Il battello diretto a Ischia faceva scalo a Procida. Entrava nel porto e approdava di poppa dopo un’elegante giravolta che schiumava di bianco.
Un semicerchio di case basse a tinta di pastello dava il benvenuto.
Su un’altura incombeva il massiccio carcere borbonico. L’attrito era evidente anche a un bambino, il tempo delle vacanze al mare sfilava sotto il tempo sbarrato.
La strepitosa bellezza delle geografie insulari è stata accoppiata alle reclusioni. C’era la villeggiatura e la botola.
Ho imparato presto che l’ombra non è solo un riparo dalla luce, ma un dispositivo penale.
Lentamente per praticità sono stati chiusi diversi penitenziari nelle isole. Quello famigerato sull’Asinara fu svuotato nel 1998.
Procida sarà capitale della cultura nell’anno venturo. Da molto tempo non sbarcano più al suo molo i parenti dei detenuti coi loro pacchi e le loro visite da perquisire.
Restava illeso il mare, quello dei mercanti Fenici, dei Greci che lo navigavano fondando città in Italia, di Roma che lo nominò con affetto: Nostrum.
Oggi il suo fondale è la fossa comune degli innumerevoli, intralciati nel viaggio non dalle tempeste ma dalle omissioni di soccorso organizzate e praticate da governi puntigliosamente incapaci. L’Italia, cioè anche io, ha rinnovato il finanziamento ai pirati libici, definiti guardia costiera da alcuni spensierati.
In questi giorni rivedo il mare che mi ha formato lo scheletro col nuoto e mi ha spalancato gli orizzonti. Non lo riconosco.