Invio una riflessione inviatami da Leonardo Boff, fratello di Waldemar, anch’egli abitante a Petropolis, a partire dalla devastazione causata dalle inondazioni e le frane che si sono abbattute sulla città.
Un caro saluto, Antonio
La catastrofe ecologica che si è verificata a Petrópolis in questo febbraio 2022 con piogge, immense frane, inondazioni di intere regioni, distruzione di centinaia di case, sentieri e strade e con quasi 400 vittime tra morti e dispersi, solleva responsabilità politica, ecologica, delle autorità pubbliche e conseguenze dovute alla nuova fase della Terra sotto il riscaldamento globale accelerato.
C’é irresponsabilità delle autorità pubbliche per non essersi prese cura delle popolazioni povere, spinte nelle scogliere della città. C’è il fatto geofisico della montagna con fitti boschi sostenuti su rocce e suoli inzuppati dalle piogge che causano frane. C’è la popolazione stessa che, per mancanza di dove andare, si é strutturata in luoghi pericolosi. C’è l’allarme ecologico-climatico che sbilancia il regime delle piogge che si è manifestato in varie regioni del paese e ora nella catena montuosa di Petrópolis ma in generale in tutto il pianeta, e altri motivi che non si adattano ad essere valutati qui. Tutti questi dati meriterebbero di essere approfonditi e persino di indicarne i colpevoli.
Ma insieme a questo, emerge un’inevitabile domanda esistenziale e teologica: molti si chiedono: dov’era Dio in questi momenti drammatici a Petropolis, causando tante vittime, molte delle quali innocenti? Perché non è intervenuto se, poiché era Dio, avrebbe potuto farlo? La stessa domanda continua a ripetersi: dov’era Dio quando i coloni cristiani commisero barbari genocidi dei popoli indigeni occupando le loro terre nelle Americhe? Perché Dio ha taciuto davanti alla Shoá, allo sterminio di sei milioni di ebrei mandati nelle camere a gas dai nazisti o dei morti nei gulag sovietici e di tanti altri genocidi? Dov’era?
Questa domanda straziante non è quella di oggi. Ha una lunga storia, dal filosofo greco Epicuro (341-327 aC) che per primo lo formulò, chiamato “il dilemma di Epicuro“. È il rapporto irrevocabile di Dio con il male. Epicuro sosteneva: “O Dio vuole eliminare il male e non può quindi essere onnipotente e cessa di essere Dio. Oppure Dio può sopprimere il male e non lo vuole, quindi non è buono e non è più Dio”.
In un ambiente cristiano, ha ottenuto una formulazione simile: Oppure Dio avrebbe potuto evitare il peccato di Adamo ed Eva, la base della nostra malvagità, e non lo voleva, quindi non è buono per noi umani o Dio non poteva non essendo, onnipotente e quindi non anche buono per noi. In entrambi i casi, cessa di apparire come il vero Dio. Questo dilemma rimane aperto fino ad oggi, senza ricevere una risposta adeguata con le risorse della ragione umana.
Le eco-femministe sostengono giustamente che questa visione di un Dio onnipotente e signore assoluto è una rappresentazione della cultura patriarcale che è strutturata attorno a categorie di potere. La lettura eco-femminista è guidata da un’altra rappresentazione di una Madrina, legata alla vita, solidale con la sofferenza umana e profondamente misericordiosa. È sempre con il sofferente.
Indipendentemente da questa discussione sul genere, si deve affermare che il Dio biblico non è indifferente alla sofferenza umana. Di fronte all’oppressione in Egitto di tutto il popolo ebraico, Dio udì il grido degli oppressi, lasciò la loro trascendenza, entrò nella storia umana per liberarli (Es 3,7). I profeti che hanno inaugurato una religione, basata sull’etica, piuttosto che sull’adorazione e sul sacrificio, testimoniano la Parola di Dio: “Sono stanco e non sopporto le vostre feste… cercate il diritto, correggete l’oppressore, giudicate la causa dell’orfano e difendete la vedova” (Is 1,14.17). Voglio misericordia, non sacrificio!
Sulla base di questa visione biblica c’erano teologi come Bonhöfer e Moltman che parlano di “un Dio impotente e debole nel mondo”, di un “Dio crocifisso” e che solo questo Dio che assume la sofferenza umana può aiutarci. L’esempio più grande ci sarebbe stato dato da Gesù, il Figlio di Dio incarnato che si è lasciato crocifiggere e che, sull’orlo della disperazione, grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mc 15,34).
Questa visione ci mostra che Dio non ci abbandona mai e che partecipa alla passione umana. I fedeli possono superare il sentimento di abbandono e impotenza e sentirsi accompagnati. Perché la cosa terribile della sofferenza non è solo la sofferenza, ma la solitudine nella sofferenza, quando non c’è nessuno che ti dica una parola di conforto e ti dia un abbraccio di solidarietà. Così la sofferenza non scompare ma diventa più sopportabile.
Tuttavia, la domanda rimane aperta: perché anche Dio deve soffrire, stabilendo anche un legame profondamente umano con il sofferente, alleviando il suo dolore? Perché soffrire nel mondo e anche in Dio?
Non mette a tacere la nostra messa in discussione della consapevolezza che la sofferenza appartiene alla vita e che il caos è la struttura dell’universo stesso (una galassia ne inghiotte un’altra con una distruzione inimmaginabile dei corpi celesti).
Ciò che possiamo ragionevolmente dire è che la sofferenza appartiene all’ordine del mistero dell’essere. Non c’è risposta al perché esista. Se ci fosse, scomparirebbe. Ma continua come un piaga aperta in qualsiasi direzione in cui guardiamo.
Forse un giorno farà un passo nella lotta per superare la sofferenza: soffrire in modo che gli altri non soffrano o soffrano meno. Questa sofferenza è degna e ci umanizza. Ma sta ancora soffrendo. Ecco perché simpatizziamo e soffriamo insieme ai parenti di Petropolis e di ogni altra parte, che hanno perso i propri cari e pregano per le vittime.
È un atto di ragione, una ragione per riconoscere ciò che va oltre. Si appoggia davanti a qualcosa di più grande, di fronte al mistero e ci costringe ad ammettere che la sofferenza c’è, produce tragedie e morti di innocenti. Non c’è risposta. È riservata a Dio. Spetta a lui rivelare definitivamente il significato del senso dell’insignificante.