Israeliane e politico di estrema destra, a presidente dello Yad Vashem, il museo israeliano dell’Olocausto. In un incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu, il Segretario di Stato uscente degli Stati Uniti Mike Pompeo ha annunciato che il presidente Donald Trump intende dichiarare antisemita il Movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).
La vicinanza tra i due annunci simboleggia la fase finale della metamorfosi manipolativa che l’antisemitismo e l’Olocausto hanno subito nelle mani del sionismo.
Effi Eitam, un falco di destra e un dichiarato razzista, ha fatto le seguenti osservazioni nel 2006 durante il servizio funebre per il tenente Amichai Merhavia, ucciso nella seconda guerra del Libano:
“Dovremo fare tre cose: espellere la maggior parte degli arabi di Giudea e Samaria (Cisgiordania) da qui. È impossibile con tutti questi arabi ed è impossibile rinunciare al territorio, perché abbiamo già visto quello che stanno facendo lì. Alcuni possono essere in grado di rimanere in determinate condizioni, ma la maggior parte dovrà andarsene. Dovremo prendere un’altra decisione, ovvero cacciare gli arabi israeliani dal sistema politico. Anche qui le cose sono chiare come il giorno: abbiamo creato una quinta colonna, un gruppo di traditori di primo grado, quindi non possiamo continuare a consentire una presenza così ostile e ampia nel sistema politico israeliano. Terzo, di fronte alla minaccia iraniana, dovremo agire diversamente da come abbiamo fatto fino ad oggi. Queste sono tre cose che richiederanno un cambiamento nella nostra etica di guerra”.
L’espulsione di un popolo nativo occupato dalla propria terra da parte della forza occupante è un crimine di guerra. Impedire la partecipazione dei cittadini al sistema politico basato sull’appartenenza etnica o nazionale è simile al fascismo. Il nuovo presidente dello Yad Vashem non ha esitato ad esprimere opinioni che equivalgono a crimini di guerra al fine di promuovere le sue ambizioni politiche.
Trump, come ha scritto Libby Lenkinski in queste pagine, è l’uomo che ha riportato in auge il classico antisemitismo negli Stati Uniti mentre veniva calorosamente abbracciato dal primo ministro dello Stato ebraico.
Anche la predilezione dello Yad Vashem per i fascisti e i criminali di guerra non è un segreto. Da quando il primo ministro dell’Apartheid sudafricano John Worster, membro di un’organizzazione filo-nazista durante la seconda guerra mondiale, ha visitato lo Yad Vashem nel 1976, il museo ha ospitato anche una delegazione della giunta militare del Myanmar responsabile di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Ha aperto le sue porte al presidente brasiliano Jair Bolsonaro, l’uomo che ha lodato Hitler e sostiene apertamente l’eliminazione fisica delle persone LGBTQ, della popolazione indigena del Brasile e di una serie di altre atrocità, tra cui stupri, torture e dittatura militare. Ha anche ospitato il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che ha espresso sostegno a Miklós Horthy, leader antisemita ungherese durante la seconda guerra mondiale; e Anthony Lino Makana del Sud Sudan, un alto funzionario di un governo responsabile di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Se in precedenza il sionismo giustificava i suoi crimini contro il popolo palestinese in nome dell’Olocausto, oggi usa l’Olocausto come strumento per giustificare l’antisemitismo stesso in cambio di profitto politico. Inoltre: permette ad un antisemita di definire cos’è l’antisemitismo. Questa è l’amara verità che affrontiamo oggi: per lo Stato ufficiale di Israele, il concetto di Olocausto e antisemitismo sono mezzi puramente politici e come tali possono essere manipolati, distorti e aggirati, proprio come qualsiasi altro strumento politico.
Dopo aver espropriato i palestinesi con il pretesto dell’Olocausto, i leader israeliani stanno ora adottando un antisemita come Trump che perseguiterà i discendenti di quegli stessi palestinesi espropriati in nome della lotta all’antisemitismo. E non solo loro, ma anche gli innumerevoli ebrei che mostrano solidarietà per la lotta palestinese per la giustizia. Tuttavia, finché ci saranno persone di coscienza che rabbrividiranno alla vista di questo odioso sfruttamento della memoria dell’Olocausto, sarà difficile farlo.
Questo è il motivo per cui Effi Eitam, razzista e sostenitore dei crimini di guerra, è stato incaricato di custodire la memoria della tragedia ebraica, in modo che l’Olocausto rimanga per sempre soggetto a manipolazioni opportunistiche e politiche. È così che Israele onora i morti nel 2020.
(Orly Noy è un editore di Local Call, un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa farsi. È membro del consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. La sua scrittura affronta le linee che intersecano e definiscono la sua identità di Mizrahi, una donna di sinistra, una donna, una migrante temporanea che vive all’interno di un immigrazione perpetua, e il dialogo costante tra loro)
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
STATI UNITI: L’ATTACCO DEL DIPARTIMENTO DI STATO AL MOVIMENTO BDS VIOLA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE
In risposta al Dipartimento di Stato statunitense che stamane ha definito il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) antisemita, Bob Goodfellow, direttore esecutivo ad interim di Amnesty International USA, ha detto:
“Questo è semplicemente l’ultimo di una serie di attacchi da parte del governo statunitense, che rappresentano una minaccia per l’universalità dei diritti umani e per la lotta globale contro tutte le forme di razzismo e discriminazione, incluso l’antisemitismo.
Sostenere il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni è una forma di sostegno non violento e di libertà di espressione che va tutelata.
Definire antisemiti gruppi che usano mezzi pacifici- come il boicottaggio- per chiedere di porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i Palestinesi viola la libertà di espressione, ed è un atteggiamento che va a favorire coloro i quali intendono silenziare, minacciare, intimidire e opprimere i difensori dei diritti umani nel mondo.
L’amministrazione statunitense sta seguendo l’approccio del governo israeliano nel muovere accuse di antisemitismo infondate e dettate da motivazioni politici contro attivisti pacifici – incluso difensori dei diritti umani- proteggendo coloro che mettono in pericolo la vita di persone in Israele, Territori Palestinesi Occupati e qui a casa dall’obbligo di rispondere delle loro azioni illegali.
Il processo suona particolarmente ipocrita e poco onesto provenendo da un’amministrazione che ha appoggiato i neo-Nazisti, suprematisti bianchi, e altri gruppi che supportano la violenza e la discriminazione, dimostrando una profonda non curanza verso il diritto internazionale, e favorendo le politiche israeliane che si traducono in discriminazione istituzionalizzata e violazione sistematica dei diritti umani di milioni di Palestinesi.
Questo processo, promuovendo l’idea che Israele e l’Ebraismo siano la stessa cosa e, mettendo sullo stesso piano le critiche contro le politiche del governo israeliano e le pratiche di antisemitismo, rappresenta anche un insulto verso gli stessi Ebrei. Rappresenta una minaccia verso il nostro lavoro di tutela dei diritti delle minoranze religiose e altre minoranze in Medio-Oriente e altre regioni.
Continueremo a sostenere i nostri colleghi israeliani e palestinesi, incluso gli attivisti del BDS, che – in qualità di difensori dei diritti umani nel mondo- si fanno sentire quando la giustizia, la libertà, la verità, e la dignità vengono negate”.
La visita all’insediamento
Stamattina Mike Pompeo ha visitato l’insediamento israeliano di Psagot, e si tratta della prima visita nella storia da parte di un Segretario di Stato statunitense in servizio a un insediamento israeliano illegale.
Lo scorso Novembre gli Stati Uniti avevano dichiarato che non avrebbe considerato illegali gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, una dichiarazione che è in netto contrasto con molte risoluzioni delle Nazioni Unite e la posizione di quasi tutti gli altri governi del mondo.
Trad. Rossella Tisci – Invictapalestina.org
Come l’uccisione di un giovane palestinese è diventata un’opera teatrale recitata dagli afroamericani – Nada Elia
Il mese scorso ha segnato il ventesimo anniversario dell’uccisione da parte di Israele del diciassettenne Asel Asleh, un cittadino palestinese di Israele il cui idealismo giovanile lo aveva spinto a frequentare il campo organizzato da “Seeds of Peace” con altri palestinesi, israeliani e americani.
Asleh era uno dei 13 palestinesi disarmati uccisi in Israele dalle forze di sicurezza israeliane durante quel mese, insieme a dozzine di altri palestinesi nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e a Gaza, mentre le proteste scoppiavano nella storica Palestina in quella che divenne poi nota come la Seconda Intifada. È morto indossando ancora la sua maglietta verde dei “Semi di Pace”.
Marlowe utilizza la storia del suo amico per lanciare un dibattito internazionale tra tutte le famiglie, dalla Palestina agli Stati Uniti, che hanno perso i propri cari a causa della violenza di Stato
Nel 2016, dopo anni di interviste con la sorella di Asleh, Nardeen, e con altri, la drammaturga e attivista americana Jen Marlowe, che era una consulente del campo “Seeds of Peace”, ha prodotto un’opera teatrale intitolata “There is a Field” sull’omicidio del suo amico e sui tentativi falliti della famiglia Asleh per ottenere giustizia.
Quest’anno, Marlowe ha completato un documentario basato su quella commedia. È stato presentato per la prima volta in Palestina il 2 ottobre, l’anniversario dell’uccisione di Asleh, e negli Stati Uniti il 18 ottobre, con ulteriori proiezioni virtuali durante tutto il mese e dibattiti con attivisti, organizzatori e membri della famiglia Asleh. La premiere statunitense è stata caratterizzata da interventi potenti e stimolanti tenuti, tra gli altri, dal fratello della vittima, Baraa Asleh, e da Gwen Carr, la madre di Eric Garner, le cui ultime parole, “Non riesco a respirare”, sono diventate un grido di battaglia contro la brutalità della polizia.
Il documentario riprende una lettura dell’opera teatrale, eseguita in New Mexico da organizzatori e attivisti di Black Lives Matter, e intervallata da filmati d’archivio di quel fatidico giorno dell’ottobre 2000 e delle sue conseguenze. Include commenti sulle molte somiglianze tra la situazione dei cittadini palestinesi di Israele e i neri americani, poiché entrambe le comunità affrontano il razzismo sistemico e un apparato statale che li considera indesiderabili e “usa e getta”.
Questo non significa che il film, o i dibattiti sulle forze dell’ordine, sulla violenza e sul razzismo sistemico, siano astrazioni intellettuali. Marlowe eccelle nel dettagliare il personale, l’intimo, l’umano. Il suo lavoro, in questo film e altrove, è una sottile critica al fatto che i movimenti politici possono oscurare la tragedia personale ai fini di una mobilitazione su larga scala: figli, fratelli e amici intimi assassinati diventano spesso martiri simbolici appartenenti alla comunità, con poche opportunità, per i loro parenti più stretti, di piangerli.
