… contro il socialismo latinoamericano.
di Geraldina Colotti
In nome della “lotta al terrorismo”, dalla Colombia al Paraguay, dal Cile al Perù, fino a Bolivia e Venezuela ritornano le sparizioni forzate, le torture, l’uso di paramilitari travestiti da civili e una diplomazia a senso unico che cerca di delegittimare ad ogni costo i governi popolari.
Il continente latinoamericano mostra con chiarezza i termini dello scontro a livello globale, nel quadro della nuova fase di resettaggio del capitalismo, che ha bisogno di formattare anche il conflitto di classe: schiacciandolo o cooptandolo a seconda dei rapporti di forza, storicamente determinati. E così, mentre nei paesi europei gli apparati ideologici di controllo acuiscono la perdita di memoria del passato conflitto per imporre la visione dei vincitori, la borghesia riadatta, al più alto livello, le tecniche di controllo e repressione messe a punto nei momenti più acuti dello scontro novecentesco, e diventati elementi strutturali della nuova economia di guerra.
Dalla Colombia, al Paraguay, al Cile, vediamo allora riapparire le sparizioni forzate, le torture, l’uso di paramilitari travestiti da civili, coperti dal medesimo silenzio con il quale le organizzazioni internazionali hanno permesso le torture ai baschi in Spagna, ai comunisti in Italia, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania: sempre in nome, beninteso, della “lotta al terrorismo” e della difesa “pacifica” della democrazia borghese. Da Cuba al Venezuela, dalla Bolivia all’Ecuador, vediamo continuare le politiche messe in campo nel secolo scorso, tra intossicazione mediatica e arroganza imperialista, per far pesare l’argomento della “lotta al terrorismo” onde mantenere in piedi il circo perverso delle “sanzioni”.
Lo ha ricordato il ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez denunciando la grottesca decisione degli Stati Uniti di includere anche per quest’anno Cuba, insieme al Venezuela, nella “lista nera” dei paesi che “non collaborano pienamente nella lotta al terrorismo”. Via Twitter, Rodriguez ha espresso “sorpresa e irritazione” per l’annuncio del Dipartimento di Stato che “indica – ha scritto – una continuità dell’attuale amministrazione statunitense con la politica di Donald Trump”. Soprattutto perché, ha aggiunto, questo significa la permanenza di 243 misure coercitive imposte da Trump a Cuba, che soffre da quasi 60 anni per un bloqueo economico unilaterale di Washington.
Solo tra aprile 2019 e marzo 2020, le perdite causate da questa politica all’isola più grande delle Antille “hanno superato i cinque miliardi di dollari, il che rappresenta una cifra record per un solo anno”. I danni inferti alla rivoluzione durante i quasi sei decenni di blocco ammontano a 144 miliardi di dollari. Per aumentare ulteriormente la pressione sull’Avana, Trump ha deciso perciò di inserire Cuba nella lista dei paesi che non collaborano nella lotta al terrorismo. Dal 1992, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva annualmente una risoluzione che condanna e chiede la fine del blocco degli Stati Uniti contro Cuba, un criminale impedimento al libero sviluppo dell’economia cubana, dedicato a costruire medici e non strumenti di guerra. Il voto si ripeterà il 23 giugno, e il governo nordamericano cerca di imporre anche quest’anno la propria politica dei fatti compiuti, in continuità sostanziale con le scelte del precedente governo Trump.
La politica dei fatti compiuti, imposta mediante l’esautoramento delle istituzioni internazionali quando queste non si piegano ai voleri dell’imperialismo USA, è un altro degli strumenti ormai pienamente dispiegati contro i governi che devono essere distrutti o sottomessi, dentro e fuori l’America Latina. La stessa politica portata avanti da Israele contro l’eroico popolo palestinese, come si è visto con i massacri di questi giorni a Gaza. Massacri che, però, per la prima volta, paiono risvegliare le coscienze addormentate dalla propaganda internazionale, che obnubila l’asimmetria tra dominanti e dominati, così come occulta quella insita nella contraddizione tra capitale e lavoro, criminalizzando il diritto dei popoli e degli sfruttati alla rivolta.
