Il movimento Sem Terra si batte per la riforma agraria ora conquista il mercato dei capitali. Il ricavato verrà distribuito a 13mila famiglie
Obiettivo raggiunto. In meno di un mese, il movimento Sem Terra ha vinto la sfida di raccogliere l’equivalente di 2,8 milioni di euro. In Borsa. Precisamente nella grande Borsa di San Paolo, cuore finanziario del Brasile. Un paradosso apparente per la maggiore organizzazione popolare del mondo, impegnata nella creazione di alternative comunitarie e solidali al neoliberismo sfrenato. Nata negli Settanta in opposizione alla riforma agraria voluta dalla dittatura – che prevedeva il trasferimento in massa dei contadini nelle regioni isolate e remote con il proposito di “colonizzarle” –, si batte per la riforma agraria e la redistribuzione delle terre lasciate improduttive dagli enormi latifondi. Una sfida, dunque, al sistema di concentrazione fondiaria – tra i più alti del globo –, all’origine della tremenda disparità sociale, tra le più alte del Continente, a sua volta, più diseguale del pianeta. Ora, con le sue 160 cooperative e oltre mille associazioni, i Sem terra riuniscono oltre 140mila famiglie contadine, escluse – come il 40 per cento dei cittadini – dal circuito economico tradizionale. Facendo rete, questi ultimi sono riusciti a ritagliarsi uno spazio non marginale: riforniscono le mense di scuole e ospedali di duecento municipi. E sono presenti nel circuito della vendita al dettaglio, organizzata in empori in modo da bypassare le grandi catene di distribuzione. Stavolta, però, il movimento ha scelto di entrare nella “tana del lupo”: il mercato dei capitali. Ma a modo suo. Con il proposito dichiarato, cioè, non di “fare business”, bensì di sostenere la produzione – quasi tutta organica – di 13mila famiglie contadine riunite in sette cooperative degli Stati di San Paolo, Mato Grosso do Sul, Paraná, Santa Catarina e Rio Grande do Sul. A queste ultime – questo è l’aspetto più innovativo e interessante dell’iniziativa – sarà devoluto l’intero ricavato.
Il programma di Finanziamento popolare dell’agricoltura familiare per la produzione di alimenti sani o Finapop – come è stato chiamato – rientra nella battaglia del movimento per democratizzare e diversificare gli investimenti che, così, diventano un mezzo per favorire la redistribuzione della ricchezza. Per questo, la somma minima per acquistare i titoli dell’organizzazione – ovvero i “Certificados de recebíveis do agronegócio” (Cra) – è stata tenuta relativamente bassa: circa 16 euro, per quella massima ci vogliono poco più di 160mila euro. La gran parte dei compratori – 1.518 –, dunque, sono piccoli risparmiatori, desiderosi di finanziare l’agricoltura popolare e sostenibile, perché i campi sono lavorati senza pesticidi. In cambio, i sottoscrittori ottengono un guadagno fisso annuo del 5,5 per cento. Lo “stratega” dell’operazione è Eduardo Moreira, ex banchiere 45enne, rampollo di una famiglia benestante di Rio, con studi in California. Moreira avrebbe proseguito la sua promettente carriera nel settore finanziario se, nel 2015, dopo una lunga malattia, non avesse iniziato ad approfondire la questione della diseguaglianza. E avesse deciso di rimboccarsi le maniche per contribuire ad attenuarla, almeno un po’. Da qui è nata la collaborazione con i Sem Terra. Moreira considera il capitalismo «un male necessario». Non vuole distruggerlo ma renderlo più umano. Come Bob Kennedy, l’ex banchiere è convinto che il Pil misuri tutto tranne ciò per cui vale la pena di vivere. «Per questo, il suo incremento non significa molto. Soprattutto se, come il nostro, dipende da ricchezze inviate dall’estero, spesso senza pagare alcuna tassa, o dai grandi latifondi che non danno lavoro né degno né sviluppo», spiega. Da qui, l’idea di Finapop, «un modo – sottolinea – affinché il denaro arrivi a quanti mettono la terra e il loro lavoro a servizio del miglioramento della vita di tutti, producendo cibo».Sono proprio i piccoli contadini – e non le sterminate “fazendas” (proprietà) che praticano l’agricoltura intensiva – a sfamare sette brasiliani su dieci. Lo stesso accade nel resto del pianeta, come hanno più volte ribadito le Nazioni Unite. «Gli investitori non sono cattive persone. Spesso, però, in modo inconsapevole, finiscono per supportare progetti che favoriscono l’ingiustizia. Stavolta abbiamo dato loro la possibilità di finanziare il sogno di un mondo più equo. E tanti lo hanno fatto». Se l’offerta pubblica rappresenta un inedito, non è, tuttavia, la prima volta, che i Sem Terra si lanciano in avventure finanziarie ardite per sostenere i propri progetti. Anche se finora lo avevano fatto su scala ridotta.
Il principale problema per le loro cooperative è la difficoltà di ottenere prestiti dalle grandi banche. Nel 2020, il movimento ha raccolto circa 200mila euro tramite un’offerta privata per creare una fabbrica per la lavorazione dei prodotti agricoli a Nova Santa Rita, nel Rio Grande do Sul. Là, dal 1995, i Sem Terra hanno creato una cooperativa che include 29 famiglie, per un totale di un’ottantina di persone, impegnate nella produzione di riso organico e carne suina. Con l’offerta pubblica, però, l’organizzazione ha infranto un tabù. Certo, per riuscirci ha dovuto percorrere una strada in salita. Tre giorni dopo averla lanciata, il 27 luglio, l’operazione è stata bloccata dalla Commissione per i valori immobiliari del ministero dell’Economia. Motivo: i documenti presentati non precisavano se le sette cooperative in questione fossero direttamente legate ai Sem Terra, «informazione cruciale affinché gli investitori potessero scegliere». L’organizzazione ha risposto che, poiché non si trattava di un gruppo economico ma di un movimento sociale, il legame era determinato in modo meno vincolante. Dopo quasi un mese di tira e molla, il 23 agosto, è arrivato il via libera. Il traguardo è stato tagliato ufficialmente il 15 settembre.