In una scena straziante, mentre la processione per il funerale di Asleh attraversa il loro villaggio, la folla blocca la vista del suo amato fratello a Nardeen, mentre Baraa non può nemmeno intravedere la bara e deve invece guardare la processione in televisione.
Sistemi suprematisti
Marlowe usa questi dettagli privati per avviare un dibattito tra gli attori-attivisti e il pubblico, in grado di riconoscere, nella difficile situazione della famiglia Asleh, aspetti del proprio dolore e della propria perdita, poiché anche loro devono confrontarsi con un sistema suprematista deciso a eliminarli.
L’autrice utilizza la storia del suo amico per lanciare un dibattito internazionale tra tutte le famiglie, dalla Palestina agli Stati Uniti, che hanno perso i propri cari a causa della violenza di stato e su tutte le persone le cui vite sono state sconvolte dal razzismo insensibile e omicida e dall’indifferenza del sistema giudiziario rispetto alla loro situazione.
Il film ci offre uno sguardo intimo su una famiglia in lutto, umanizzando individui il cui dolore è regolarmente mascherato dai media occidentali. Ma “There is a Field” è molto più di un documentario, più della storia di un martire e della sua famiglia. È un ottimo esempio di “artivismo” – arte per la giustizia sociale e per costruire la solidarietà attraverso la narrazione.
Il commento degli attivisti Black Lives Matter è toccante, poiché articolano le ragioni fondamentali della solidarietà transnazionale e della lotta congiunta. Un attore lo ha espresso al meglio quando ha spiegato che, da adolescente nera negli Stati Uniti, ha sempre sentito di avere un bersaglio sulla schiena – e si è resa conto, attraverso la storia di Asleh, che i palestinesi si sentono allo stesso modo.
“There is a Field” è stato prodotto da Donkeysaddle Projects, che Marlowe ha fondato, e che – fino alla pandemia Covid-19 e al conseguente blocco – aveva supportato una serie di rappresentazioni e spettacoli comunitari intensivi basati sul teatro, utilizzando lo spettacolo come cornice per un’educazione politica e per la costruzione del movimento. Il sito web del progetto spiega che esso mira a “costruire la solidarietà nero-palestinese e rafforzare l’organizzazione locale in Palestina e la costruzione trasversale del movimento”.
Battaglie interconnesse
La storia di Asleh, raccontata da Marlowe, è subito collegata alla lotta per la liberazione palestinese, alla sovranità indigena su Turtle Island e al movimento Black Lives Matter. È una forte denuncia di quel modello di giovani disarmati – neri, mulatti e arabi – uccisi impunemente da una forza di polizia iper-militarizzata che li vede come minacce o criminali, non come giovani idealisti o adolescenti che stanno semplicemente tornando a casa.
Lo spettacolo critica anche Seeds of Peace e simili programmi di incontro tra giovani palestinesi e israeliani. Il commento frustrato di Nardeen al suo collega israeliano “non mi sono trasferita in Israele, Israele si è trasferita da me” ricorda il colonialismo verso gli indigeni del Nord America, così come l’affermazione di Malcolm X che “non siamo atterrati su Plymouth Rock, Plymouth Rock è atterrato su di noi ”.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.
Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica palestinese della diaspora. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro, “Who You Callin ‘”Demographic Threat?” Notes from the Global Intifada” . Professoressa di Gender and Global Studies (in pensione) è membro dello Steering Collective della US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (USACBI)
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.corg
L’ASSASSINIO «PREVENTIVO» DI OGNI PACE – Alberto Negri
Trump-Netanyahu . Il premier israeliano dovrà trattare con Biden, convincerlo a mantenere le sanzioni a Teheran e vendergli il patto di Abramo con le monarchie dl Golfo, esteso dal Medio Oriente al Mar Rosso, al Corno d’Africa, come il più grande obiettivo strategico della coppia Usa-Israele per soffocare l’Iran, limitare la Turchia e frenare l’espansione cinese tra Africa e Medio Oriente
Siamo ormai arrivati all’assassinio «preventivo», con la solita licenza di uccidere incorporata nel Mossad. L’anno si chiude – almeno per il momento – come si era aperto, quando il 3 gennaio gli Usa ammazzarono a Baghdad con un drone il generale iraniano Qassem Soleimani.
Con l’uccisione in Iran di Mohsen Fakhrizadeh, definito sui nostri media il «padre dell’atomica iraniana» – una bomba che Teheran non ha mai avuto ma Israele sì – in Occidente si incrociano pericolosamente false notizie come questa, con la politica della terra bruciata intorno alla repubblica islamica voluta da Trump e Netanyahu.
In realtà Trump ce lo siamo meritato scrivendo scempiaggini che rischiano di fare apparire giustificato un eventuale attacco diretto all’Iran. Ed ecco che Netanyahu e il Mossad hanno anticipato Trump e dato il via libera a far fuori un altro scienziato iraniano, antica specialità dei servizi israeliani. Colpire direttamente l’Iran, come vorrebbe Trump per uscire dalla Casa Bianca da effimero trionfatore e non da sconfitto qual è, potrebbe causare una reazione troppo pericolosa anche per Israele.
Trump, che ha riconosciuto Gerusalemme capitale, l’annessione del Golan e gli insediamenti illegali in territorio palestinese con l’ultimo viaggio di Mike Pompeo, ha dato molto a Israele ma una guerra aperta contro l’Iran è troppo anche per Netanyahu: con dei processi sulle spalle e al governo in condominio con l’ineffabile Gantz (per altro mai al corrente di nulla) non può permetterselo.
Il premier israeliano dovrà trattare con Biden, convincerlo a mantenere le sanzioni a Teheran e vendergli il patto di Abramo con le monarchie dl Golfo, esteso dal Medio Oriente al Mar Rosso, al Corno d’Africa, come il più grande obiettivo strategico della coppia Usa-Israele per soffocare l’Iran, limitare la Turchia e frenare l’espansione cinese tra Africa e Medio Oriente.
È la vecchia strategia del «doppio contenimento», un tempo applicata a Iran e Iraq, che fa leva sui conflitti regionali. Ma con delle varianti. Tra i democratici di oggi alla segreteria di Stato c’è Blinken, legato a filo doppio a Israele, favorevole nel 2011 ai bombardamenti in Libia e Siria, uno dei complici del disastri di Hillary Clinton, e che negli omicidi mirati troverà appoggio nella nuova capa dei servizi, la signora Avril Haines, specialista in droni. Con loro c’è pure Jake Sullivan, nuovo consigliere della sicurezza nazionale, clintoniano e consulente di Obama sul nucleare iraniano. Questa è la prima linea di Biden, definita dalla stampa Usa quella degli gli «interventisti liberali»: sono loro che dirigeranno eventuali negoziati con Teheran.
Ma l’agenda di Biden per la ripresa delle trattative sull’accordo abbandonato e stracciato da Trump nel 2018 deve fare i conti con la tattica della terra bruciata e il pericoloso avventurismo del presidente uscente, oltre che con la diffidenza dell’Iran dove il presidente Hassan Rohani è alle strette con la Guida Suprema Ali Khamenei e l’ala dura dei pasdaran. Trump è diventato un cane sciolto. Due settimane fa ha fatto fuori il capo del Pentagono Mark Exper, contrario a uno «strike» contro Teheran, mentre un portavoce della Difesa esprimeva la preoccupazione che il presidente potesse avviare «operazioni coperte», espressione orwelliana per dire che il presidente potrebbe colpire direttamente l’Iran.
Poi Washington ha tirato fuori la notizia che il 9 agosto scorso agenti israeliani avrebbero ucciso a Teheran Al Masri, storico capo di Al Qaeda: la «pistola fumante» che l’Iran appoggia il terrorismo. Quindi Trump ha inviato in Medio Oriente Abram Elliot, consigliere negli anni’80 dei governi massacratori del Salvador e del Guatemala, per definire nuove sanzioni a Teheran e accordo con Israele e le monarchie del Golfo. Sanzioni puntualmente arrivate con il viaggio del segretario di stato Pompeo in Medio Oriente e che hanno colpito la Fondazione degli Oppressi, il maggiore conglomerato economico che risponde direttamente alla Guida Suprema.
A questo punto l’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh era già stato programmato. La testa dello scienziato iraniano con ogni probabilità è stata gettata sul tavolo del principe saudita Mohammed bin Salman (MBS) che a Noem sul Mar Rosso qualche giorno fa ha incontrato Pompeo e Netanyahu accompagnato dal capo del Mossad Yossi Cohen. Gli israeliani stanno facendo di tutto per invogliare Riad a entrare nel Patto di Abramo con Emirati e Bahrain. Ma sia il principe che suo padre, il declinante re Salman, si tengono stretta la carta della normalizzazione con Israele per giocarsela con l’amministrazione Biden, insistendo su un improbabile accordo di pace con palestinesi ma soprattutto sulla fine delle pressioni negli ambienti liberali di Washington per una democratizzazione del regno saudita che si è distinto per la repressione brutale di ogni dissenso e il macabro assassinio del giornalista Jamal Khashoggi. Ma, perdinci, 450 miliardi di dollari di commesse saudite di armi agli Usa valgono pure qualche omicidio. Sarà Biden a rinunciarci?
Ecco a che servono gli assassini preventivi: è l’eredità del duo Trump-Netanyahu, sono le «linee guida» per la nuova amministrazione. Tutto questo aspettando Biden. O forse Godot.
tratto da: https://ilmanifesto.it/lassassinio-preventivo-di-ogni-pace
AMIRA HASS – LE ULTIME NOVITÀ IN FATTO DI MORALITÀ ISRAELIANA: DEMOLIZIONE DI CASE, SFOLLAMENTI E COSTRUZIONE DI NUOVI INSEDIAMENTI COLONICI
tratto da: Beniamino Benjio Rocchetto
Mercoledì scorso un’unità dell’Amministrazione Civile e delle Forze di Difesa Israeliane ha distrutto una condotta idrica di 1,5 chilometri e così facendo ha estromesso i villaggi di Mughayer al-Abid e Khirbet Al-Majaz nel Masafer Yatta, nel distretto di Hebron, dal loro approvvigionamento idrico.
Gli esecutori hanno ignorato il fatto che gli abitanti del villaggio di Masafer Yatta hanno presentato un ricorso all’Alta Corte di giustizia contro i danni alle tubature che portano loro l’acqua dalla condotta centrale nel villaggio di Al-Tawani. L’udienza è prevista per marzo.
I discendenti dei profeti sono convinti che i palestinesi non abbiano bisogno dell’acqua come noi ebrei. I discendenti dei sopravvissuti hanno deciso che fornire acqua potabile ai palestinesi nel 62% della Cisgiordania contraddice la legge e la tradizione dei nostri antenati.
Masafer Yatta è l’area storica di pascolo e coltivazione dei residenti del villaggio di Yatta (oggi una città), in cui alcuni di loro si stabilirono e radicarono in comunità separate anche prima della creazione dello Stato di Israele.