Mentre, infatti, i padroni della rete si dedicano a sanzionare chi mostra le immagini della repressione e dei massacri che indicano un medesimo nemico da una parte all’altra del sistema globalizzato, i governanti e i loro articolati si scambiano “consigli” diretti su come perfezionare l’eliminazione dell’avversario di classe, motivandola con gli argomenti di cui sopra. “Piombo, piombo per difendere le persone perbene”, scrivono gli uribisti in Colombia, incitando ai massacri dei manifestanti, definiti “terroristi” che impediscono il libero fluire dell’economia mediante i blocchi stradali.
Che tipo di economia si decida in Colombia e chi debba pagarne i costi, è dimostrato da una protesta che dura ormai da un mese e che sta riunendo tutti quei settori che non hanno più niente da perdere se non le proprie catene. Le classi dominanti lo sanno e difendono i propri privilegi, motivando il persistere di quell’apparato repressivo che, in un mese di protesta popolare ha torturato, violentato e fatto scomparire i giovanissimi e giovanissime manifestanti.
Le manifestazioni che si stanno svolgendo in quasi tutti i paesi dove vivono le comunità colombiane, cresciute negli anni proprio a causa delle politiche di esclusione e repressione, denunciano il perpetrarsi di quotidiane violazioni di quei “diritti umani” usati come arma contro i governi che, come Cuba e Venezuela, li hanno invece messi al primo posto, dedicandosi a garantire prima di tutto i diritti elementari.
Lo vediamo in Paraguay, dove l’uccisione di due ragazzine è stata presentata come un’azione antiterrorista contro la guerriglia dell’Esercito del popolo, e dove si cerca ancora una quindicenne figlia di prigionieri politici, Lichita, fatta scomparire durante un’operazione dei militari. Una barbarie erede della lunga e feroce dittatura di Alfredo Stroessner, patrocinata dagli Stati Uniti, i cui meccanismi hanno continuato ad agire anche nel presente, rendendo impossibile ogni cambiamento vero.
Lo vediamo in Perù, dove con il pretesto del “ritorno del terrorismo” si cerca di compattare tutta la destra, e impedire la vittoria di Pedro Castillo, il dirigente dei maestri risultato vincitore al primo turno delle presidenziali, ma con un numero di voti insufficienti per battere la seconda classificata, Keiko Fujimori. La figlia del dittatore ora cerca di evitare il carcere dove dovrebbe finire per corruzione e malversazione aggravata e ha dalla sua tutto l’arco di forze reazionarie o finto-progressiste timorose che possa cambiare qualcosa in Perù a favore dei settori popolari.
Perciò, tutte le forze reazionarie si stanno coalizzando usando una volta ancora lo spettro della passata guerra di classe e attribuendo alla – peraltro scomparsa – guerriglia di Sendero Luminoso il massacro di 14 persone, tra cui diversi bambini. In questo modo, si può giustificare il persistere dell’economia di guerra e degli apparati che la dirigono, e che hanno portato in carcere anche gli avvocati difensori dei prigionieri politici mediante la pretestuosa Operazione Olimpo.
Che cosa si rimette in moto quando la destra torna a governare in America Latina, lo si è visto in Brasile, in Bolivia con il golpe contro Morales, e lo si vede ora in Ecuador, dove il banchiere Lasso sta terminando l’opera di demolizione delle politiche messe in campo da Correa, demolizione iniziata con il tradimento di Lenin Moreno. All’assunzione d’incarico di Lasso c’è stata l’esibizione di quella internazionale reazionaria che anima con ogni mezzo il conflitto di classe in America Latina e i cui fili sono tirati ovviamente dall’imperialismo nordamericano.
