Quelli chiusi nei recinti al capolinea di viaggi senza arrivo; quelli in fila davanti a una mensa per un pasto gratuito; quelli messi a lavori pesanti con salario leggero: il linguaggio corrente li definisce con un accenno di commiserazione: gli ultimi.
La parola indica la graduatoria di una competizione, un risultato finale.
Non è così per me. Vedo queste persone come avanguardie del presente in corso.
Lo sperimentano, lo esplorano con scarsità di mezzi e attaccamento alla vita stremata.
Se fossero naufraghi su un’isola disabitata, li chiameremmo resto salvato e primizia di nuovo insediamento.
Le loro baracche, i loro accampamenti sono avamposti nelle intemperie, prove di sopravvivenza.
Se arrivano a racimolare un risparmio lo spediscono a famiglie lontane.
Chi disse: ”Gli ultimi saranno i primi” intuì il capovolgimento dei fronti e la provvisorietà di ogni precedenza. La sua frase ha incontrato la musica di Bob Dylan in The Times they are a changing: ”and the first one now will later be last“. Conosco un giovanotto, Lorenzo Barone, che ha girato in bicicletta la Siberia in inverno e che in questi giorni sta battendo piste di Lapponia oltre il Circolo Polare Artico. È un esploratore di bordi in estremità di condizioni.
Così considero le persone definite dalle cronache: ultime. Seminano invece campi e tempi difficili, dissodano il tempo futuro.
Chi vuole conoscere i prossimi della specie umana, li trova presso di loro.
Sono caparra e anticipo, niente a che spartire con il fondo delle classifiche.