Israele afferma di avere il diritto di espellere i residenti dai loro villaggi in modo che l’esercito possa condurre esercitazioni di addestramento con fuoco vivo nell’area. Ecco perché proibisce loro di collegarsi alle infrastrutture e distrugge le strade che hanno ampliato e ripulito dalle rocce. Lo stato ebraico sa che non tutti potranno continuare a vivere così e se ne andranno. In altre parole, gli israeliani costringono i Palestinesi a fuggire facendo credere che sia una loro libera scelta.
Nel 2001 a Masafer Yatta è stato istituito l’avamposto illegale e non autorizzato di Avigayil. I coloni israeliani si sono impossessati di due sorgenti che sono sempre state utilizzate dai contadini e dai pastori palestinesi. L’avamposto sta subendo un processo accelerato di regolarizzazione. È collegato alle infrastrutture elettriche e idriche ed è servito da una strada asfaltata. Come gli altri avamposti della regione e gli altri insediamenti.
Il 27 ottobre, una forza dell’Amministrazione Civile scortata dall’esercito ha demolito una casa in pietra appartenente a una famiglia di cinque persone (genitori e tre figli) nella comunità di Birin a nord-est di Yatta. Le nostre forze hanno anche distrutto la cisterna dell’acqua della famiglia. Non è una piattaforma petrolifera o un tentativo di raggiungere le falde sotterranee. È una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana o per l’acqua acquistata e consegnata con le autobotti.
Le scarse notizie comunicate dall’emittente radiofonica Voce della Palestina (Voice of Palestine) e le dichiarazioni di B’Tselem ai media, quasi quotidianamente, sono molto simili tra loro. In quel momento un’unità dell’Amministrazione Civile arrivò con l’esercito o una scorta della Polizia di Frontiera in questa o quella comunità e demolì la residenza di una famiglia di cinque o sette persone, o confiscò uno scavatore che spianava la strada a un frutteto, o ha emesso un ordine di demolizione per una struttura adibita a scuola. Tali atti si ripetono e stufano noi, gli scrittori, gli editori, e voi lettori. Ecco perché non vengono titolati ogni giorno con: per la gloria della moralità israeliana.
Dal 2006 fino alla fine di settembre 2020 Israele ha demolito almeno 1.623 strutture residenziali palestinesi (solitamente tende, capanne, roulotte, ecc.) in Cisgiordania, esclusa Gerusalemme Est, e 7.068 persone, inclusi 3.543 bambini, ridotti a senzatetto. E il lavoro e il denaro che hanno investito sono andati perduti, e con essi i loro sogni e speranze.
Israele ha demolito più di una volta le misere case di almeno 1.100 palestinesi, inclusi 527 bambini, in comunità la cui esistenza ha deciso di non riconoscere.
Dal 2012 fino alla fine di settembre di quest’anno, Israele ha demolito 1.804 strutture non residenziali: come cisterne d’acqua, recinzioni, recinti per animali, magazzini e così via.
Non sono incluse nei calcoli tutte quelle case che dovrebbero essere edificate ma non vengono costruite, a causa dei divieti israeliani e della paura delle conseguenze e dei costi della demolizione.
Nei primi nove mesi di quest’anno Israele ha demolito le residenze di 418 palestinesi in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), inclusi 208 bambini. Il numero più alto dal 2016, secondo i calcoli di B’Tselem.
Il 2020 è stato un anno da record, negli ultimi due decenni, per quanto riguarda lo sviluppo degli insediamenti colonici. L’ONG Peace Now stima che il Consiglio Supremo di Pianificazione dell’Amministrazione Civile abbia approvato quest’anno la costruzione di 12.159 unità abitative per israeliani in Cisgiordania. Di questi, 4.948 sono stati approvati il 14 e 15 ottobre.
Nei primi nove mesi di quest’anno sono state demolite 100 abitazioni palestinesi a Gerusalemme Est (68 sono state demolite dai loro proprietari, in modo che il comune della città unita non li obbligasse a pagare le spese di demolizione). Vittime della demolizione: 323 persone, di cui 167 bambini.
Dal 1967, Israele, il rappresentante del popolo ebraico attraverso le generazioni, ha adottato una politica di limitazione della costruzione per i palestinesi nell’area annessa a Gerusalemme. Questo oltre ad una massiccia confisca di terra privata palestinese e il suo trasferimento agli ebrei, cittadini di Israele e della diaspora. Il popolo eletto.
Traduzione: Beniamino Rocchetto
Etichettare come ‘Made in Israel’ i prodotti degli insediamenti significa approvare furti di terra e saccheggi – Hanan Ashrawi
La visita del Segretario degli Stati Uniti nella Cisgiordania occupata è un ultimo disperato tentativo dell’amministrazione statunitense uscente per rafforzare il suo modello di criminalità, illegalità e complicità diretta nella colonizzazione della Palestina e nell’espropriazione del nostro popolo. È anche un cinico sfruttamento da parte di Pompeo per promuovere i propri obiettivi politici personali come nuovo volto degli ideologi di estrema destra negli Stati Uniti.
Etichettare i prodotti fabbricati all’interno degli insediamenti israeliani illegali come “fatti in Israele” o “prodotti di Israele” è una politica oltraggiosa e illegale che equivale di fatto al riconoscimento dell’annessione a Israele della maggior parte della Cisgiordania. È un tentativo di legittimare il furto della terra palestinese e il saccheggio delle risorse palestinesi che va contro i principi fondamentali del diritto internazionale e del consenso globale.
Inoltre, la dichiarazione di ostilità di Pompeo contro gli stati e le organizzazioni internazionali che etichettano correttamente i prodotti degli insediamenti israeliani è un affronto agli obblighi della comunità internazionale verso la legge, inclusa la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questi prodotti sono il prodotto di un furto. Devono essere boicottati, non supportati.
Aggiungendo la beffa al danno, Pompeo ha anche annunciato il disaccoppiamento dei Territori Palestinesi Occupati, etichettando i prodotti palestinesi dalla Cisgiordania e da Gaza come entità separate. Questa è un’altra misura che conferma che l’agenda di Trump è sempre stata la privazione dei diritti del popolo palestinese e la sua sottomissione permanente al controllo illegale di Israele. È anche in linea con l’agenda dell’amministrazione Trump che cerca di mantenere i Palestinesi divisi e di mantenere la loro spaccatura interna.
Questa amministrazione statunitense uscente ha speso grandi sforzi per normalizzare le violazioni israeliane del diritto internazionale, combattendo i diritti più elementari del popolo palestinese, oltre a intimidire e ricattare gli altri paesi perché accettino questi crimini. Queste dichiarazioni di Pompeo sono un’estensione di questa complicità e di questa conflittualità.
Misure dannose di questo tipo hanno lo scopo di mettere all’angolo la prossima amministrazione statunitense con una serie di misure legali e amministrative che mantengano l’eredità distruttiva di Trump anche oltre il suo disgregante mandato. Queste politiche non sono solo oltraggiose, ma hanno conseguenze molto reali sulla vita e sui diritti dei Palestinesi e devono essere annullate.
Il mondo intero ha bisogno di riprendersi dall’eredità di Trump e dal caos che ha creato. La leadership palestinese attende con impazienza di lavorare con tutti gli Stati responsabili, per forgiare un nuovo percorso verso la giustizia e la pace, basato sul rispetto reciproco e sull’impegno per lo stato di diritto.
Hanan Ashrawi è membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
‘La Supremazia Bianca è un principio presente in profondità nella società americana- e gli Ebrei ne sanno qualcosa’ – Noam Chomsky
Noam Chomsky prima delle elezioni americane ha dichiarato più volte che avrebbe votato per Joe Biden e che i progressisti americani avrebbero dovuto fare lo stesso. In una intervista precedente al 3 di novembre il leggendario intellettuale e linguista ha detto a Salon: “La mia posizione è votare contro [il Presidente Donald] Trump. Nel nostro sistema bipartitico è un fatto tecnico per cui, se vuoi votare contro Trump, devi schiacciare il pulsante per i Democratici.”
Concluse le elezioni e con Biden nuovo presidente eletto, Chomsky ha detto ad Haaretz la scorsa settimana che il lavoro dei progressisti americani è solo all’inizio. In una intervista via Zoom, Chomsky, che compie 92 anni il mese prossimo, sembra scettico sulla possibilità che i democratici producano quel cambiamento che milioni di americani sperano.
“Che cosa farà Biden? Il Senato è nelle mani del leader della maggioranza Mitch McConnell, che sa fare solo due cose: bloccare tutto ciò che i democratici cercano di fare e, l’altra cosa, dare ai ricchi tutto quello che vogliono,” dice.
Chomsky continua: “Biden è un contenitore vuoto. Non credo che abbia principi saldi. È in conflitto con il DNC (Democratic National Committee) che gestisce il partito ed rappresenta fondamentalmente l’ala di Wall Street. Se cercherà di fare qualcosa di progressista, La Corte Suprema è lì pronta a fermarlo. Trump e McConnell sono responsabili di aver riempito l’intero sistema giudiziario, da cima a fondo, di giudici di estrema destra che possono bloccare qualsiasi iniziativa progressista si presenti”, accusa.
Biden ha vinto sia il voto popolare che quello elettorale, ma più di settanta milioni di americani hanno votato per Trump (che ha rifiutato di accettare il risultato e sta lanciando la falsa accusa che le elezioni siano state “rubate”). Questo preoccupa Chomsky. “Nonostante Biden abbia vinto, Trump ha riportato un’enorme affermazione. È incredibile che uno che ha appena ucciso centinaia di migliaia di Americani possa anche solo concorrere per la presidenza. Il solo fatto che le elezioni siano state contestate è una immensa vittoria repubblicana. Trump è un abile politico che capisce la mentalità americana,” commenta Chomsky.
“Trump è riuscito ad attingere alle correnti velenose che scorrono poco al di sotto della superfice della vita, della cultura e della storia americane, semplicemente per estrarre e potenziare il veleno. È su questo che si è mosso. La supremazia bianca è un principio situato in profondità nella società e nella cultura americane. Gli Ebrei ne sanno qualcosa. Sono abbastanza vecchio da ricordare aperte manifestazioni di antisemitismo nelle strade. Ma il razzismo anti-neri è ben più estremo,” afferma.
La vittoria di Biden ha visto i Newyorkesi e tanti altri nelle grandi città riversarsi in strada spontaneamente a ballare, mentre esperti e giornalisti festeggiavano il ritorno alla decenza e al rispetto della costituzione. Biden promette di curare e unire la nazione. Chomsky pensa che questo possa realmente accadere?
“Andiamo in entrambe le direzioni,” risponde. “C’è molta più sensibilità oggi sulla questione razziale di quanta ce ne sia stata in passato. Prendiamo la risposta all’assassinio di George Floyd [nel maggio scorso]. Da sempre ci sono stati assassinii di neri da parte della polizia, ma questo è stato un caso unico. In pochi giorni abbiamo visto enormi proteste di massa, grande solidarietà tra bianchi e neri in tutto il paese, insieme a un immenso sostegno popolare, tanto quanto Martin Luther King Jr. non aveva mai ottenuto. Questo è un segnale di cambiamento,” dice.