La presenza dei golpisti venezuelani ne è stata la manifestazione più evidente. Guaidó e la sua banda di ladroni all’estero hanno cercato appoggio per tentare anche l’arrembaggio alla rete Telesur. Per usurparne e inquinarne i contenuti, hanno creato un falso account, denunciato da una campagna internazionale ancora in corso. Uno dei centri principali delle strategie golpiste è l’ambasciata nordamericana in Colombia, dal momento che non ne esiste più una operativa in Venezuela.
Le recenti dichiarazioni di James Story, ambasciatore degli Stati Uniti per il Venezuela, che opera dalla sua sede in Bogotà, lo hanno una volta di più confermato in modo plateale. Story, infatti, ha anticipato la composizione dei “mediatori” dell’estrema destra venezuelana e i termini nei quali avrebbero avuto facoltà di agire negli incontri con il governo legittimo di Nicolas Maduro, impegnato in una nuova tornata di dialogo anche con Guaidó e compari.
Il governo bolivariano ha posto tre condizioni, tre punti chiave, ha detto Maduro: la revoca di tutte le sanzioni, il riconoscimento dell’Assemblea nazionale nata dalle elezioni del 6 dicembre 2020 e di tutti i poteri costituiti, e la restituzione dei conti bancari e degli attivi sequestrati all’estero alle istituzioni dello Stato venezuelano. Punti sui quali cerca di interferire l’amministrazione nordamericana per imporre l’agenda dei golpisti, necessaria per riportare indietro l’orologio della storia anche in Venezuela e per imporre al ricco territorio bolivariano il modello imperialista dell’economia di guerra, architrave – com’è noto – delle politiche statunitensi.
Il bilancio militare degli Stati Uniti rappresenta il 39% di tutti quelli del pianeta. Nel 2020, le spese militari statunitensi hanno raggiunto i 778 miliardi di dollari, cioè il triplo di quelle cinesi (252 miliardi). L’asse Washington-Bogotà-Tel Aviv, con il suo esercito di milizie per la sicurezza privata, centri di controllo satellitare, centri studi e giornalisti prezzolati, è fondamentale per mantenere il controllo dell’America Latina e contrastare l’influenza della Cina e della Russia nel continente.
Per estendere il loro controllo a livello globale, gli Usa si servono della rete diplomatico-consolare, dei centri di intelligence, delle basi militari offshore dislocate nei cinque continenti, ma anche di un altro comparto strategico: gli uffici di collegamento che fanno capo alle forze di contrasto USA e che agiscono all’interno delle ambasciate. Strumenti più agili e disinvolti delle stesse basi militari, che comunque per essere allestite richiedono il consenso del paese ospitante.
Avamposti all’estero delle agenzie federali per la sicurezza che agiscono come “antenne” di ricezione, controllo e contrasto delle politiche “nemiche” e di potenziali minacce alla sicurezza Usa.
Come ha rivelato anche il Newsweek, nell’ultimo decennio il Pentagono ha messo su un vero e proprio esercito parallelo di 60.000 civili, militari, prevalentemente appartenenti alle forze speciali, e contractors. Effettivi che agiscono sotto copertura e che traggono la loro principale manovalanza nei paesi dell’America latina, uno dei grandi scenari per le guerre di nuovo tipo, principalmente rivolte contro il conflitto di classe. Una parte corposa di questi effettivi occulti è costituita da specialisti di intelligence, linguisti, esperti nella guerriglia digitale, nell’hackeraggio e nella manipolazione dei media. La cifra d’affari manovrata da un pugno di agenzie governative nordamericane che agiscono nell’ombra ammonta a circa 900 milioni di dollari in termini di appalti e contratti erogati a oltre un centinaio di aziende private che ne devono supportare l’intera attività.
