Per noi la foresta è tutto. E’ la casa che ci nutre e ci protegge, che fa crescere i nostri bambini e ci dà gioia e lavoro. Non sapremmo vivere altrove, né riusciremmo ad immaginarlo. Per questo non comprendiamo l’aggressione del governo e dei fazendeiros, che puoi vedere dilagare dietro quella collina, alla nostra foresta”. Antonio parla con passione, e dalle sue parole traspare una gratitudine ancestrale, che sembra scaturire dalla stessa radice degli alberi. Ma le parole del giovane bisnonno mi colpiscono soprattutto perché a pronunciarle non è un indios, un figlio della foresta, ma un meticcio afro-brasiliano, un contadino discendente dagli schiavi d’Africa. Nella cui parlata a ondate, ascolti spesso tornare una parola bellissima: “o cuidado”, la cura, la custodia della Terra. Una parola centrale nella cultura dei popoli latinoamericani, che caratterizza anche la loro religiosità, ed è particolarmente cara alle giovani generazioni del movimento ecologico globale, oltre che a papa Francesco e ai poeti d’ogni latitudine, fino al nostro Battiato. E che, come un nume tutelare, ha guidato le otto ore della mia prima “incursione” nella foresta amazzonica.
Lasciata Castanhal (a un’ora di auto da Belem) si va ad ovest per non più di venti chilometri, oltre il villaggio di Itaquì, dove comincia la strada sterrata rossa delle foreste pluviali. Costeggiando ampi tratti di foresta ridotta a triste savana, e tratti di foresta rimasta quasi intatta, si giunge infine in un villaggetto di 5,6 case (compresa quella della preghiera), abitato dalla famiglia di Antonio e da altre due, dove con un solo colpo d’occhio inquadri la bisnonna e la nonna che lavorano e sorridono accanto alla figlia e al suo marmocchio, quattro generazioni riunite! Abitano una parte di foresta ferita, ma che grazie al loro aiuto, resiste e guarisce. Questa comunità di agricoltori, amici della foresta, da qualche anno ne stanno rimboschendo i tanti vuoti piantandovi una ricca varietà di alberi da frutta, il cui solo elenco è già gustoso: l’ ananas, il cacao, il mango, la papaya, il cocco, la banana, il frutto della passione, la maracuja, la guava, l’avocado, la castagna del Parà, il durian, la feijoa, e la manioca per la farina da cucina. Ne fanno succhi, marmellate, cioccolata, farina e creme che vendono, con il miele, la carne di galline allevate in modo umano e unguenti medicinali tratti da speciali radici, nei mercati di Belem e di Castanhal. Ma, allo stesso tempo, mettono a dimora nei loro vivai i semi dei giganti della foresta che mano a mano pianteranno al posto di quelli abbattuti, dopo aver ripulito accuratamente il terreno!
Un modello straordinario di agricoltura integralmente sostenibile (non esistono pesticidi né fertilizzanti chimici), rispettosa della Terra, del consumatore e della grande foresta amazzonica, e che suona di per sé come radicale condanna del rapace agrobusiness. Un modello di economia circolare e riparatrice tanto più importante in quanto elaborato “dal basso”, nel rispetto sereno della natura e nella gioia di una simbiosi con la foresta, che mi hanno lasciato incantato.
Otto ore nella foresta vissute, insomma, come una iniziazione!
Era domenica, e dopo la liturgia della Parola, c’è stato spazio anche per una festa, un “dejeuner dans la foret” a base di lasagne di manioca, di carne di pollo e di un arcobaleno di succhi che sembravano carezze della natura. Mentre attorno alla veranda volavano una farfalla blu e uno stormo di uccelli dalla livrea gialla e rossa.
Come la riscoperta di un tempo perduto, che può ancora essere il nostro futuro.