Ma Chomsky crede anche che in altri Americani ci sia una feroce reazione che non deve essere ignorata. “Hai il partito repubblicano e i suoi elettori, che sono in gran parte bianchi, cristiani e tradizionalmente dell’America rurale. E qual è la loro maggiore preoccupazione?Che il loro tradizionale modo di vivere sia sotto attacco. E qual è il loro tradizionale modo di vivere? Tenere i piedi sul collo dei neri”, afferma.
“Se guardiamo il tasso di natalità negli Stati Uniti oggi, vediamo che la maggioranza dei nati sono non-bianchi,” aggiunge. “Non c’è bisogno di conoscere la statistica per capire che cosa significa questo. Perderanno la supremazia bianca. Il concetto dell’essere bianchi non è razziale, ma è piuttosto una concezione sociologica. Se si torna indietro, non di molto, gli Ebrei non erano considerati bianchi. E neppure gli Irlandesi. Alla fine del diciannovesimo secolo, a Boston potevi trovare cartelli sulle porte dei ristoranti che dicevano: “Niente cani ne’ Irlandesi”. Gradualmente anche loro sono diventati bianchi, man mano che venivano assimilati nella cultura, soprattutto quando raggiungevano benessere e potere politico. Questo sta succedendo ora con la popolazione ispanica,” sostiene Chomsky.
Ogni quattro anni, si discute accanitamente sull’adeguatezza del Collegio Elettorale. Chomsky è tra i molti che credono che il sistema sia antiquato e difettoso. “Siamo di fronte a una crisi costituzionale. Si può vedere in queste elezioni. Biden sta vincendo per più di tre milioni di voti, [attualmente più di 5 milioni] ma nessuno neppure lo nota. Viviamo ancora con un sistema che è stato creato da ricchi bianchi proprietari di schiavi,” afferma.
La politica di Biden in Medio Oriente
Sulla politica estera, Chomsky è ben lontano dal credere che Biden porterà quel cambiamento radicale che i progressisti cercano. Pensa che Biden riattiverà l’accordo nucleare iraniano da cui Trump si era ritirato nel maggio del 2018. Ma non si aspetta che promuova un Medio Oriente libero da armi nucleari, cosa che richiederebbe un conflitto con Israele.
“È molto semplice: non devi fare altro che unirti al resto del mondo. Se fai questo ricostruisci l’accordo”, dice Chomsky riferendosi all’Iran. “Anche se gli Stati Uniti non sono un partner affidabile, l’Iran farà bene ad accettare l’accordo. Ma attenzione: c’è un altra soluzione che però è un tabù e nessuno è disposto a discuterne: imporre una zona libera da armi nucleari nel Medio Oriente con frequenti ispezioni.”
Chomsky dice che queste ispezioni vanno “contro la propaganda israeliana. Gli stati arabi e l’Iran hanno chiesto da tempo una zona libera da armi nucleari. In realtà la maggioranza dei paesi del mondo sono a favore. Allora, perché questa area non viene istituita? Perché gli Stati Uniti mettono il veto. Il più recente è stato messo da Obama, semplicemente perché Washington non vuole che vengano ispezionate le armi nucleari israeliane.”
“Gli Stati Uniti non riconoscono che Israele possieda armi nucleari, anche se tutti sanno che le ha. E c’è una ragione anche per questo: è la legge americana che proibisce aiuti economici o militari agli stati che hanno sviluppato armi nucleari al di fuori del Trattato di Non Proliferazione,” afferma Chomsky.
L’ambiguità della politica israeliana riguardo alle supposte armi nucleari è considerata una componente chiave della sua dottrina di sicurezza nazionale.
Netanyahu, d’altra parte, è preoccupato che, dopo aver beneficiato politicamente negli ultimi quattro anni della sua stretta relazione con Trump, ora potrebbe pagare un prezzo in patria per ogni eventuale tensione con la prossima amministrazione Biden. Chomsky, ancora una volta, è scettico sulla possibilità che si verifichino cambiamenti su vasta scala nella politica americana in Medio Oriente.
“Facciamo l’ipotesi che Biden torni alla politica di Obama. Diversamente da quanto pensano molti Israeliani, Obama è stato il presidente più filo-israeliano prima di Trump. Non ha mai posto nessuna condizione a Israele. Il congelamento degli insediamenti nel 2010 sotto Obama è stata una assoluta farsa. E tutti lo sanno. La stampa israeliana ha correttamente riportato che non ha avuto nessun effetto. Invece che parlare di costruzione di nuovi insediamenti, l’hanno chiamata espansione,”
I Palestinesi, d’altra parte sono ansiosi di porre fine a quattro anni di ostilità tra Ramallah e Washington.
” C’è speranza per i Palestinesi, ma non viene da Biden,” dice Chomsky. “Viene dall’opinione pubblica degli Stati Uniti che non può essere messa a tacere per sempre. Se si va indietro di venti anni, il sostegno a Israele lo si trovava tra i democratici liberali. Ora sta passando agli evangelici e agli ultranazionalisti, mentre il sostegno ai Palestinesi sta crescendo tra i liberali, soprattutto tra i giovani. Prima o poi questo potrebbe avere un’influenza sulla politica.”
Traduzione di Gabriella Rossetti – AssopacePalestina
Come si può prevenire il terrore – Amira Hass
Non si tratta solo di Givat Hamatos: Israele pianifica e realizza continuamente infrastrutture e costruzioni su larga scala a Gerusalemme Est e in tutta la Cisgiordania, tutte progettate per sabotare la possibilità di uno stato palestinese. Ma, con nostra gioia, questa gara d’appalto per la costruzione di unità residenziali sulle riserve fondiarie di Beit Safafa e Betlemme, sta facendo un po’ di rumore, perché viene interpretata come una losca manovra prima che il presidente eletto Joe Biden entri alla Casa Bianca.
Ieri diplomatici europei hanno visitato il sito dell’insediamento. Le condanne, o per essere più precisi le riserve, al bando di appalto saranno probabilmente pubblicate a breve dai ministeri degli Esteri dell’UE e di diversi stati europei. Il coordinatore speciale delle Nazioni Unite Nickolay Mladenov ha già espresso la sua preoccupazione. Ha ricordato per la milionesima volta che la costruzione di insediamenti viola il diritto internazionale.
Non è stato solo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a incoraggiare il progetto israeliano di furto di terra. Durante due decenni di negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, le espressioni rituali di rammarico e le condanne dell’Unione Europea e dei suoi paesi membri hanno insegnato a Israele che non ha nulla da temere. Se quei paesi, che sostengono la strada disegnata dagli Accordi di Oslo più di chiunque altro, non prendono provvedimenti concreti contro i crimini seriali di Israele, perché quest’ultimo dovrebbe preoccuparsi? Può continuare a rapinare e calpestare e, quando necessario, a tirare fuori l’arma dell’ “antisemitismo” e dell’ “Olocausto”, per bloccare qualsiasi iniziativa volta a fermare la follia israeliana di espropriazione immobiliare.
Quindi, per favore: Givat Hamatos è un’occasione per quei paesi di convertire il rituale in azioni concrete, che essi possono e devono intraprendere. Innanzitutto devono pubblicare i seguenti chiarimenti:
- La costruzione di insediamenti in un territorio occupato è vietata dal diritto internazionale.
- L’apartheid è un crimine per il quale i suoi autori, esecutori e coloro che vi partecipano consapevolmente devono essere puniti.
- Una dichiarazione di “terra dello stato” sostenuta da armi e ordini militari, e il trasferimento di questa terra a un gruppo etnico a scapito di un altro, significa praticare il terrore.
- La costruzione di insediamenti sul territorio palestinese occupato nasce dalla visione del mondo e dalle pratiche di un regime di apartheid che considera gli Ebrei superiori, e quindi potrebbe ancora una volta compiere atti di espulsione in massa dei Palestinesi.
Sulla base di questi chiarimenti, i paesi contrari al terrore di stato e all’apartheid pubblicheranno anche i seguenti avvertimenti:
- Qualsiasi appaltatore che partecipa alla gara di Givat Hamatos non sarà autorizzato a partecipare a progetti in cui sono coinvolte società europee, e ai suoi proprietari e manager non sarà permesso entrare in Europa.
- Se i proprietari e i gestori sono cittadini europei, saranno perseguiti nei loro paesi per aver partecipato a un crimine di apartheid.
- Il divieto di ingresso e di attività commerciale in Europa e il perseguimento di autori del reato si applicano anche ai progettisti e agli architetti.
- Tutto quanto sopra si applica ai dirigenti senior della Israel Land Authority.
- Tutto quanto sopra si applica agli acquirenti delle unità residenziali così costruite.
- Proprietari e dirigenti di società operanti in Europa che trattano affari con quei subappaltatori e architetti saranno perseguiti per favoreggiamento nella commissione di un crimine.
- Così come vengono confiscati i conti bancari di persone sospettate di coinvolgimento nel terrorismo, verranno confiscati i conti bancari di tutte le persone menzionate sopra.
- La vendita di residenze ai Palestinesi come una eventuale “foglia di fico” non renderà il progetto legale, a meno che anche i Palestinesi residenti in Cisgiordania vivano in quelle residenze.
Questo sarà l’inizio. Successivamente le stesse avvertenze si applicheranno ad altri piani di costruzione meno pubblicizzati e agli insediamenti esistenti.
Non definire “delirante” questa proposta se ti opponi davvero all’apartheid e se ti rendi conto che i pianificatori e beneficiari di queste costruzioni sono disposti e sono in grado di espellere ancor più Palestinesi dalla loro terra.
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
I rabbini di T’ruah condannano l’annuncio di Pompeo sul BDS e l’identificazione della Cisgiordania con Israele
T’ruah, un’organizzazione rabbinica americana per i diritti umani che rappresenta oltre 2.000 rabbini e cantori e le loro comunità, ha rilasciato oggi una dichiarazione in cui condanna le recenti azioni del Segretario di Stato Mike Pompeo che ha classificato il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS ) come antisemita e ha identificato la Cisgiordania con Israele. Questa è la dichiarazione del rabbino Jill Jacobs, direttore esecutivo di T’ruah.
“Nella stessa settimana in cui l’amministrazione Trump ha nominato un simpatizzante nazionalista bianco, Darren Beattie, per una commissione che preserva i siti dell’Olocausto, il segretario Pompeo non ha il diritto di far lezione al mondo su ciò che costituisce l’antisemitismo. Pompeo, identificando gli insediamenti come parte di Israele e dichiarando antisemita il movimento BDS, ha ora dichiarato antisemita chiunque boicotta solo gli insediamenti, inclusi molti Ebrei israeliani.