Sono queste reti che forniscono il carburante alle campagne mercenarie contro i governi da assoggettare, sia in termini militari che mediatici. Da questi centri parte la diffusione di statistiche e annunci che devono pesare sulla politica di un determinato paese. E così, ecco che il ricercato Julio Borges, ha annunciato come una propria vittoria una prossima Conferenza Internazionale dei Donanti, indetta dal Canada il 17 giugno a favore dei migranti venezuelani, a cui Biden ha confermato il finanziamento l’8 marzo.
Finanziamento che, ovviamente, andrà a quelle politiche per la sicurezza di cui si nutrono i governi subalterni a Washington e le istituzioni che, come l’Unione Europea, li sostengono, diventando improvvisamente generose come non sono affatto nei confronti dei popoli e dei migranti dei propri paesi. Quasi un anno fa, una conferenza analoga aveva fruttato un bel bottino alla banda di Guaidó: 2.544 milioni di euro, 595 milioni dei quali, erogati direttamente e in gran parte finiti nelle capaci tasche degli autoproclamati.
In questi giorni, una dozzina di paesi latinoamericani si è riunita a Lima al riguardo, per emettere l’ottava Dichiarazione Congiunta del Processo di Quito, sottoscritta in presenza di delegati dell’agenzia Onu per i rifugiati (Acnur) e dell’Organizzazione per le Migrazioni (Oim) insieme agli Stati destinatari di queste politiche.
Il Processo di Quito è un altro capitolo di quelle istituzioni artificiali creato contro il Venezuela bolivariano nel 2018 per iniziativa dell’Ecuador di Moreno. Con la presidenza pro-tempore del Perù ha incluso il Regno Unito, l’Italia, il Banco Interamericano di Sviluppo (Bid) come nuovi membri del Gruppo di Amici formato prima da Spagna, Paesi Baschi, Svizzera, Germania, Francia, Unione Europea, Stati Uniti e Canada, che ora organizza, appunto, la nuova Conferenza dei Donanti. Altri paesi membri sono Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Guyana, México, Paraguay, Panamá, República Dominicana, Perú e Uruguay. Ora la presidenza passa al Brasile di Bolsonaro.
Il Gruppo di Amici formato da otto paesi della cosiddetta Comunità Internazionale, istituito nella settima riunione, partecipa a riunioni plenarie e spazi tecnici e agisce anche sull’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) dalla quale, non a caso, stanno partendo di nuovi attacchi al Venezuela.
Traffici che hanno avuto un ulteriore corso durante gli “incontri bilaterali” per l’assunzione d’incarico del banchiere Lasso in Ecuador, patrocinati dalla rappresentante degli Stati Uniti, Julie Chung. Un ulteriore escamotage per sottrarre altri miliardi al popolo venezuelano e per contrastare con la menzogna le stesse statistiche di una firma non certo a favore del socialismo com’è quella di Torino Economics, patrocinata dalla Banca di investimenti Torino Capitale, che si dedica ad analizzare i fatti economici e politici rilevanti per il mercato in Argentina, Ecuador, Bolivia e Venezuela.
Dopo essersi rammaricata perché l’azione delle istituzioni artificiali come il gruppo di Lima non abbia prodotto risultati contro il governo Maduro, l’istituto di analisi ha comunque quantificato i danni prodotti all’economia venezuelana dalle misure coercitive unilaterali imposte dagli Stati Uniti, ha descritto lo scontro in corso fra le varie tendenze politiche dell’amministrazione Biden circa un loro incremento o una loro sospensione, e ha dovuto riconoscere l’efficacia delle politiche contro il bloqueo messe in atto dal governo bolivariano. E ha previsto una ripresa per l’economia venezuelana.
Ma per evitare che il Venezuela si stabilizzi e continui a sviluppare la sua “diplomazia di pace con giustizia sociale” all’interno delle alleanze che, con Cina e Russia al centro, si muovono per la costruzione di un mondo multicentrico e multipolare, vediamo una nuova poderosa alzata di scudi a livello internazionale, animata dalle lobby al soldo di Washington: a cominciare da Amnesty International, che ha protestato perché il governo argentino, tornato al progressismo, ha deciso di sfilarsi dalla denuncia presentata alla Corte penale internazionale contro Maduro dall’arco dei governi conservatori, che si considerano “difensori dei diritti umani”.