“T’ruah non partecipa al movimento BDS. Ma la libertà di parola –compreso il diritto al boicottaggio– costituisce una componente essenziale della democrazia, un diritto umano fondamentale e un valore fondamentale del giudaismo. Il modo per combattere un discorso che non ci piace è fare un discorso diverso, e non semplicemente mettere a tacere l’altra parte. Lo apprendiamo dal Talmud, dove i rabbini usano spesso un linguaggio colorito per contestare e respingere le opinioni degli altri, lasciando però nel testo anche le opinioni rifiutate, per poterle studiare successivamente.
“Il segretario Pompeo ha inoltre dichiarato che i prodotti dell’Area C della Cisgiordania possono essere etichettati come ‘Made in Israel’. Con questa dichiarazione, cancella decenni di politica statunitense, ignorando anche il diritto internazionale e quello israeliano, che riconoscono entrambi la Cisgiordania come un territorio occupato che non fa legalmente parte di Israele.
“Negli ultimi anni, alcuni membri del movimento BDS e del movimento estremista pro-insediamenti hanno tentato di offuscare la distinzione tra gli insediamenti e Israele vero e proprio. Questa posizione, da entrambi i lati, delegittima lo Stato di Israele come riconosciuto dalle Nazioni Unite nel 1948.
“Inoltre, la dichiarazione del segretario Pompeo getta le basi per attaccare e screditare le organizzazioni per i diritti umani, sulla base fallace dell’antisemitismo. Questo tentativo di mettere a tacere i critici è una pagina del manuale dell’autocrate. Calunniando falsamente le organizzazioni per i diritti umani come antisemite, l’amministrazione Trump renderà più difficile contrastare i veri atti di antisemitismo quando si verificano, danneggiando allo stesso tempo l’efficacia di queste organizzazioni nel denunciare le violazioni dei diritti umani di tutti i paesi, comprese quelle degli Stati Uniti.
“Il governo americano deve riaffermare un reale impegno a creare un accordo a lungo termine che protegga i diritti umani e la sicurezza sia degli Israeliani che dei Palestinesi, stabilendo uno stato palestinese accanto a Israele, entrambi entro confini internazionalmente riconosciuti. Azioni come la dichiarazione del segretario Pompeo rischiano di provocare un contraccolpo contro Israele e contro la comunità ebraica americana, la maggior parte della quale sostiene una soluzione a due stati e diritti umani sia per gli Israeliani che per i Palestinesi”.
T’ruah, The Rabbinic Call for Human Rights mobilita una rete di oltre 2.000 rabbini e cantori di tutte le correnti del giudaismo che, insieme alla comunità ebraica, agiscono secondo l’imperativo ebraico di rispettare e promuovere i diritti umani di tutte le persone. Radicati nella Torah e nella nostra esperienza storica ebraica e guidati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, chiediamo agli Ebrei di affermare i valori ebraici alzando la nostra voce e adottando misure concrete per proteggere ed espandere i diritti umani in Nord America, in Israele e nei Territori Occupati Palestinesi.
Una verità sgradevole – Roberto Savio
Lettera di Roberto Savio agli amici sulla pace in Medio Oriente – La creazione di uno stato palestinese rimane una chimera
Dopo la caduta dell’Impero Ottomano, alla fine della prima guerra mondiale, la Gran Bretagna fu incaricata dalla Società delle Nazioni di amministrare la Palestina. La gestione di Londra fu inefficace, in parte, a causa delle contraddittorie promesse fatte agli arabi, ai sionisti e alla Francia, l’altra potenza coloniale con cui divideva l’area.
Ma il conflitto è molto più antico. Sono già passati 30 secoli dai primi scontri tra filistei ed ebrei e l’accordo di pace promosso dal presidente USA Donald Trump tra Israele e le due piccole dittature monarchiche arcaiche nel Golfo non sarà certo la soluzione alla rivalità millenaria.
I Filistei si stabilirono in quella zona intorno al 1200 a.C..
Alla fine dell’XI secolo a.C., gli israeliti riuscirono a espellerli da gran parte del loro territorio, ma rimasero indipendenti sulla fascia costiera. E, sebbene non abbiano mai dominato completamente l’intera area, il nome del popolo (demonimo) deriva proprio, dalla parola Peleset (Filisteo) e dal territorio Filasṭin, Falasṭn o Filisṭin (Palestina).
Tremila anni dopo, il conflitto sembra essere irreparabile. Gli israeliani non accettano l’esistenza di uno stato palestinese.
Da parte loro, i leader palestinesi vivono usando una retorica impossibile, che li ha portati a perdere molte occasioni. La corruzione di cui sono accusati è vera, ma Israele ha una storia piuttosto oscura.
I sultani e gli sceicchi arabi sono persone con una mentalità di mezza età, l’unica cosa che conta per loro è il fanatismo religioso e il denaro. A Trump piace, perché in qualche modo gli somiglia. Gli israeliani hanno potuto approfittare di tutto questo ed eliminare la possibilità di uno Stato palestinese.
Risultato: i palestinesi dovranno vivere sotto il controllo israeliano. Diventeranno cittadini di seconda classe e la composizione di Israele cambierà poiché gli ultraortodossi Haredin hanno un tasso di crescita più alto di arabi ed ebrei.
Gli arabi sono il 20% della popolazione, mentre gli haredin costituiscono già il 12% della popolazione. Al momento della creazione dello Stato di Israele, erano solo lo 0,2%. Sono clan medievali, che vivono in un mondo speciale. Ad esempio, hanno ottenuto il diritto di non andare a scuola, poiché studiano solo le Sacre Scritture. Non fanno il servizio militare e di diritto non lavorano, in fondo sono sostenuti dallo Stato.
Benjamin Netanyahu sopravvive grazie ai partiti ultraortodossi. Il futuro di Israele non è un futuro di pace. È un paese che girerà sempre più a destra, che dovrà continuare a usare la forza contro i palestinesi, che diventeranno esclusivamente un problema interno, poiché saranno abbandonati dagli altri arabi. Vivranno in condizioni economiche e sociali spaventose e vedremo Israele adottare sempre più la via dell’apartheid.
Queste brevi vittorie per Netanyahu fanno presagire un futuro nero. Ho visitato la regione troppe volte per avere una prognosi positiva. In tutto questo Trump sta spingendo alleanze con i fondamentalisti religiosi sunniti guidati dall’Arabia Saudita, uniti contro gli sciiti, guidati dall’Iran.
L’Iran, l’antica civiltà persiana, è molto più tollerante dei sunniti. Il problema è che è stato catturato da un gruppo di fanatici, che ha approfittato dell’impopolarità dello Scià, Mohammad Reza Pahlaví, per prendere il potere nel 1979. Non sono popolari, ma rimangono al potere.
Va ricordato che il regime teocratico è stato installato con l’aiuto decisivo dell’Occidente.
L’ayatollah Ruhollah Khomeini è tornato dal suo esilio in Francia in Iran su un aereo messo a disposizione dal governo conservatore del presidente francese Valéry Giscard d’Estaing. L’Iran fa parte degli errori di lettura della realtà degli Stati Uniti, la cui politica estera è sempre a breve termine.
Scatenare un’escalation per rimuovere lo Scià, usando il clero, creò un regime che alla fine si è ribaltato contro di loro, qualcosa che Reza Pahlaví non avrebbe mai fatto. È lo stesso errore commesso in Afghanistan, quando hanno finanziato un movimento contro l’occupazione russa, creando fenomeni come Bin Laden, che è finito nella direzione opposta.
Per inciso, è lo stesso errore che Israele ha commesso quando ha sostenuto Fatah all’inizio, per indebolire l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di Yassir Arafat.
I mullah non sono affatto popolari, ma rimangono al potere grazie al sostegno dei contadini e a un forte apparato repressivo. Senza dubbio a un certo punto verranno estromessi dopo una sanguinosa crisi interna e l’Iran tornerà alla normalità.
A questo proposito, desidero sottolineare tre questioni: a) L’Iran ha università di alto livello, ottimo cinema, eccellente architettura, buono status scientifico – tutte realtà sconosciute nel mondo sunnita. b) A Teheran ci sono sinagoghe e chiese, cosa inesistente nel mondo sunnita. c) In tutti gli attacchi terroristici in Europa e negli Stati Uniti, non c’è un solo terrorista sciita. E tieni presente che l’Iran ha subito sanzioni per 40 anni.
Morale: il disastro politico del Medio Oriente è un disastro della governance, in cui l’Occidente e Trump hanno molte responsabilità. E anche gli europei, che hanno insediarono re, principi, emiri e sceicchi quando l’Impero ottomano fu diviso.
E Trump, con il genero, che pur essendo ebreo sa ragionare in termini arabi, ha rafforzato il mondo dei petrodollari e del pensiero medievale.
In tutto questo panorama, i palestinesi continuano come un popolo senza paese e senza nazionalità, e gli israeliani hanno pronta la risposta: non accettano il piano di pace, e non hanno leader che vogliono la pace.
Tuttavia, persistere nel mantenere milioni di persone risentite e in povertà non è una ricetta intelligente. Ed è evidente che il livello intellettuale e artistico del popolo israelita ha poco a che fare con questa formula.
Pertanto, cadere in questa trappola può essere spiegato solo dallo sforzo di Netanyahu di rimanere al potere, ad ogni costo, vendendo la sua anima all’estrema destra, con una sinistra che è diventata una forza simbolica.
Il “banale” trauma delle incursioni notturne di Israele sui bambini palestinesi
Nonostante le riforme apparenti della legge militare israeliana in Cisgiordania, i bambini palestinesi e le loro famiglie subiscono regolarmente abusi
Un rumore improvviso squarciò il silenzio di una notte buia. I colpi inferociti sul cancello della casa dipinta di blu terrorizzavano non solo la famiglia che dormiva ma l’intero vicinato. Le grida dei bambini allarmate dal rumore acuto si fondevano con il suono dei pugni che sbattevano sul ferro.
Questa non è la banale apertura di una misteriosa storia di fantasia. È la vita quotidiana delle famiglie palestinesi in centinaia di villaggi in tutti i territori occupati: i soldati israeliani compaiono sulla soglia delle famiglie nel sonno profondo, tra le 22:00 e le 5:00, per cercare, arrestare un parente.
A volte, vengono senza un motivo particolare. Troppo spesso se ne vanno accompagnati da un ragazzo bendato e ammanettato strappato dal letto, seguito da lontano dal pianto , dalle urla dolorose e dalle voci smorzate di disperazione della famiglia.
Secondo un rapporto pubblicato mercoledì dal gruppo israeliano per i diritti umani HaMoked, centinaia di adolescenti palestinesi vengono arrestati dai militari israeliani ogni anno in raid notturni, violando i regolamenti dei militari per quanto riguarda le convocazioni per l’interrogatorio prima della detenzione.Il rapporto sottolinea che la convocazione permetterebbe ai ragazzi di venire interrogati senza la traumatica esperienza delle incursioni notturne.