Uno scontro che si fa evidente anche all’interno del Mercosur, dove le forze conservatrici spingono perché si ratifichi l’accordo di libero commercio con l’Europa, si ratifichi l’esclusione del Venezuela, e si determini il passaggio definitivo nel campo di Washington. Per impostare il nuovo multilateralismo modello nordamericano nella regione, il presidente della Banca interamericana di sviluppo, Mauricio Claver-Carone, è arrivato a Quito, nel suo primo viaggio in America latina. Ha incontrato il banchiere Lasso e vari membri del suo governo e ha promesso oltre 1.000 milioni di dollari nel 2021.
Si tratta – ha spiegato Carone – di 553 milioni di dollari per rafforzare l’amministrazione doganale e fiscale, migliorare la connettività digitale, rafforzare l’accesso alla giustizia, migliorare l’interconnessione energetica con il Perù e fornire anche un meccanismo finanziario che faciliti l’acquisto di vaccini. E poi, un prestito di 500 milioni di dollari per cosiddetti programmi sociali dedicati ai più vulnerabili.
Come dire: una volta deciso chi comanda, apriamo i cordoni della borsa. In che modo, lo si è visto in Cile durante il secondo governo Piñera, che aveva vinto in base alle stesse trappole retoriche secondo cui solo i banchieri possono salvare dalle crisi che le loro politiche provocano, come abbiamo visto con Draghi in Grecia, eccetera eccetera.
In assenza di una forte organizzazione di classe che faccia crescere la coscienza del proletariato e attragga a sé anche altri settori popolari impoveriti, la trappola funziona sempre. Per questo, occorre demonizzare e demolire chi cerca di costruire un’alternativa, come il Venezuela e prima ancora Cuba. E anche quando la conclamata crisi delle politiche neoliberiste e della democrazia borghese porta a una ripresa delle forze alternative, come si è visto in Cile con la vittoria dei comunisti in importanti bastioni comunali, bisogna occultare la realtà della democrazia partecipata e protagonista del Venezuela, che resiste da 22 anni.
Un processo messo in moto dall’approvazione dell’Assemblea nazionale costituente che, nel 1999, ha licenziato la nuova Carta Magna e ha messo al centro il potere popolare. Il messaggio è semplice: con o senza rivoluzione, con o senza dittatura del proletariato, il socialismo non deve passare, lasciate manovrare il solito manovratore.
Ho visitato Venezuela e sono in contatto con persone che sono rifugiate in Costa Rica, vittime dell’autoritarismo di Maduro.
Ho visitato Cuba e sono in contatto con persone che non possono andarsene da Cuba, e che vivono in situazione di estrema povertá.
Sono in contatto da piú di 40 anni con la Rete Radié Resch, grazie a questa organizzazione ho avuto la fortuna di conoscere Lula, Leonardo e Waldemar Boff, Frei Betto, Rigoberta Menchú Tum, Marcelo Barros, Paulo Freire. Sono amico di Antonio Vermigli..
Geraldina Colotti, autrice di questo articolo, non parla del Nicaragua di Ortega – Murillo. Sono interessato a conoscere la sua opinione su questo paese, in cui ho vissuto per 25 anni e da cui sono stato espulso.
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Sono un cittadino del mondo, umile artigiano costruttore di ponti e seguace di chi ci ha insegnato ad amare il prossimo, e a combattere per la verità, la libertà e la giustizia.
Mio nonno Antonio Ferrerio é stato il primo industriale a fabbricare in Italia le calze di nylon. Ho vissuto fino a 24 anni nella famosa via Montenapoleone, a Milano.