I risultati si basano su 81 testimonianze di ragazzi di età compresa tra 14 e 17 anni, che sono stati arrestati in vari momenti nel 2018 e nel 2019.
‘Trauma cumulativo’
La scorsa settimana, il mondo colpito dal coronavirus,ha trovato modi alternativi per celebrare la Giornata internazionale dei bambini. In Israele, con il titolo: “Di notte, mentre tutti dormono”, diverse organizzazioni israeliane per i diritti umani, tra cui Breaking the Silence e Parents Against Child Detention, si sono riunite per leggere le testimonianze dei soldati che hanno partecipato a quelle azioni notturne, nonché di bambini e famiglie palestinesi che hanno sofferto di questa pratica e ne sono state vittime .
Parents Against Child Detention è l’ultima di queste organizzazioni, formata solo due anni fa da due madri e attiviste israeliane, Moria Shlomot e Nirith Ben-Horin, che si sono impegnate a documentare e a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla portata allarmante delle violazioni dei diritti di quei bambini.
Secondo Parents Against Child Detention e Military Court Watch, da 150 a 200 bambini palestinesi della Cisgiordania occupata e di Gerusalemme Est sono detenuti dalle autorità israeliane . Ogni anno, Israele detiene circa 1.800 minori per periodi di tempo variabili. Il fatto che Israele abbia firmato convenzioni internazionali sui diritti dei bambini viene ignorato.
La legge israeliana sulla giustizia penale relativa ai minori che impone : “l‘uso dell’autorità deve essere effettuato proteggendo la dignità del minore” – non si applica ai bambini palestinesi in Cisgiordania, che vengono arrestati in base al codice militare. Questo codice non considera la salute mentale e lo sviluppo dei bambini. Molti aspetti di questa pratica e routine sono semplicemente illegali. Le conseguenze sono inevitabili. Secondo gli operatori di salute mentale affiliati a Parents Against Child Detention: “I bambini palestinesi in detenzione sperimentano disorientamento, paura, vergogna e senso di colpa. In molti casi, a causa di gravi minacce, provano anche paura per la sicurezza della loro famiglia “.
Testimonianze
Ascoltando le testimonianze dei bambini e delle loro famiglie, sembra inevitabile. Avner Gvaryahu, direttore esecutivo di Breaking the Silence, chiama questa pratica “trauma cumulativo”. Testimonianze di bambini confermano ulteriormente questa valutazione.
Un ragazzo di 14 anni del campo profughi di al-Arroub nella Cisgiordania meridionale ha raccontato la notte del suo arresto:
“Mi sono svegliato alle 2.30 del mattino, quando 15 soldati israeliani hanno fatto irruzione in casa nostra… Alcuni erano mascherati… Il comandante mi ha detto che ero in arresto. Hanno ammanettato forte, le mie mani dietro la schiena … è stato doloroso. Mi sono lamentato, ma mi hanno detto di stare zitto … Sono stato arrestato. Poi è arrivato l’interrogatorio … Hanno detto che ho lanciato una bottiglia Molotov contro un autobus dei coloni … Non l’ho fatto. Erano molto aggressivi … Dopo poche ore ho scelto di ammetterlo, solo per farla finita. Fino a notte fonda un membro della famiglia mi ha aspettato ad ogni possibile posto di blocco ,poiché non poteva sapere quando e da dove mi sarebbe stato permesso di entrare … “
Un altro minore la cui testimonianza è stata condivisa durante la Giornata internazionale dei bambini ,ha raccontato una storia molto simile con leggere variazioni.
“Il mio interrogatore mi ha fatto firmare un documento … Non leggo né scrivo in ebraico ma lui ha insistito, così l’ho fatto. Sono stato rilasciato a tarda notte. Faceva un freddo gelido e pioveva … avevo paura. “
Ecco un’altra testimonianza di una madre di tre figli di 40 anni di un villaggio nel sud della Cisgiordania, Beit Ummar:
“Urla forti in ebraico e colpi alla porta ci hanno svegliati alle 5 del mattino. Ho aperto la porta. Sei soldati ,accompagnati da cani ,sono entrati in casa. Ho detto al soldato che mio marito aveva appena subito un intervento a cuore aperto. Non faceva differenza. Il mio bambino di 10 anni ha reagito con un grave attacco d’asma; il bambino di otto anni bagna il letto da quando i soldati sono entrati in casa due anni fa. Ora l’ha fatto di nuovo … I soldati ci hanno spinto tutti in una stanza. Ho cercato di trovare una coperta per coprire i bambini , ma i soldati mi hanno minacciato e non mi hanno permesso di farlo … Sono andati via circa tre ore dopo, non hanno detto niente, non hanno spiegato niente “.Tutte le storie sembrano simili, ma ognuna racchiude un trauma diverso.
Vicinanza agli insediamenti
Tuttavia, condividono un sorprendente denominatore comune: secondo un rapporto del Military Court Watch, “le prove suggeriscono un forte legame geografico tra gli insediamenti della Cisgiordania (e la loro rete stradale associata) e la detenzione militare dei bambini nelle vicinanze. Nel 2019, i bambini che sono stati detenuti vivevano in media entro 900 metri da un insediamento in Cisgiordania “.
Shlomot, il direttore esecutivo di Parents Against Child Detention, aggiunge :
“A causa della vicinanza degli insediamenti ai villaggi palestinesi, i militari impongono misure di protezione extra, comprese le intimidazioni per usare la paura tra i palestinesi come deterrenza Da qui il numero di minori detenuti all’interno di questa area geografica “.
L’ex parlamentare israeliano e attivista Mossi Raz è stato uno dei tanti che si è offerto come volontario per leggere le testimonianze nella Giornata internazionale dei bambini. Niente di eccezionale nella storia che ha presentato. Nessuno è morto.
“Questo è esattamente ciò che mi ha colpito”, ha detto Raz, parlando a MEE, “la banalità di tutto questo. Il viavai dei soldati ogni volta che vogliono ed è diventata una banale routine. Questa è l’essenza stessa dell’occupazione: l’intimidazione e l’umiliazione quotidiana e notturna.”
” Deve esserci una distinzione totale tra detenzione di adulti e detenzione di minori. Sfortunatamente, queste pratiche sono profondamente radicate e cambieranno solo quando finirà l’occupazione . Il nostro obiettivo immediato è garantire che la detenzione di minori sia l’ultima risorsa e duri il minor tempo possibile”, afferma Shlomot. “Anche questa piccola aspettativa non si concretizza. La brutalità della detenzione di minori non si esaurisce con l’invasione notturna nella loro casa di famiglia. Continua con il minore che viene condotto in una base militare, bendato e umiliato dai soldati a bordo del veicolo; continua con l’attesa che arrivi un interrogatore di lingua araba, a volte senza cibo e senza accesso alla toilette.
Alcuni bambini riferiscono di pressioni manipolative imposte loro usando le loro famiglie come : minacciare di revocare il permesso di lavoro del padre o il permesso della zia per ottenere cure mediche in Israele”, ha aggiunto.
“Oltre a tutto il resto, i bambini sono ossessionati dal senso di colpa e tendono a riconoscersi colpevoli anche quando non lo sono affatto Il più delle volte, vengono detenuti per lancio di pietre, considerato un reato per la sicurezza anche quando non viene causato alcun danno”.
Nonostante alcune riforme apparenti alla legge militare in Cisgiordania, rimane un numero abbondante di arresti e detenzioni di minori.
“Il benessere di un bambino”, come principio guida delle convenzioni internazionali sui bambini, certamente non si applica qui.
Ultimi colpi di coda di un baro e dei suoi complici? – Amedeo Rossi
Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili.
Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non si possono certo definire nel quadro della “amministrazione ordinaria”, come sarebbe previsto dalle regole di correttezza e dalla legalità istituzionale. Lo dimostra anche lo scenario disegnato in questi giorni dal viaggio in Medio Oriente del segretario di stato Mike Pompeo.
Rottura della tradizione diplomatica Usa
Lo scenario regionale, in particolare il conflitto israelo-palestinese, è stato il contesto in cui più attiva e dirompente è stata la politica estera dell’amministrazione Trump. Interrompendo una tradizione consolidata di equidistanza, formale quanto fittizia, dei governi statunitensi tra le parti in conflitto, il presidente Usa e i suoi consiglieri si sono apertamente schierati a favore delle pretese israeliane: riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan, spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, affermazione del diritto di esercitare la sovranità israeliana su gran parte dei territori palestinesi occupati, attacco esplicito al diritto al ritorno dei profughi palestinesi, imposizione di un piano di pace (il cosiddetto “accordo del secolo”) che recepisce quasi tutte le richieste di Israele, senza peraltro preoccuparsi neppure di consultare l’altra parte in conflitto. Non che gli Usa siano mai stati mediatori imparziali e abbiano imposto a Israele il rispetto degli accordi firmati. Persino Obama, il presidente che è stato considerato il più ostile e a cui il governo israeliano ha fatto sgarbi diplomatici e una sorda guerra di posizione, alla fine del suo mandato ha firmato la concessione di aiuti militari più generosa da sempre. Ma nessuno era mai intervenuto in un contesto così delicato ignorando leggi internazionali, risoluzioni Onu, cautela diplomatica. Non a caso Trump si è circondato di personaggi direttamente implicati nel progetto di colonizzazione israeliana della Cisgiordania, e costoro si sono comportati di conseguenza.
Pompeo: l’uomo del secondo mandato a Trump
Almeno in Medio Oriente, gli uomini di Trump si comportano come se quest’ultimo avesse vinto le elezioni. Dopo aver affermato che «ci sarà una facile transizione verso un secondo mandato di Trump», il segretario di Stato ha intrapreso un devastante viaggio “diplomatico” in Medio Oriente. Benché l’obiettivo più ambizioso di questa iniziativa riguardi un possibile attacco contro l’Iran (che pare Trump intendesse intraprendere qualche giorno fa), arrivato in Israele Pompeo ha espresso le sue convinzioni riguardo ai presunti diritti israeliani e ha inanellato una serie di esternazioni, visite di grande significato simbolico e iniziative molto concrete. Non è sembrato il viaggio di commiato di un segretario di stato che stesse per lasciare il proprio incarico, quanto motivato piuttosto dalla volontà di rilanciare su varie questioni cruciali. Di per sé le affermazioni di Pompeo, così come il disprezzo delle leggi e della diplomazia internazionale, non hanno fatto altro che confermare quanto già si sapeva. È noto che Pompeo, come il vicepresidente Mike Pence e una parte consistente dell’elettorato di Trump, aderisce a una congregazione cristiano-sionista. Ma è stato l’atteggiamento protervo e al contempo proattivo a lasciare sconcertati molti osservatori.
Lotta al BDS, legittimazione delle colonie, divisione dei territori
Le prime hanno riguardato critiche alla legge dell’UE che prevede l’etichettatura che specifichi la provenienza di prodotti importati dalle colonie israeliane, non identificabili come israeliani. Invece secondo Pompeo le esportazioni, sia dei palestinesi che dei coloni che vi vivono, provenienti dall’Area C (secondo gli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo da parte di Israele) devono essere considerate israeliane. Ovviamente non si tratta solo di una questione commerciale, quanto soprattutto del riconoscimento formale della situazione di fatto e dell’illegittima occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. In più, con un’iniziativa tragicamente grottesca, ha anche annunciato l’intenzione di etichettare in modo differenziato i prodotti palestinesi provenienti dalla Cisgiordania rispetto a quelli di Gaza. In questo caso si tratta invece della sanzione ufficiale di un altro obiettivo della politica israeliana: la separazione tra i due territori palestinesi come mezzo per favorire l’annessione della West Bank e modificarne il rapporto demografico a favore dei palestinesi. Per esempio, Israele favorisce gli spostamenti dalla Cisgiordania verso Gaza, rendendo invece particolarmente difficile il flusso in senso opposto.
Inoltre Pompeo ha definito “antisemita” e “un cancro” il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che lotta in modo nonviolento in difesa dei diritti dei palestinesi e del rispetto delle leggi internazionali. Ha anche promesso iniziative del governo Usa per combattere il movimento, suscitando le proteste di ong come Amnesty International e Human Rights Watch, che pure non aderiscono alla campagna ma difendono il diritto di opinione degli attivisti BDS. Poi, primo segretario di stato a farlo, si è recato sulle alture del Golan, ribadendo che si tratta di un territorio israeliano, e ha visitato l’impresa vitivinicola israeliana di Psâgot, che sorge su terreni di proprietari privati palestinesi e raccoglie le uve provenienti da altre zone palestinesi occupate ed espropriate. Lì è stato omaggiato di un vino che porta il suo cognome. In realtà il proprietario dell’azienda visitata da Pompeo non solo non avrebbe di che lamentarsi dell’obbligo di specificare la provenienza del suo vino dai territori occupati, in quanto ha dichiarato anzi che ciò gli ha permesso di aumentare le vendite. Comunque, per chi avesse qualche dubbio, Pompeo ha definito la sua visita «il semplice riconoscimento [della colonia] come parte di Israele», aggiungendo che «oggi il Dipartimento di stato degli Stati Uniti è decisamente favorevole al riconoscimento del fatto che le colonie si possono costruire in modo legale, giusto e corretto».
Reazione disperata alla sconfitta o un passo verso il futuro?
I commentatori politici si chiedono quali possano essere le ragioni di questa iniziativa di un’amministrazione (non certo solo di Pompeo) ormai destinata a sloggiare. Oltre alle convinzioni religiose del segretario di stato, la spiegazione più banale, anche se probabilmente non del tutto ininfluente, è quella sostenuta da Douglas Macgregor, colonnello e consulente del Pentagono: «Dovete andare a vedere le persone che fanno donazioni a questi individui. [Pompeo] chiede soldi alla lobby israeliana, ai sauditi e ad altri», ha affermato in un’intervista rilasciata alla CNN. Naturalmente lo stesso discorso vale a maggior ragione per Trump, il cui principale finanziatore è stato il miliardario Sheldon Adelson, che è anche un sostenitore delle colonie e di Netanyahu.
Una pesante eredità
C’è anche una ragione più strettamente politica che può spiegare il comportamento del segretario di Stato: la sua ambizione di presentarsi come candidato repubblicano alle elezioni del 2024. La sua (ultima?) mossa potrebbe permettergli di conquistare i favori dell’elettorato filoisraeliano di Trump, a cominciare dall’Aipac, la più potente associazione della lobby filoisraeliana negli Usa.
Infine, queste iniziative lasciano un’eredità piuttosto pesante da gestire all’amministrazione entrante. Non sarà facile per Biden rinnegare quanto fatto da Trump e dai suoi consiglieri a favore di Israele, tanto più che sia lui che Kamala Harris, la vicepresidente entrante, durante la loro vita politica e la campagna elettorale hanno più volte manifestato la propria vicinanza allo Stato di Israele. Biden vanta anche un’amicizia personale con Netanyahu. Come ha scritto un commentatore del sito ebraico di notizie “Mondoweiss”: «Per poter annullare queste iniziative dell’ultimo momento, intese a legittimare ulteriormente l’annessione e delegittimare l’opposizione all’apartheid israeliana contro i palestinesi, Biden dovrà pagare costi politici molto pesanti per poterli annullare».
Come afferma Barak Obama in un brano nelle sue memorie citato dal sito “JewishInsider”: «I parlamentari e i candidati che hanno criticato la politica di Israele in modo troppo deciso hanno rischiato di essere etichettati come “anti-israeliani” (e magari anche antisemiti) e nelle elezioni successive hanno dovuto fare i conti con avversari molto ben finanziati».
Non è detto che Biden sia disposto a correre il rischio e a smantellare il quadro idilliaco dei rapporti tra Usa e Israele dipinto in questi 4 anni dall’amministrazione Trump.
Neom: The Red Sea Diving Resort – Eric Salerno
Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione
Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, la marina russa sta per aprire una base navale e aggiungere la presenza dell’ex superpotenza a quella di numerosi altri contendenti per il controllo della regione. Dall’altro lato di quel lungo specchio d’acqua tra i più strategici del mondo, di fronte all’Africa più turbolenta, l’Arabia saudita ha avviato la creazione di un vasto comprensorio turistico di lusso (con un poco fortunato avvio per colpa del Covid) dove le regole più arcaiche del Corano non valgono mentre sulla stessa riva ma più a sud continua a seminare morte e devastazione nello Yemen.
Il 21 e il 22 novembre, su onde simili a quelli che consentono ai droni sauditi di colpire la splendida Sana’a, si sono esibiti a distanza di sicurezza imposta dalla pandemia i rappresentanti dei G20 nel loro vertice annuale presieduto per la prima volta da un paese arabo, proprio l’Arabia saudita. Con gli specialisti che ci continuano a raccontare che il mondo abbastanza presto farà a meno del petrolio e si servirà di altre risorse, meno inquinanti, per le sue molteplici esigenze di vita e che, comunque, i ricchissimi giacimenti di oro nero sotto le sabbie del grande deserto arabo stanno finendo, viene da chiedersi il significato dei giochi geopolitici e militari di quello scacchiere. Lasciamo le risposte complesse a un altro momento: è per molti più importante chiedersi oggi perché la presidenza, seppure di turno, di un sodalizio come il G20 e il vertice siano andati a finire in uno dei paesi più repressivi dei diritti umani del mondo e perché uno dei suoi massimi leader abbia potuto impunemente sfuggire all’accusa di omicidio per il brutale assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi e viene accolto da mezzo mondo come se nulla fosse accaduto nel consolato saudita in Turchia. Qui la risposta è meno complessa: dollari, euro e criptovalute, termine che fa venire alla mente la kryptonite di supereroica memoria. La ricchezza, come quel minerale, può dare potere ma anche mettere in difficoltà chi non sa come gestirla. Il Covid ha vanificato l’investimento dell’Arabia saudita e del suo reggente nel vertice: non c’è stata la foto di gruppo, non ci sono state le strette di mano o le confidenze bilaterali. E nemmeno le gite organizzate per mostrare agli illustri ospiti quella piccola parte del mondo saudita – il comprensorio di Neom – che potrebbe assomigliare al nostro mondo e distrarre l’attenzione dei presenti (delegati e stampa di passaggio) da quanto c’è di negativo in quel paese.
Negli anni Ottanta dello scorso secolo quando la repressione dell’Intifada dei palestinesi aveva riportato in primo piano la loro causa, una giornalista, con cinque passaporti in tasca tra cui quelli italiani e israeliani, mi disse con convinzione, temo, che sarebbe stato meglio non criticare Israele. Farlo, sosteneva, avrebbe soltanto messo in difficoltà coloro che in quel paese volevano la pace. Oggi la questione palestinese non fa notizia se non per qualche intrusione non certo costruttiva del presidente americano. Da tempo, ormai, poche sono le critiche pubbliche da parte dei paesi che contano. Eppure i palestinesi non sono più vicini ad avere una patria indipendente. E sbaglia, oggi, chi ritiene che non criticare l’Arabia saudita e il suo relativamente giovane riformatore, l’erede al trono Mohammad bin Salman (MbS), per l’assassinio di Khashoggi o per l’aumento delle violazioni dei diritti umani negli ultimi anni, sia l’unico modo per consentire al regno di uscire dal suo medioevo islamico.
Il G-20 saudita non si boicotta, né risolve…
Per questo, Human Rights Watch e molte altre organizzazioni internazionali e anche saudite avevano sollecitato i capi di stato degli altri paesi del G-20 di ridurre il livello della loro rappresentanza al vertice. O di utilizzare l’incontro virtuale per mandare molto più di un segnale di disappunto al regime. Il sodalizio comprende l’Unione europea e 19 paesi: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Germania, Francia, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Molte realtà in comune; molte altre che li separano. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio mondiale e i due terzi della popolazione mondiale. E insieme, nel week-end di discorsi a distanza, non sono riusciti nemmeno a tirar fuori un impegno concreto – costo 28 miliardi di dollari – per garantire l’accesso al vaccino anti-Covid ai paesi poveri.
… investe in sogni di ricchezza…
Il presidente americano Trump, sempre sprezzante, ha parlato contro tutto e tutti e appena finito il solito intervento farneticante è andato a giocare a golf senza restare davanti al suo monitor per ascoltare gli altri interventi. Gli interessi economici sono il collante dei G-20 e il tema di fondo quest’anno era, giustamente, il fall-out economico del Covid. Con visioni divergenti e su come procedere di fronte a una delle crisi di crescita che vedrà i poveri diventare più poveri e molti ricchi diventare meno ricchi ci si poteva aspettare almeno una modesta donazione a favore dei più poveri se non altro per farli diventare Mercato utile alla crescita economica dei già ricchi. L’Arabia saudita punta alla modernizzazione e sta approfittando della crisi Covid. Cerca investitori e investe. Con i proventi del petrolio sta arraffando ciò che può nella speranza, secondo il piano dell’erede al trono, di arrivare al 2030 con un’economia non più sostenuta dai soli proventi del petrolio. Un progetto ambizioso che in tempi di magra piace alle economie avanzate in difficoltà. Persino le azioni dell’Eni hanno ripreso quota con la notizia che il fondo sovrano saudita ne ha acquistato un pacchetto.