Un viaggio a Lourdes nel 1972 mi fece riflettere sui miei privilegi di essere giovane, autosufficiente e ricco di beni materiali. e cambiai la mia vita. Lasciai il mio avviato lavoro di consulente assicurativo e cercai di condividere la mia vita con “le pietre scartate dai costruttori”.
Ho organizzato gruppi di volontariato (GARS, Gallarate-VA), cooperative di lavoro (Ceramiche gallaratesi-Aloisianum, divenuta poi IRIS servizi, Ribebba (Varallo Sesia-VC), Sim-patia (Valmorea-CO), Il Tralcio (Montecalvo Versig-gia- PV), comunitá di accoglienza (ANFFAS, Maddalena-Somma Lombardo-VA), campi di lavoro internazionali (IBO, Soci costruttori, Casalpusterlengo- LO). Ho cercato di trasformare Istituti-lager (Tropeano, Ponticelli, Napoli e Santa Maria delle Grazie, Pianura, Napoli) e fatiscenti (Fraternitá di Pioltello-MI). Ho aperto ristoranti di solidarietá (Trattoria di Francia, Montecalvo Ver-siggia- PV, Trink Platz, Legnano-MI, Ligabue, Masaya, Nicaragua), botteghe del commercio equo e solidale (Milano, Montecalvo Versiggia- PV, Somma Lombardo-VA), Ho accolto con l’amico Don Renzo Scapolo in Valmorea-CO) oltre 1000 profughi del Libano e della Siria tra il settembre 1989 ed il maggio 1990. Ho cercato di impegnarmi anche in politica, ricordando che Paolo VI la considerava la piú alta forma di caritá, nel Partito Radicale, nella Rete di Leo-luca Orlando, nella sinistra del PSI, nell’Italia dei Valori e nel Movimento Cinque Stelle.
Nel 1989 ho visitato Nicaragua e nel 1994 mi sono trasferito in questo paese, Ho quindi ottenuto la cittadinanza, dopo aver fondato una Missione cattolica ed una scuola dedicata a don Lorenzo Milani. A partire dal 2007, per aver di-feso la libertá e la democrazia, sono stato più volte arrestato, condannato ingiustamente ad un anno di carcere, perseguitato ed infine espulso dal Nicaragua di Ortega.
Mi é poi stata sottratta mia figlia Raffaella ed ho dovuto vivere due anni in Costa Rica per poterla finalmente riabbracciare. Ho perso le case e la scuola che avevo fondato in Nicaragua e la mia casa italiana.
Oggi, dopo una breve esperienza a Lampedusa, vivo a Spoleto, accogliendo rifugiati ed aiutando sorelle e fratelli del Nicaragua a sopravvivere nella tra-gica realtá economica, politica e sociale della dittatura assassina di Ortega-Murillo.
Sto cercando di creare una serie di contatti positivi che mi aiutino, tra mille difficoltà, a lavorare assieme ed a continuare ad opporci alla violenza quotidiana che opprime il povero, affinché egli si trasformi in attraverso la presa di coscienza, l’educazione e la formazione in soggetto della propria liberazione.
Sono membro di Pax Christi, di Noi siamo Chiesa, Libera, Emergency. Sono socio di Amnesty International a Perugia e dell’ANPI a Rescaldina (Milano). Sono in contatto con la Rete Radié Resch. . La mia storia la potete leggere qui: https://www.facebook.com/notes/661772528102427/ https://www.laprensa.com.ni/2017/10/29/suplemento/la-prensa-domingo/2322266-alberto-boschi-de-nino-rico-a-misionero-exiliado. https://www.elnuevodiario.com.ni/especiales/83769-huellas-misionero-nicaragua/ https://www.elnuevodiario.com.ni/politica/83531-creo-democracia-ortega-poder-dinero/ https://www.facebook.com/notes/alberto-boschi/mi-compromiso-con-los-pobres-mi-lucha-no-violenta-en-defensa-de-la-democracia-la/10153487750251304/
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ALBERTO STEFANO ANTONIO BOSCHI
Spoleto, 5 giugno 2021
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