… e in consumo di armi in Yemen
Abbiamo esaminato, recentemente, il peso del complesso militare-industriale americano sulla politica Usa. Purtroppo non è l’unica nazione del nostro mondo, diciamo “democratico”, a essere soggetta alle pressioni dei fabbricanti di armi. I paesi membri del G20 hanno venduto armi per più di 17 miliardi di dollari all’Arabia saudita da quando il regno è intervenuto nella guerra civile in Yemen. Una cifra di tre volte superiore agli aiuti umanitari forniti dagli stessi paesi ai trenta milioni di abitanti della più antica nazione della regione. Il disavanzo si allarga se si considera la vendita di armi e munizioni verso gli otto paesi che compongono la coalizione a guida saudita: il valore delle esportazioni sale a 31,7 miliardi di dollari.
I bombardamenti indiscriminati da parte saudita su ospedali, cliniche, pozzi e altre strutture civili sono stati condannati da molte organizzazioni internazionali e alla vigilia del vertice di Riad, l’organizzazione assistenziale Oxfam ha definito la politica dei paesi più ricchi del mondo “immorale e incoerente”. Tra loro, sotto accusa c’è anche l’Italia. Giorni fa la Rete Italiana Pace e Disarmo, il Centro Europeo per i Diritti Costituzionali e Umani (Ecchr), e l’ong yemenita Mwatana per i Diritti Umani, hanno sottolineato in un evento online che il governo di Roma e i produttori italiani di armi potrebbero essere considerati corresponsabili dei crimini di guerra commessi nello Yemen esportando armi verso la coalizione militare guidata dall’Arabia saudita e dagli Emirati arabi uniti. Un anno fa, nel dicembre 2019, Amnesty International e numerose altre organizzazioni comprese quelle citate si rivolsero all’Ufficio del procuratore presso la Corte penale internazionale dell’Aja chiedendo un’indagine sulla responsabilità degli “attori aziendali e governativi in Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito”. La comunicazione descriveva ventisei attacchi aerei della coalizione saudita che, secondo le ricerche effettuate, potrebbero aver utilizzato bombe prodotte in Europa. L’Italia, come alcuni altri paesi europei, ha per ora bloccato le esportazioni dirette ai paesi belligeranti (anche se molti armamenti arrivano o arriveranno a loro attraverso paesi terzi). Nei primi mesi del 2020, gli attacchi aerei a guida saudita sono più che raddoppiati e le vittime civili della guerra sono aumentati vertiginosamente arrivando a oltre 20000 per gli oltre 64000 bombardamenti compiuti da quando la guerra cominciò nel 2015. Di fronte a questo quadro sempre più grave e deprimente, poche ore prima dell’inizio del vertice dei G-20, la International Rescue Committee, organizzazione non governativa con sede a Washington ha sollecitato Usa, Gran Bretagna e Francia a sospendere le loro vendite di armi alla coalizione saudita. Silenzio totale da parte dei paesi chiamati in causa.
L’abbraccio esiziale a Neom: MbS, Pompeo, Bibi
Con la scusa che l’Arabia saudita deve essere considerata una pedina importante per controllare “l’espansionismo iraniano” nella regione, l’anno scorso il presidente americano furbescamente ordinò la consegna di bombe e missili sofisticati a Riad per una cifra volutamente inferiore a quella che impone un’approvazione congressuale sulle vendite di armi. Giochi più volte ripetuti e più volte giustificati dalla Casa bianca (e sottoscritte dal parlamento) in quanto le vendite “creano lavoro” per gli americani. Nel 2017 Trump e i sauditi firmarono una lettera d’impegno per l’acquisto di armi per un valore di 110 miliardi di dollari subito e altri 350 miliardi di dollari entro dieci anni. Un accordo simile l’aveva firmato il deludente “premio Nobel per la pace” predecessore di Trump, Barack Obama.
Non sono soli i movimenti pacifisti a chiedersi cosa può fare l’Arabia saudita con tale quantità e qualità di armamenti se non garantirsi il sostegno dell’industria americana. Persino il Pentagono, nelle sue analisi, ammette che il regno dei Saud, poco popolato e con una maggioranza di sudditi poco incline a sostenere la famiglia reale, non sarebbe capace nonostante il suo arsenale crescente supersofisticato a vincere un confronto militare con un paese come l’Iraq, l’Iran o l’Egitto senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. O di Israele. E a proposito della superpotenza mediorientale: mentre gli occhi dei rappresentanti del G20 erano più o meno concentrati sugli schermi che li collegavano, il premier israeliano, il capo del Mossad, Yossi Cohen e il bellicoso segretario di stato americano Mike Pompeo sono volati a Neom, la città del futuro – zona turistica e industriale – nel nord dell’Arabia saudita per il primo incontro ufficiale tra Netanyahu e Mohammed bin Salman. Non ci vuole molto per capire che si è trattato di un “consiglio di guerra”. Cosa fare prima dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca per mettere i bastoni tra le ruote del neoeletto?
Quali spuntati argini “democratici” alla deriva bellica?
Il leader democratico ha più volte parlato di modificare la politica americana impostata da Trump rispetto a Mohammed bin Salman e all’Arabia saudita nel suo insieme. E ha più volte insistito sulla necessità di riprendere appena possibile il dialogo sul nucleare con l’Iran che Trump aveva interrotto nonostante le esortazioni non solo di molti consiglieri americani ma anche dei partner europei. Nei giorni scorsi il “New York Times” aveva rivelato che subito dopo il voto Trump aveva sollecitato, senza successo, i suoi generali a mettere in piedi un attacco alle istallazioni nucleari iraniane. Sarà ora Israele a colpire? Pochi a Tel Aviv pensano che una massiccia azione militare contro Teheran sia imminente. L’altro tema di fondo è la “questione palestinese”. L’avvicinamento tra Israele e Arabia saudita è un dato di fatto ma è ancora re Salman, non MbS, a decidere fino a dove arrivare e ha appena ribadito, frenando l’entusiasmo di Netanyahu, che la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi aspetta il momento in cui sarà annunciata la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale.
Israele e il suo premier hanno ottenuto molto da Trump ma nel commentare il vertice trilaterale a Neom, Joshua Teitelbaum, storico ed esperto di affari sauditi e dei paesi del Golfo all’università Bar-Ilan (destra religiosa) ha ricordato al premier che anche «con i democratici Israele ha molta influenza a Washington» ma non deve troppo schierarsi con i sauditi contro le eventuali azioni di Biden, noto da sempre come sostenitore di Israele.
CISGIORDANIA. Raid nelle case, la vita sconvolta dei palestinesi – Michele Giorgio – Il Manifesto
«…Al calar della notte, chiudiamo la porta e ci riuniamo dentro con la nostra famiglia, sicuri di essere protetti dal mondo esterno nelle nostre mura di casa…I palestinesi che vivono sotto occupazione in Cisgiordania invece sono costantemente vulnerabili all’invasione arbitraria delle loro case da parte delle forze di sicurezza israeliane». Comincia così Exposed Life il rapporto con cui tre ong per i diritti umani – Yesh Din, Breaking the Silence e Physicians for Human Rights – denunciano quanto i civili palestinesi, compresi i bambini, siano danneggiati fisicamente e mentalmente quando i soldati israeliani, il più delle volte nel cuore della notte, penetrano nelle loro abitazioni per presunte operazioni di sicurezza. L’indagine è fondata sulle testimonianze di 158 palestinesi ed interviste condotte da psichiatri e psicologi con 31 famiglie. Oltre che sui racconti di 45 soldati e ufficiali israeliani.
I risultati descrivono un aspetto drammatico della vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione. Ogni mese, secondo dati citati dalle tre ong, l’esercito israeliano compie circa 200 raid in abitazioni palestinesi. In un quarto dei casi i soldati fanno uso di forza e violenza. Il portavoce militare replica che queste operazioni sono volte impedire «atti di terrorismo» e in non pochi casi portano all’arresto di sospetti e al ritrovamento di armi. La sicurezza però non si lega al furto di oggetti d’oro e soldi che, ad esempio, ha denunciato di aver subito uno dei testimoni, Samer Al Jabari, di Hebron. «Quando in piena notte i soldati hanno cominciato a battere sulla porta di casa, mi sono affacciato alla finestra e ho chiesto loro di non sfondare la porta. Sono sceso subito ad aprirla ma non hanno aspettato e hanno fatto irruzione accompagnati da cani». I militari poi hanno ordinato a tutta la famiglia di riunirsi in una stanza. «Ho chiesto cosa stessero cercando – prosegue al Jabari – e mi sono offerto di accompagnarli. Non mi hanno ascoltato e hanno tagliato divani e distrutto sedie e altri mobili». Quindi la sparizione di oggetti d’oro e contanti scoperta quando i soldati sono andati via. Altrettanto traumatici sono i danni allo stato mentale di chi subisce un raid. Negli adulti, riferisce la psichiatra Jumana Melhem, di Physicians for Human Rights, si registrano ansia e stress post-traumatico. In bambini e ragazzi disturbi del sonno e comportamenti aggressivi.
Le tre ong spiegano che qualsiasi giovane ufficiale israeliano può ordinare un’irruzione in una casa palestinese. Sottolineano la discriminazione tra coloni israeliani e i palestinesi che vivono nello stesso territorio geografico, la Cisgiordania. «I primi – scrivono – godono della tutela della legge israeliana che proibisce irruzioni arbitrarie nelle loro case, mentre i loro vicini palestinesi subiscono invasioni notturne senza il mandato di un giudice».
Sul portale d’informazione Walla, Ziv Shathal, di Yesh Din scrive che il governo Netanyahu segue con attenzione i passi della Corte penale internazionale dell’Aja che vuole indagare Israele per crimini nei Territori occupati. Nei passati quattro anni, Donald Trump ha protetto Israele. Con Joe Biden alla Casa Bianca la linea degli Usa sarebbe in parte destinata a cambiare. Israele respinge le indagini internazionali sostenendo di avere un sistema giudiziario, civile e militare, in grado di giudicare in piena autonomia. «Ma questo sistema – dice Ziv Shathal – seppellisce le indagini più di quanto le svolga». La possibilità che una denuncia palestinese porti all’incriminazione di un soldato è inferiore all’1%.
Territori palestinesi occupati tra piani israeliani di annessione e pandemia – Irene Masala
Mentre mancano pochi giorni alla 43esima Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese del 29 novembre, il governo d’Israele punta ancora sull’annessione di parte della Cisgiordania. E la crisi sanitaria dilaga nei Territori Palestinesi occupati
«Fuori controllo». Così il personale medico palestinese ha definito la situazione sanitaria della Striscia di Gaza, in seguito all’annuncio del ministero della Salute che il 23 novembre ha comunicato un incremento di 890 nuovi casi di coronavirus nel fine settimana.
Il contesto sanitario della Striscia di Gaza, già fortemente provato dal sovraffollamento, con quasi 2 milioni di persone costretti a vivere in 365 km², circa la stessa estensione del comune di Enna, potrebbe perciò non riuscire a garantire a tutti la necessaria assistenza. Il totale dei casi di coronavirus attivi all’interno di tutti i Territori palestinesi occupati, comprese quindi anche Cisgiordania e Gerusalemme Est, supera così la soglia dei 15 mila…